Globalizzazione della durezza
L’Occidente globalizzato nel suo tramonto nichilistico si caratterizza per un generale analfabetismo emotivo e sentimentale. L’analfabetismo dei sentimenti a cui si assiste, e di cui quotidianamente ci si scandalizza può essere compreso solo all’interno della cornice crematistica che impera e regna. Il trionfo della razionalità calcolante e produttiva non ammette limiti al suo imperio. La natura morale universale è giudicata come elemento inibente nello sviluppo delle forze produttive, pertanto si scinde il legame tra teoria e prassi e tra razionalità e sentimento etico. La struttura economica necessita di un’umanità mutila della sua profondità etica nella quale razionalità oggettiva e vita emotiva trovano la loro massima configurazione. L’antropologia capitalistica ha elaborato una visione dell’essere umano come di un essere devoto allo scambio e che realizza se stesso solo nell’attività mercantile. Il fine è creare un vuoto interiore in ogni essere umano da riempire con la logica dell’utile e dell’accumulo che devono sostituire ogni finalità etica. Il sistema non vuole solo atomizzare, ma deve anche recidere la totalità fondamento della persona, e affinché questo possa essere deve isolare, spingere alla competizione per mutilare l’umanità del senso etico. Ogni mutilazione implica una ferita, la quale palesa l’irrazionalità dolorosa di tale pratica sociale, che vorrebbe fondare l’uomo nuovo, sogno di ogni totalitarismo, ma in realtà, ottiene solo un’umanità sofferente e senza speranza. Le passioni tristi di cui è intessuto il capitalismo nella sua fase neoliberista sono la verità di un sistema patologico ed irrazionale. Negare la natura morale significa consegnare l’umanità al caos della violenza, all’infelicità perenne tra le miserie dell’abbondanza per i privilegiati, e alla miseria migrante per i nativi degli Stati neocolonizzati e sfruttati dalle logiche imperiali, in entrambi i casi regna l’anomia etica e l’incuria nelle relazioni umane e ambientali:
“La ragione umana è una ragione morale, ovvero una ragione che si occupa non solo di provvedere alla propria sussistenza, ma di ricercare teoreticamente la verità dell’intero (questo il compito della filosofia)e delle sue parti (questo il compito delle scienze), nonché di agire praticamente per il bene, per rendere migliore la permanenza in vita. Proprio questa attività dell’uomo insieme teorica e pratica, che gli è necessaria – teoria e prassi peraltro, come mostreremo, interagiscono fra loro in maniera circolare –, costituisce una ulteriore prova del fatto che l’uomo possiede una natura insieme razionale e morale[1]”.
Filosofia ed etica
In questo contesto connotato dall’antiumanesimo la filosofia deve segnare la sua presenza critica e propositiva. Non si tratta della filosofia accademica, la filosofia all’ombra del potere non può riportare il problema morale alla sua comprensione storica. Solo la filosofia che non ha tradito la sua vocazione teorica e pratica ed ha come fine la buona vita degli esseri umani, può agire, affinché “la cura” della comunità sia il principio di un nuovo inizio a misura di essere umano e non di mercato:
“La filosofia, tuttavia, non si ferma mai al problema. Essa procede invece alla ricerca di risposte ai problemi, proprio in quanto la sua dimensione costitutiva è non solo quella della ricerca (verità), ma anche della cura (bene), dunque della soluzione ai problemi. La filosofia, infatti, per la sua dimensione insieme teorica e pratica – conseguenza della natura insieme razionale e morale dell’uomo –, non si appaga nel limitarsi a capire, ma deve sempre anche valutare, ossia prendere posizione sui temi etico-politici, eventualmente per modificare la situazione in base a un fondato progetto migliorativo della condizione umana[1]”.
Luca Grecchi procede per definizione e distinzione in modo da chiarire il problema, e far emergere dal caos delle parole travolte dal flusso ininterrotto e anonimo delle mercificazioni e dall’autopromozione i significati con cui definire i problemi e indicare l’alterativa all’anomia vigente. Definire e distinguere è già un atto che implica dolcezza e cura, in quanto riportare i significati alla loro verità è un atto etico con il quale si dona senso e si indica il percorso per ritornare a se stessi dopo la dispersione nichilistica:
“L’atto teoretico della definizione è anzi un atto necessario di rispetto per la verità e di cura per il bene. Al contrario, rischia di lasciare l’uomo alla violenza insita nelle regole dell’attuale modo di produzione sociale chi afferma che una natura umana non esiste – o, il che è lo stesso, che esiste ma è mutevole –, e che dunque l’uomo non si può definire poiché privo di una essenza stabile. Per costui, l’uomo deve semplicemente adattarsi alle modalità sociali dominanti, anche se esse negano il suo desiderio di ricercare con verità e di agire bene[2]”.
Dolcezza e cura
L’economia privatistica ed acquisitiva non ha cura degli esseri umani, li omogeneizza alle merci, li riduce ad enti mossi dal valore di scambio, è negazione del valore della dolcezza, anzi quest’ultima è guardata con sospetto fino alla derisione. Non è solo ignoranza del bene, ma è paura di una verità umana rimossa, di cui si temono gli effetti anticrematistici. La dolcezza è non solo cura, ma espressione del bene, ovvero della buona vita che necessita di relazioni fondate sulla razionalità etica. La dolcezza è pratica della reciprocità nella cura liberata dal vincolo proprietario-acquisitivo. L’essere umano è, in tal modo, valorizzato per la sua soggettività irripetibile, nello sguardo che sa vedere vi è la dolcezza del bene:
“Pensiamo agli uomini: se trattati con rispetto e cura, tendenzialmente, essi ricambiano con rispetto e cura, dato che le relazioni umane sono solitamente caratterizzate da reciprocità. Se le cose stanno così, rapportandosi agli altri enti con rispetto e cura sarà realizzato anche il nostro bene, poiché essi si rapporteranno a noi con rispetto e cura. La regola generale della reciprocità nelle relazioni etiche è ben esplicitata da quella che, verosimilmente, costituisce la regola etica più universale che sia mai stata formulata, ossia la cosiddetta «regola d’oro», non a caso presente in molte civiltà antiche[1]”.
Cos’è un mondo senza cura e senza dolcezza? Lo viviamo ogni giorno, il quotidiano è nell’ottica dell’indifferenza, ciascuno è solo un mezzo per l’altro, tra l’essere umano e gli enti che normalmente si usano non vi è differenza, e ciò diviene abitudine alle cattive relazioni nelle quali ci si sente perennemente minacciati. La violenza non risparmia nessuno ed inquina le parole, in primis, per trasmettere la violenza ad ogni elemento dinamico della vita. La normalità del male è codificato mediante le leggi del mercato che divengono leggi bronzee su cui curvare ogni atto e parola:
“Se il bene possiede come elementi costitutivi essenziali il rispetto e la cura, il male, che costituisce il suo opposto, possiede come elementi costitutivi essenziali la mancanza di rispetto e di cura. La mancanza di rispetto, in generale, tende a sfociare nella violenza, fisica o verbale (calpestare un fiore, trattare sgarbatamente uno studente, eccetera). La mancanza di cura, in generale, tende invece a sfociare nella indifferenza (non curarsi del terreno arido intorno a un fiore, del disagio visibile anche se non espresso da uno studente, eccetera). La mancanza di rispetto e di cura, in ogni caso, configura il male[2]”.
Definizione di dolcezza
La definizione di dolcezza consente di comprendere il presente mediante la sua assenza. Non si tratta solo di una fenomenologia della dolcezza, ma anche di ricostruire un quadro storico, in cui siamo implicati con le nostre personali responsabilità. La dolcezza definita mediante la medietà aristotelica non è mollezza, non è durezza, ma cura attiva dell’altro, consente un percorso di avvicinamento etico all’alterità nella consapevolezza che essa dev’essere declinata nel rispetto dei contesti e delle contingenze. La dolcezza non è antitetica alla razionalità, ma la presuppone, perché agire con dolcezza significa mediare la cura con le differenti situazioni, circostanze, personalità con cui si è in relazione. La dolcezza non è equivoca, né univoca, ma si declina in molti modi senza perdere il suo valore-definizione universale:
“La dolcezza, insomma, è una forma di eccellenza virtuosa, e dunque, in base alla definizione aristotelica della virtù come «giusto mezzo» fra due estremi, può anche essere considerata come una forma di giusta misura nei comportamenti. I due estremi, nella fattispecie, sono costituiti da due strutture comportamentali, fra loro in solidarietà antitetico-polare, caratterizzate da assenza di virtù. Una di queste due strutture comportamentali, per quanto in maniera lessicalmente impropria, possiamo definirla come caratterizzata da eccessiva «durezza», l’altra da eccessiva «mollezza»[1]”.
Dolcezza e gentilezza
La dolcezza non è gentilezza, perché quest’ultima non comporta la cura, ma si limita ad atti formali, la gentilezza può essere compatibile con il sistema capitalistico, poiché è forma che non esige cura e responsabilità verso l’altro, ma è solo una modalità d’approcciarsi gradevole che, in taluni casi, può essere strategia di mercato o un semplice surrogato del vuoto emotivo ed esistenziale, pertanto può essere ingannevole, può indurre in un mondo di solitudine a false speranze. Solo la gentilezza unita alla dolcezza e alla cura è autentica:
“La gentilezza, viceversa, può costituire – se non è una diretta conseguenza della dolcezza – un mero rivestimento formale compatibile con diverse strutture comportamentali, dunque anche con i processi riproduttivi del modo di produzione capitalistico (ecco perché oggi ci sono molte più persone gentili che persone dolci). Guardando insomma sotto la superficie, la gentilezza costituisce spesso una sorta di surrogato che viene utilizzato, nelle relazioni formali, per nascondere una sostanziale assenza di dolcezza, come una mano di vernice bianca su una parete ammuffita. È certamente lecito domandarsi: qual è il problema? Non è meglio comunque, in un modo di produzione così competitivo, conflittuale e spietato, questa mano di vernice bianca anziché la parete ammuffita della effettualità lasciata così com’è? Ebbene: è meglio all’apparenza, ossia in superficie, ma nel profondo questa mano di bianco rischia di non far comprendere la necessità della operazione sanificatrice sulla parete, ossia, fuor di metafora, sulla totalità sociale e sull’anima delle persone. Esclusivamente con tale operazione, tuttavia, la parete, ossia la «casa» in cui si svolge la nostra vita, potrà diventare strutturalmente sana, e non solo apparentemente pulita[2]”.
Il male può assumere forme ingannevoli, la gentilezza scissa dalla dolcezza in un sistema acquisitivo finalizzato al profitto è solo un mezzo, perché è il profitto che tutto giuda, pertanto la dolcezza è ripudiata e rimossa. Il sistema è avverso alla cura comunitaria e pertanto censura la discussione sulle modalità relazionali che lo svelano nella sua essenza storica:
“La gentilezza costituisce infatti una modalità di rapportarsi agli altri che possiamo ritenere solo apparentemente simile a ciò che si è prima definito rispetto, il quale consiste nella capacità di porre un limite alle proprie azioni affinché con le stesse non si faccia il male. Ora: se ben si riflette, un modo di produzione sociale caratterizzato da strutture proprietarie private (tali, cioè, per cui i proprietari dei mezzi della produzione sociale possono privare i non proprietari, se essi non possiedono denaro, dell’utilizzo di quei mezzi e dei relativi prodotti, anche se essenziali: acqua, medicine, cibo, eccetera) e da strutture distributive mercificate (tali, cioè, per cui ogni ente ed ogni relazione diventa una merce da cui trarre il maggiore guadagno possibile), produce necessariamente una generale mancanza di rispetto, per gli uomini e per la natura. Se il fine del sistema è infatti massimizzare il profitto, non è il rispetto verso le persone a guidare le scelte; se la stessa merce può essere più profittevolmente prodotta in Bangladesh, ad esempio, la produzione verrà trasferita in Bangladesh, senza alcun rispetto per le famiglie dei lavoratori italiani (né peraltro di quelle del Bangladesh, in cui spesso gli stipendi dati dalle multinazionali occidentali non bastano per sopravvivere). Allo stesso modo, se il fine del sistema è massimizzare il profitto, non è il rispetto verso la natura a guidare le scelte; se la stessa produzione può essere più profittevolmente realizzata inquinando anziché rispettando gli standard ambientali, essa sarà effettuata in questo modo, a meno che leggi e controlli molto severi non riescano a impedirlo[3]”.
Gratuità e dolcezza
Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità, ma solo una caotica giustapposizione di soggetti in lotta tra di loro. La lotta acquisitiva distrae ed allontana dalla natura etica umana senza neutralizzarla, l’effetto è la “cattiva vita” generalizzata, in cui la tonalità del grigio investe ogni componente della comunità conducendolo verso la depressione emotiva e razionale:
“Eliminare il tema della gratuità, ossia del dono, dal campo ontologico, ingrigendolo in una forzata contaminazione con lo scambio, costituisce dunque non solo una operazione teoreticamente errata, come questi esempi dimostrano, ma soprattutto una falsificazione diseducativa di quanto tuttora, nella prassi sociale, accade. Ciò che è più grave, in merito, è in ogni caso l’effetto che questa tesi può avere sulla mentalità comune, in particolare su quella dei giovani, i quali per la loro condizione sono i soggetti più facilmente influenzabili. Questa tesi conduce infatti, in ultima analisi, a favorire la cinica accettazione dell’attuale totalità sociale nelle sue costitutive forme privatistiche e mercificate. Se tutto è infatti riducibile allo scambio, e il dono non esiste se non in maniera ambivalente, ne consegue che per sussistere è meglio adattarsi totalmente al mercato, dato che esso domina pressoché interamente il campo delle relazioni sociali. Si favorisce questa conclusione quando, anziché mostrare le due possibili alternative di senso e di valore su come potrebbe essere la società – fondata su strutture pubbliche e comunitarie, oppure su strutture privatistiche e mercificate, con relativi pro e contro –, l’esposizione cancella un corno della alternativa mostrando un orizzonte unico, quello appunto dello scambio e del mercato. La tesi della ineliminabile ambivalenza del dono lascia infatti surrettiziamente passare l’idea che occorre non essere ingenui nel sostenere il valore della gratuità, poiché il dono è anch’esso una forma di scambio mascherata, sicché è meglio cercare di farsi remunerare per tutte le proprie attività remunerabili[1]”.
Senza dolcezza non vi è comunità, non vi è possibilità di ascoltare il proprio Daimon, il proprio io profondo nel quale l’universale si scopre nella sua particolarizzazione irripetibile. Luca Grecchi ci dona la possibilità di un riorientamento gestaltico con cui rivedere il mondo nella sua verità, d’altra parte la filosofia è “meraviglia panica” ci induce a scendere in profondità nella nostra anima senza confini per capire il valore etico della razionalità che muove al viaggio dentro e fuori di noi, in modo da non restare anestetizzati dall’irrazionale con le sue violenze.
[1] Luca Grecchi, Dolcezza, Mursia Milano, 2021 pp. 27 28
[2] Ibidem pag. 80
[3] Ibidem pag. 33
[4] Ibidem pag. 36
[5] Ibidem pag. 39
[6] Ibidem pag. 46
[7] Ibidem pag. 70
[8] Ibidem pag. 73
[9] Ibidem pp. 103 104