Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
L’esito di massa delle recenti elezioni tra 2018 e 2019 conferma in pieno quanto l’attuale politica italiana, nel suo riprodurre slanci di massa piegati al più becero e ormai cronicizzato populismo, porga in realtà la piena realizzazione del suo opposto: ora l’anti-politica dell’avanzata pentastellata (rettificata solo, di recente, da un suo frettoloso travaso destrorso che di certo non l’ha neutralizzata), ora il pieno consolidarsi di un “voto utile” che dirotta il consenso verso proposte vuote e autoreferenziali di un centrosinistra affarista e seduto. Evidente prova di ciò è la sostanziale scomparsa di una sinistra degna di questo nome, così pure l’astensionismo interpretabile come vero e proprio partito di maggioranza; nonché la fuga (essa stessa anti-politica) verso un generico “movimentismo” che se da un lato illustra una certa volontà di cambiamento, dall’altro la sacrifica nella sterile manifestazione di piazza, nel sit-in implorante, nella genuflessione alle porte del palazzo, laddove la spontaneità fa rima con la più uniforme irrilevanza.
A fronte dell’ormai nota frammentazione a sinistra, credo sia ormai giunto il momento di affermare con lucida chiarezza quanto il campo elettorale sia ormai un territorio bruciato, utile forse a diffondere una simbologia, ma del tutto inadeguato rispetto ad una “prassi politica” da riformare punto per punto. Mentre le dirigenze dello “zero virgola” mettono in scena spettacoli rocamboleschi dell’ultimo minuto, ormai per difendere con unghie e denti un tozzo di pane e qualche poltrona, il vero popolo socialista dovrebbe rapidamente capire quanto il paradigma sia da capovolgere con forza e determinazione. Lungo questa direttrice interpretativa, la sola via per un reale avanzamento lungo i temi di quello che abbiamo chiamato Socialismo del XXI Secolo consiste nell’operare un cambiamento d’azione, radicale, e oserei dire sfacciato e sfidante. Parlo della svolta verso una “non ortodossia politica”, intendendo con questa espressione l’idea che la politica di sinistra deve oggi esprimersi attraverso forme e direzioni tanto tematiche quanto logistiche completamente nuove, tali da coinvolgere direttamente, senza intermediazioni opache, tutti gli attori della società civile desiderosa di essere protagonista del cambiamento stesso.
Il ruolo del partito, in questo senso, è fondamentale solo nella capacità di un mutamento drastico del suo agire concreto, quotidiano, operativo. Serve immaginare attività del tutto extra-elettorali di socializzazione e condivisione nel territorio, dove il partito sia sfondo ideologico e non zavorra elettoralistica. Serve immaginare modalità di interazione che superino la monolitica e vetusta logica della sede fissa, esplodendo la capacità di incontro nella miriade di spazi che il territorio dispensa generosamente: si pensi alla prassi di Mélenchon in Francia, che riunisce le sue milizie in locali, pubblici esercizi e luoghi di incontro informali, ma non per questo meno efficaci.
Serve, soprattutto, una modalità di coinvolgimento che vada ben oltre la scuola politica ad uso interno, e allarghi lo spettro dell’appartenenza ideologica socialista a tutte le attività umane: studio, lavoro, attivismo sindacale, impegno civico, volontariato, cultura, informazione. L’obiettivo non è quello di un’azione “politicizzata”, bensì, al contrario, di un aprirsi della politica ai bisogni reali della gente, e al suo coinvolgimento profondo.
Quella che ho chiamato “non ortodossia politica” ha come scopo la definizione di una comunità stabile e in crescita potenziale, che al momento del bisogno possa essere chiamata ad azioni congiunte e coerenti. La già citata aggregazione di movimenti, comitati, associazioni e soggetti collettivi non sembra infatti portare ad una coerenza funzionale all’obiettivo comune. Dagli scioperi di Greta Thunberg per il clima ai cortei di Extinction Rebellion per la sensibilizzazione su analoghe tematiche ambientaliste, l’energia umana che vediamo mobilitata sembra effettivamente ingente, ma in ultima istanza si disperde, superficiale, in una scomposta e dunque inefficace presenza politica che i media mainstream esaltano in una dimensione spesso folkloristica. Anzi, spesso la politica viene additata dai medesimi attivisti come campo infetto, detestabile, fastidioso in quanto tale, e il tutto converge ad un sostanziale “nuovo riflusso a vita privata” che potrebbe al limite essere giustificato nel nome della sensibilizzazione, non fosse per la sua totale assenza di proposte alternative concrete e ragionevoli.
Al contrario, in opposizione a quell’individualismo sfrenato che sembra essere il principale nutrimento mediatico e culturale della tecnocrazia neoliberista, serve ripristinare dal basso una fratellanza “allineata e coperta” contro un nemico comune. Un popolo, in definitiva, di fratelli e sorelle del Socialismo, che viva l’ideologia non già come una noiosa etichetta da opporre alla politica mainstream, ma come alveo naturale entro il quale coltivare una politica “militante” nel senso di “funzionale alla vita”.
Si dice che la sinistra sconti oggi l’assenza di un contatto con le persone. Questo è vero, ma l’interpretazione di tale fenomenologia è parziale e miope. Anche dopo il dimezzamento dei consensi, il Partito Democratico, che purtroppo ancora si fregia di ormai indifendibili ascendenze dallo storico PCI, rimane il vacuo rifugio di un voto inerziale e acritico; un centro gravitazionale che ancora tutto assorbe e svilisce. All’opposto, la narrazione mutualistica e popolare di certe nuove soggettività politiche incide nella nicchia mediatica, ma non sfonda, e di certo non capitalizza in senso utile tale appartenenza metodologica, per quanto encomiabile. La dovuta solidarietà alle classi sfruttate è di certo una componente importante, ma non serve se poi le medesime, nel segreto dell’urna, cancellano ogni ricordo dei benefattori incontrati in piazza e si rivolgono in massa al populismo post-grillino o salviniano. In altre parole, l’idea di una funzione pedagogica della presenza umana è giusta, ma parziale e debole, ovvero individua, se isolata e randagia, percorsi di crescita troppo lenti, dunque incompatibili con le attuali urgenze politiche.
La politica è ora, non tra venti o cinquant’anni. Serve a poco dissodare un terreno se sul medesimo incombe la minaccia dell’atomica. In questa direttrice interpretativa, la forma viva di una politica non ortodossa diventa unico sbocco per uno sviluppo ragionevolmente rapido e virtuoso.
Con questo mio intervento non ho certo intenzione di dipingere il mio partito, Risorgimento Socialista, come primo della classe e unico nella proposta di una seria alternativa per la rinascita del Socialismo in Italia. Vari sono i soggetti, e soprattutto i compagni in carne ed ossa, che costituiscono ottima e proficua piattaforma di confronto su temi, atteggiamenti, posizioni e prospettive. Mi permetto solo di dire che noi “risorgimentisti” ci siamo e ci stiamo, con una volontà che nulla ha a che fare con sterili logiche di egemonia, ma al contrario punta alla forza dell’organizzazione, del coordinamento, del vero e proprio servizio che possa estendersi, dal dentro al fuori, anche a progetti più grandi, partecipati e di vasto respiro politico.
Il nostro recente primo grande congresso lo ha sancito con forza, lungo punti programmatici entro i quali ciascuno si potrà riconoscere, disegnando il profilo della sua specifica partecipazione e del suo peculiare apporto. Siamo un partito di uomini e donne, non di burocrati. Dopo i “golpe senza carri armati” della fine degli anni Ottanta, dopo lo smantellamento ideologico che ha spazzato e mandato al macero decenni di lotte e conquiste, dopo l’avvento di una Terza Repubblica che sembra la brutta copia della già detestabile Seconda, pensiamo con forza che sia giunto il momento di fare “risorgere” il Socialismo nella sua natura più ampia ed efficace. Il nostro fine è sempre e solo quello: costruire un’avanguardia forte e riconoscibile, capace di arginare e cancellare la barbarie.
Fonte foto: SardegnaMondo (da Google)