Cara redazione, vorrei sottoporre alla vostra attenzione e a quella dei lettori una mia breve riflessione sulle elezioni regionali che sembrerebbero in parte (solo per chi non ha occhi per vedere) aver sortito l’effetto auspicato da Renzi qualche settimana fa: lui puntava al 6 a 1; gli elettori invece hanno detto 5 (al centrosinistra) a 2 (al centrodestra). Niente di tragico né di drammatico. Il Premier sta già sventolando in faccia ai media e all’opinione pubblica un risultato aritmeticamente schiacciante. Ma i numeri non dicono tutto: in realtà il centro-sinistra ha “non-vinto” questa tornata elettorale. Sembra, infatti, che in molti abbiano ascoltato l’indicazione di Giorgio Cremaschi: non votare PD!
Di certo queste regionali non sono state un passo avanti per il Partito della Nazione, che ne esce fortemente ridimensionato rispetto al postulato primo del renzismo: quel famoso 25 Maggio 2014, giorno del 40,8 % alle europee, dopo anni e anni di insuccessi e divisioni. Anzi nelle regionali di domenica scorsa possiamo trovare tutti i limiti strutturali di un partito che viaggia a due diverse velocità. La scesa in campo del premier per le elezioni è un simbolo di garanzia, se invece vengono utilizzati candidati chiamati a tradurre in consensi la dottrina politica renziana sul territorio, ecco che la situazione si complica, e non di poco.
Il vero dato che emerge è il seguente: il centro-sinistra ha vinto solo grazie alle coalizioni. Analizzando la percentuale di voti ottenuti dal Pd, è evidente un crollo verticale rispetto alle scorse europee. A parte le roccaforti storiche della sinistra (Toscana, Umbria e Marche) il Partito di Renzi si è attestato nelle altre regioni intorno ad un 20 % circa, e a Palazzo Chigi c’è già chi ha nostalgia per i risultati dell’anno precedente. Candidati come De Luca o Emiliano sono riusciti ad arrivare primi nelle rispettive regioni solamente grazie alle numerose liste che li sostenevano, quindi proprio attraverso tutti quei voti dati direttamente alla figura del candidato e non invece al Pd. In Puglia e in Campania, più che di una vittoria renziana, abbiamo assistito ai trionfi dei singoli esponenti che hanno creato una leadership ben al di fuori del partito stesso.
Non solo, la maggior parte di essi provengono da una storia politica lontana da quella del rottamatore. La Moretti in Veneto si è formata sotto l’ala di Bersani (per poi traghettare con disinvoltura nell’area renziana). Emiliano, Ceriscioli, Marini e Rossi non sono propriamente renziani. De Luca invece è in aperta polemica con il leader del Pd. L’unica esponente veramente in linea con Renzi è la Paita in Liguria, dove il centro-sinistra è stato battuto dal candidato del centrodestra, Toti, contro i pronostici iniziali. In poche parole, la sconfitta peggiore per il centro-sinistra che è apparso nuovamente diviso e con forti malumori interni (vedere Cofferati e Pastorino). Intanto il centro-destra ringrazia e porta a casa la Liguria e anche il Veneto. D’altronde chi meglio della sinistra sa riportare in vita il consumato spettro berlusconiano?
Il grande insuccesso del rottamatore fiorentino è stato quello di non essere riuscito a plasmare una classe dirigente all’interno del suo partito. Queste elezioni hanno dato la prova che il Pd delle regionali è ben diverso da quello di Palazzo Chigi. Lo spiega bene Antonio Bassolino: “Vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente, una questione che continua a restare irrisolta e che è sempre più urgente. E’ una difficoltà quasi tecnica: con l’attività di governo che assorbe ogni energia dove può trovare Renzi il tempo di affrontare le tante questioni locali?”.
Un candidato in particolare ha fatto tremare il Partito della Nazione. Ebbene sì, vincere nella regione ma perdere ugualmente; questa la peggiore antitesi del Pd nelle ultime elezioni. Di chi sto parlando? Ovviamente dell’impresentabile e incandidabile Vincenzo De Luca, detto “Vincenzino Spaccanapoli”. Colui che tutto può e nulla deve. Renzi ha provato in tutti i modi a sabotare la sua candidatura in Campania. Addirittura alle primarie aveva provato a infilare un suo candidato decisamente ortodosso, Gennaro Migliore, il quale si è ritirato la sera prima delle votazioni perché altrimenti avrebbe, per usare un eufemismo, “sfigurato”. Da quel momento lì nessuno è più riuscito a fermarlo, De Luca ha ingranato la marcia e ha girato le città della sua regione, presentandosi come l’ottimo amministratore di Salerno, che ben saprà governare la Campania. Il messaggio è stato recepito dai cittadini, ed ecco servito un 40 %. Niente male per uno che ha passato qualche guaio con la giustizia. Prima è stato condannato per abuso d’ufficio in primo grado, quindi è incandidabile per la legge Severino, poi “primus inter pares” dei 16 impresentabili secondo la commissione anti-mafia. Entro qualche giorno sapremo se la legge italiana ha ancora una minima parvenza di validità oppure, in caso contrario, “Vincenzino Spaccanapoli” potrà diventare presidente della regione Campania.
Al di là di come andrà a finire, De Luca è stato il vero gattopardo del renzismo, dottrina politica che aveva la pretesa di rottamare il “marcio” italiano. Proprio tutto? Purtroppo no. Renzi sembra riavvicinarsi sempre di più a certi vecchi moralismi della sinistra (e non solo…): cambiare tutto per non cambiare nulla. Un De Luca ogni tanto può sfuggire al nostro premier, salvo poi accorgersi che quel candidato non è solo auto-referenziale e auto-generato, ma è anche più forte del suo stesso partito.