Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Beirut 25 agosto 1978, tre uomini partono in aereo, destinazione Tripoli, sono l’Imam Musa al-Sadr, lo Sceicco Muhammad Yacoub e il giornalista Abbas Badreddin. Sono stati ufficialmente invitati dalle autorità della Jamahiriya nella capitale libica. Dopo qualche giorno, il 31 agosto alle ore 13, vengono avvistati a Tripoli per l’ultima volta di fronte l’hotel “Al-Shate”, sono in attesa di un’auto che li conduca all’incontro con il colonnello Mu’ammar Gheddafi. Da questo momento si perdono le loro tracce, scompaiono, volatilizzati nel nulla e per sempre.
Potrebbe essere l’incipit di una spy-story, una vicenda che verrebbe voglia di raccontare con la più banale delle osservazioni: si legge come un romanzo. Purtroppo non è una finzione uscita dalla penna di un maestro della narrativa, è una storia tragica e reale, malgrado gli ingredienti di un giallo ci siano tutti. Da quell’infausto giorno il quesito è rimasto senza risposta: che fine hanno fatto? Invano si sono incrociate indagini, smentite e infiniti depistaggi, alcuni maldestri altri più elaborati, come il tentativo di accreditare la partenza dell’Imam per Roma e la sua scomparsa in territorio italiano, per allontanare la responsabilità del crimine dal regime libico. Dopo quattro decenni resiste una sola certezza: l’Imam al-Sadr e i suoi collaboratori sono scomparsi in Libia, nella Tripoli del colonnello Muammar Gheddafi, mentre erano ospiti del regime. Le modalità della sparizione rimangono molto particolari, nessun indizio o traccia, zero indiscrezioni. In un contesto come quello della Jamahiriya libica, dove il controllo del regime era totale, un buco nero li inghiotte. Nei crimini della mafia c’è sempre la speranza che il tempo porti qualche riscontro, magari appaia un pentito, una gola profonda per raccontare la verità. In questo caso, sulla fine dei tre libanesi a distanza di anni invece nulla è emerso. La vicenda ha i connotati di un’azione delittuosa perfetta nella sua esecuzione e compimento, un evento consumato in quella zona grigia, che contraddistingue il modus operandi dei servizi segreti, libici certamente, ma anche di altri paesi, considerata la considerevole valenza politica e religiosa dei soggetti.
Le indagini giudiziarie della magistratura libanese ed italiana, devono fermarsi alla soglia del “deep state”, quell’intrico di burocrazia militare, intelligence, diplomazia, presente in ogni nazione ed attivo nella disinformazione e nelle operazioni “non ortodosse”.
Ma procediamo con ordine, dal teatro principale di questa vicenda: il Libano, il cuore del Levante, un nome occidentale per indicare il Mediterraneo orientale, per secoli luogo dell’intermediazione e, dopo la conquista araba, del confronto tra Islam e Cristianesimo. Il Libano, un’area geografica che è anche un dialogo, un itinerario ed una ricerca, un territorio di appena diecimila chilometri quadrati in cui coesistono diciotto confessioni religiose. Per secoli un microcosmo della società ottomana che con le proprie istituzioni aveva permeato il mondo arabo e in cui coesistevano, con qualche contrasto, variegate comunità etniche e religiose. Le tradizioni di tolleranza sono radicate nella politica dei conquistatori e hanno come antecedente l’ordinamento statuale dei tempi della conquista musulmana del periodo dei primi quattro califfi, “i ben guidati”. Ma il tempo del declino arriva anche per l’Impero Ottomano e la sua crisi attira le potenze europee, in primis Inghilterra e Francia, interessate a stabilire alleanze con le minoranze levantine per destabilizzare ed infiltrarsi nell’impero. La difesa dei cristiani d’oriente assurge ad ottimo pretesto, l’obiettivo primario rimane la penetrazione coloniale dei territori della Sublime Porta. Il generale Bonaparte sbarca nel 1798 in Egitto e intreccia i primi contatti con la comunità cattolica maronita del Libano. L’Inghilterra teme di perdere il controllo della via delle Indie, di importanza fondamentale per la sua politica imperiale, la sua burocrazia accarezza già il primo progetto sionista, condurre in Palestina gli ebrei d’Europa per crearsi una clientela locale antagonista alle alleanze della Francia. “Solo il diavolo – disse un giorno Schiller – sa dove andrà a cadere la pietra gettata dalla mano dell’uomo”. Vedremo come questa politica cinica e irresponsabile, sarà col tempo causa di destabilizzazione del Vicino Oriente. Date le premesse, la “mutarassafya” libanese rimarrà terreno preferito di scontro delle potenze europee e dei suoi invadenti vicini, è una terra che porta in dote una storia travagliata, non facile da riassumere. Ortodossi e maroniti, sunniti e sciiti, alawiti, drusi, erano abituati a convivere tra equilibri precari e il potere clientelare degli “zuama” , le grandi famiglie aristocratiche legate al latifondo agricolo e al commercio, alcune delle quali ancora oggi attive nei mercati finanziari e nell’edilizia del nuovo Libano.
Sono comunità ricche di tradizioni e cultura, fondate su complesse strutture socio-religiose, ma alimentano l’instabilità politica del paese dei cedri. Neppure la montagna libanese, pezzo di roccia scoscesa sul Mediterraneo, per secoli luogo di rifugio dalle oppressioni, potrà sfuggire questa iattura. Il paese si presenta in epoca contemporanea, ancora diviso, attraversato dalle correnti del panarabismo Baath, dal nasserismo, da un influenza giacobina sostanzialmente estranea ai principi della cultura araba. In questa circostanza l’ultrapotente Occidente fa la sua puntata più pericolosa, sul tavolo da gioco del Vicino Oriente gioca la carta della Palestina. Il conflitto del 1967, meglio noto come “Guerra dei sei giorni”, con l’Occidente schierato a supporto dello stato israeliano, accelera la pulizia etnica della Palestina e spinge i suoi abitanti a cercare rifugio nel sud del Libano. In questa area, l’OLP con i suoi militanti, organizza la guerriglia contro Israele e ritaglia un territorio sotto una precaria sovranità. Le conseguenze delle rappresaglie israeliane ricadono soprattutto sulla popolazione libanese. La parte meridionale è una zona rurale e proletaria, prevalentemente abitata dalla comunità musulmana sciita che, suo malgrado, è coinvolta nel conflitto e costretta a evacuare per cercare rifugio nelle periferie di Beirut. Le rappresaglie dell’esercito di Tsahal, l’afflusso continuo di diseredati palestinesi, l’inattività delle forze militari libanesi, la discesa in campo delle milizie maronite e druse, indeboliscono i già fragili equilibri politici. Su un palcoscenico di dimensioni limitate, troppi attori si contendono la scena. In un territorio da sempre luogo elettivo per le proxy war, le ingerenze di Russia, Stati Uniti e dei vicini paesi arabi si moltiplicano, come Cesare sugli scalini del teatro di Pompeo anche il Libano è trafitto da molti pugnali. Da lì a poco la crisi, in modo obbligato e quasi naturale, sfocerà nella guerra civile.
In questo scenario oltremodo intricato emergerà, come vedremo, uno dei protagonisti della nostra storia, un religioso sciita dal grande carisma, che tanta influenza avrà nel Vicino Oriente e il cui nome diventerà presto leggenda: l’Imam Musa al-Sadr. Proviamo a delineare e descrivere la sua figura. Nasce nel 1928 a Qom, città dell’Iran centrale, meta di pellegrinaggi e luogo di intensa spiritualità, sede di importanti istituti teologici, conosciuta come il “vaticano degli sciiti”. La sua famiglia d’altronde annovera eminenti teologi, un suo antenato S. Salih b.Muhammad Sharafeddin, ecclesiastico di alto rango, nacque a Shhour, un villaggio vicino Tiro. Illustri studiosi anche il padre l’Ayatollah Sadr al Din al Sadr e il cugino Ayatollah Muhammad Baqir al-Sadr. L’Imam Musa inizia il suo percorso di studi presso la Hawza di Qom, in seguito a Teheran si laurea in Giurisprudenza islamica. Successivamente, si reca in Iraq per proseguire a Najaf i suoi studi. Intraprende una intensa attività sul fronte della diffusione culturale, fonda riviste e promuove iniziative editoriali, una caratteristica che emergerà spesso nella sua azione. Presso le Hawza, studia e approfondisce le sue conoscenze filosofiche e teologiche, segue le lezioni dei maggiori sapienti sciiti e, a sua volta, insegna e tiene seminari. In un ambiente come quello del clero sciita, dove i “quarti di nobiltà” sono rappresentati dagli studi effettuati e dagli insegnamenti appresi dai sapienti, Musa al-Sadr si distingue. Docenti e colleghi dei corsi lo ricordano intelligente, intuitivo, dotato di curiosità intellettuale e di una genuina empatia. Negli anni ‘50 il materialismo di matrice capitalista e marxista influenza notevolmente la società, per conoscere i gangli del sistema e meglio confutare queste ideologie, al Sadr si iscrive alla facoltà di diritto dell’università di Teheran, e si laurea nel 1953 in Economia; è un impegno in studi non attinenti alla sfera religiosa che conferma la poliedricità e la volontà di comprendere le dinamiche sociali dell’Imam.
A partire dal 1955 compie diversi viaggi in Libano, rinsalda i legami con la parte della famiglia originaria di Tiro, incontra la guida degli sciiti, l’Ayatollah Sharaffeddin e resta affascinato dalla sua figura e levatura spirituale. Prosegue a Qom i suoi studi e collabora con illustri intellettuali, gli Ayatollah Muhsin al Hakim, al Khoei, Beheshti, Makarem Shirazi, nomi poco noti al lettore occidentale, ma che costituiscono i vertici dell’intellighenzia sciita. Nel 1959 la morte della guida Seyyed Sharaffedin, produce una svolta fondamentale nella sua vita, interrompe una pur brillante carriera accademica, lascia Qom per trasferirsi a Tiro per raccogliere la sua eredità spirituale. E’ l’inizio per l’Imam Sadr del “periodo Libanese”.
Sono gli anni sessanta, ed il paese dei cedri attraversa una fase contraddittoria, da un lato lo sviluppo economico ed investimenti finanziari regalano prosperità, dall’altro si accentua la crisi delle aree meridionali e di confine, dove le aggressioni israeliane sono quotidiane e i gruppi palestinesi trovano rifugio. Il Libano del sud, area a vocazione prevalentemente agricola, non aggancia il trend economico e resta penalizzato, aumenta l’emigrazione interna verso la capitale. Beirut cambia volto, non è più il luogo romantico dove era possibile incontrare l’effendi egiziano, lo sceicco dell’Hadramaut, il commerciante levantino. Sotto la spinta di uno sviluppo edilizio caotico, è adesso la città dei grandi alberghi, della Corniche, del celebre viale delle cento banche, Beirut è la nuova cassaforte del Medio Oriente. Una capitale macrocefala, attorniata da periferie sempre più vaste, una città ricca di fascino e rassicurante, almeno fino alla vigilia della guerra civile che travolgerà tutto. L’ Imam al-Sadr si trova al centro di questo rompicapo: un paese che, nonostante lo sviluppo, fatica a conciliare le esigenze delle sue differenti religioni e in cui la comunità sciita, che rappresenta un terzo della popolazione, subisce da tempo un duro processo di marginalizzazione. Al-Sadr inizialmente opera nel distretto di Tiro ma la sua azione assume presto una dimensione internazionale. Le linee guida sono chiare: migliorare le condizioni economiche della popolazione e combattere l’ingiustizia, lavorare per l’unità islamica e l’armonia delle comunità libanesi, difendere l’integrità del paese da ingerenze ed attacchi esterni. E’ un programma impegnativo, l’Imam ne è cosciente e non si risparmia. Dove c’è una ingiustizia c’è la lotta, e dove c’è la lotta troviamo Musa al-Sadr con i suoi sciiti. Così viene descritto: “Turbante nero, alto e ben proporzionato nella sua libas, la veste dei religiosi, sempre con il sorriso” si reca nei villaggi ed incontra la popolazione. Dialoga con tutti, poveri e notabili, musulmani e cristiani, vuole conoscere i bisogni ed eliminare le disuguaglianze. Redige appelli per l’unità della nazione libanese, parla nelle chiese e nelle moschee, riunisce intellettuali, politici, religiosi delle varie confessioni.
Individua come priorità organizzare la rappresentanza della comunità sciita a livello istituzionale. Uno sciopero nazionale da lui pianificato, spinge il parlamento libanese ad istituire nel 1967 il” Consiglio superiore sciita”, è un passo importante per l’attuazione del programma di Musa al-Sadr. Nel 1974 un’altra pietra miliare: fonda il “Movimento dei diseredati“ (Harakat al Muhrumin) affiancato in seguito dal partito Amal, in arabo “speranza”, ma anche acronimo dei Battaglioni della Resistenza Libanese (Afwāj al-muqāwama al-lubnāniyya). Questi movimenti hanno come obiettivo la promozione sociale dei giovani ed introducono una nuova weltanschauung sciita che, senza cedere al fanatismo, fa del concetto di “rivendicazione” la base dottrinale della mobilitazione contro le ingiustizie. E’ il germe da cui sorgerà la vocazione sociale del “Partito di Iddio”, meglio noto come Hezbollah. Sono perciò anni di intensa attività, improntata al pragmatismo ed al dinamismo, caratteristiche che l’Imam condivide con il popolo libanese. Organizza scioperi pacifici, mobilita le masse ed i frutti non tardano ad arrivare, nel 1974 ad una manifestazione a Tiro sono 100.000, dopo qualche mese in 150.000 rispondono al suo invito a Baalbek, numeri di tutto rispetto per un paese grande come metà della Sicilia. Il parallelo con la rivoluzione iraniana, che in quegli anni sta maturando, è scontato. Nell’ambito politico sciita la popolarità dell’Imam al-Sadr è seconda solo a quella dell’Ayatollah Khomeini. Sono fittissimi i contatti tra gli ambienti religiosi ed intellettuali dei due paesi, al punto che risulta difficile dire quale movimento rivoluzionario abbia influenzato l’altro.
L’Imam comprende la necessità di rompere l’isolamento e porre il Libano e la questione palestinese al centro dell’attenzione mondiale. Fa sua una massima dell’intellettuale iraniano Alì Shariati, che proprio in quegli anni veniva martirizzato dalla polizia segreta dello Shah: “Se non puoi eliminare l’oppressione, almeno raccontala a tutti”. Per conseguire questo risultato viaggia molto, apre nuovi canali al dialogo e alla diplomazia, è il primo religioso sciita di alto livello ad incontrare il Papa in Vaticano. Lo troviamo a Parigi e Bonn, invitato dai capi di Stato in Marocco, Mauritania, Nigeria, Egitto, Iraq, Senegal, amico personale del presidente algerino Boumedienne. Il 1975 è un anno cruciale, continua l’effetto domino della pulizia etnica della Palestina attuata dagli israeliani. Dopo la Giordania adesso è il Libano ad essere destabilizzato, la tensione tra palestinesi e cattolici maroniti sfocia nelle prime stragi e fa deflagrare la guerra civile.
Iniziano anni terribili, anni di sofferenza, le fazioni sono armate e finanziate da Stati ed entità sovranazionali che hanno scelto il paese dei cedri per regolare i conti ed esercitare le loro guerre per procura. La popolazione subisce le maggiori violenze, ma questo non intacca l’ipocrisia dell’Occidente, la complicità o l’ignavia degli altri paesi musulmani. L’ Imam al-Sadr concentra i suoi sforzi per sedare i conflitti tra le comunità libanesi. Con lo Sceicco Mohammad Yacoub inizia uno sciopero della fame presso la moschea al Safa a Beirut e dopo cinque giorni riesce a portare i contendenti al tavolo della trattativa. Si schiera a difesa dei villaggi cristiani Al-Kaa e Deir al- Ahmar della valle della Bekaa, facendo cessare l’assedio nei loro confronti. Partecipa all’incontro di Aramoun, alla conferenza di Riad e del Cairo, in ogni consesso utilizza la sua influenza per esortare i libanesi all’unità nazionale e per persuadere i leader degli stati musulmani ad impegnarsi per porre fine alla guerra civile. Mentre l’ala militare del suo movimento è impegnata nella difesa dei civili e per arginare le forze dissolutorie che agiscono sul territorio, intraprende una serie di visite ufficiali nei paesi arabi. Su invito ufficiale delle autorità, si recherà nell’agosto 1978 anche in Libia, dove il nostro racconto si interrompe, Tripoli è ultimo luogo in cui l’Imam viene avvistato. Le notizie di cui disponiamo sulla sparizione di Musa al-Sadr e dei suoi collaboratori sono scarne, ma ci consentono di avviare una riflessione sui motivi di questo giallo internazionale.
Nel paese dei cedri, Stati e soggetti contrapposti nella scena politica internazionale, si rivelano saldamente uniti nel fomentare per i propri interessi la guerra civile. Descrivere questo puzzle di alleanze necessiterebbe ben altro contesto, ci limitiamo ad osservare che la frammentazione del Vicino Oriente su base etnica e confessionale è da tempo nei programmi del complesso militare-industriale statunitense, erede del colonialismo britannico ed alacre promotore di “guerre infinite” e genocidi. Questa strategia ha in Israele, stato mono-confessionale per eccellenza, il suo modello e nel Libano, stato pluri-confessionale, un territorio nevralgico da smembrare. Il “great game” annovera anche attori cosiddetti minori ma non meno influenti, come la Siria, allora intenzionata a porre sotto tutela il Libano o la Libia di Muammar Gheddafi che, in un tentativo di egemonia, finanziava e riforniva di armi contemporaneamente fazioni libanesi e palestinesi. E’ indubbio che la rinascita del movimento sciita in Libano ha coagulato nei confronti dell’Imam l’inimicizia di alcuni di questi Stati. Al-Sadr gode di largo consenso non solo in ambito musulmano, ma anche presso i cristiani, nelle chiese libanesi è frequente trovare la sua foto e per lui hanno coniato il titolo di “Cristo dei nostri giorni”. Non ci si stupisca di questo apprezzamento, d’altronde la linea guida dell’Imam è l’indipendenza del paese, la pace tra palestinesi e libanesi, la difesa dal comune nemico sionista. Ci chiediamo quale sarebbe stata l’evoluzione sociale e politica nel mondo arabo se fosse stato in grado di continuare la sua opera. Musa al-Sadr osteggiava ogni fanatismo, lavorava per la “wahda” dei credenti, conosceva le debolezze del mondo musulmano e con lungimiranza intravedeva la deriva settaria salafita utilizzata poi come un maglio per frantumare l’Islam. L’Imam al Sadr e i suoi accompagnatori, nell’agosto 1978 in Libia, hanno pagato un prezzo altissimo per un sogno di riconciliazione che dalle sponde del Levante poteva estendersi al nostro Mediterraneo. La loro scomparsa è un crimine contro l’umanità che il mainstream ha scelto di ignorare. L’Imam Musa al Sadr, lo Sceicco Mohammad Yacoub e il giornalista Badreddin, sarebbero validi candidati al Premio Nobel per la Pace, sempre che attribuissimo valore a questa onorificenza fondata dall’inventore della dinamite. Ma non siamo adepti del pensiero unico, piuttosto del disincanto. Ci basta narrare una storia del Levante, un racconto che difficilmente leggerete altrove.
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Fonte: http://islamshia.org/il-sogno-dell-imam-musa-al-sadr-e-la-riconciliazione-del-libano/