Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Ritroverete in questo testo, in forma più sintetica e brutale, i temi su cui vi sto assillando da settimane, sotto la voce “brevi cenni sull’universo”. E non per esibire particolari capacità analitiche o profetiche; ma perché mi tormentano e non mi fanno dormire. E anche perché appartengo alla categoria degli “anziani fissati”.
Anziani fissati. Una categoria che non è prevista né dai politici né dai pubblicitari. Per i primi siamo autosufficienti: e quindi privilegiati e, all’occorrenza, conservatori e magari anche retrogradi. Oppure non autosufficienti e quindi inutili (un peso che, per fortuna, il Coronavirus ha contribuito ad alleviare…). Per la pubblicità, oscilliamo tra l’aitanza pregressa (correndo, saltando e opportunamente ringiovanendo, con l’uso degli opportuni preparati) e l’autosufficienza limitata dall’incontinenza fisica(ma anche a questo c’è rimedio).
E invece no. Siamo persone. E persone che lo svolgere degli anni rende più intense. Più concentrate. O nel vivere la vita con i suoi piaceri e i suoi affetti, fino a goderne tanto più quanto più si restringono i suoi orizzonti. Oppure, al tempo stesso, nel guardare alle cose del mondo e non solo a quelle passate; in un contesto in cui, credetemi, l’angoscia per il presente ed il futuro fa premio sulla nostalgia per il tempo che fu. Personalmente appartengo all’una e all’altra categoria; ma in particolare a quest’ultima.,
Ed è a questo titolo che considero questo secolo “dumb”; qualcosa di mezzo tra l’istupidito e il cretino per natura. Mai come in questi ultimi decenni la moltiplicazione delle informazioni o, più sinteticamente, del sapere, si è accompagnata con la sempre maggiore incapacità di capire. E, ancora, mai come in questi ultimi decenni l’incapacità di ricordare il passato ha coinciso con l’incapacità di riflettere criticamente sul presente e sul futuro.
E qui ritorno, al costo di annoiarvi, ritorno al coronavirus e alla vomitevole frase “da oggi in poi, nulla sarà più come prima”. Una battuta multiuso; buona per un titolo di un giornale o per una conversazione da salotto. Ma che però ha il valore di una mascherina usa e getta; la usi un paio e poi la butti via. Anche nel nostro caso, caso, per non rimetterla più. Se non accompagnata da due precisazioni: sul come sarà questo mondo e soprattutto su cosa si debba fare, collettivamente, qui e oggi, perché sia, non dico migliore di quello che avevamo prima ma almeno molto meno peggiore di quello che rischia di diventare.
Sul primo punto, a parlarci e a metterci in guardia contro la catastrofe prossima ventura sono testimoni al di sopra di ogni sospetto. E, in particolare, il “house organ”del liberismo ma anche della democrazia liberale, l’Economist; accanito, spesso irragionevolmente, nel combattere contro i loro nemici ma anche, come ogni autentico conservatore, drammaticamente consapevole della loro estrema fragilità.
In uno dei suoi ultimi editoriali, il settimanale ci spiega perché la risalita dall’abisso verso cui siamo avviati sarà molto difficile ( anche se, forse non a caso, non può o non vuole spiegarci come dovrebbe avvenire). Lo sarà perché il mondo che si apre davanti sarà insieme fragile nei suoi legami interni, lentissimo nei suoi tempi di ripresa e, infine, paurosamente disuguale.
Per usare una metafora che riassuma ed evidenzi l’argomentazione del settimanale, il nostro sistema/mondo non è un organismo in grado di riprendere tranquillamente le sue funzioni al termine di una cura. Ma piuttosto una persona che, colpita da un ictus o da una grave frattura, può recuperare, forse ( dico forse) le sue funzioni ma molto molto lentamente; e in una condizione di grande debolezza.
Al centro di tutto, l’effetto paralizzante dell’incertezza: sul rispetto dei contratti e sulla ricostruzione dei rapporti; su di un vortice confuso di sostegni finanziari di ogni tipo che arrivano regolarmente in ritardo e di debiti che non si sa quando e da chi possano essere ripagati; su tensioni internazionali irrisolte; e soprattutto su quel mare profondo di angosce individuali che ci induce a uscire con estrema lentezza dalle nostre varie tane. Per riprenderci, così dice l’Economist, dovremmo ricominciare a “uscire”, a incontrarci a ritrovare il “pubblico”in tutte le sue possibili dimensioni: dalla riunione politica all’uso dell’autobus, dalla partita di calcio all’incontro tra ricercatori e studiosi fino all’assolutamente indispensabile propensione al consumo e all’investimento. Questo dovremmo fare; ma, nel farlo, siamo appena oltre al “carissimo amico”.
Secondo e ancor più grave segnale, infine, l’abisso infinito delle nuove disuguaglianze. La rivista ne cita alcune: quelle di genere e quelle relative ad una disoccupazione destinata a diventare perdita della possibilità di accedere al mercato del lavoro. Ma chiunque sia dotato di un minimo di intelligenza e di sensibilità può tranquillamente aggiungere che la pandemia è, in linea generale, fattore, in ogni campo, di disuguaglianze.
Questo dice l’Economist. Silenzioso, giustamente, sui possibili rimedi. Anche e soprattutto perché non si vedono in giro le forze atte a realizzarli.
Come vedete, ho delegato la mia geremiade settimanale all’Economist. Rappresentativo, come Strauss Kahn e altri, del, diciamo così, capitalismo illuminato ; cui si contrappongono, a livello mondiale, coloro che sognano, in modo spesso irritante ( vedi Bonomi e nordici), un ritorno, peraltro impossibile al passato; e, per altro verso, i cultori di un populismo fascistoide, sconfitti, forse, nell’immediato ma destinati ad emergere se la crisi dovesse perdurare, fino alla ribellione dei governati.
Dovrei allora, concludere il post con l’opportuna combinazione di pessimismo dell’intelligenza e di ottimismo della volontà. Ma, forse perché vivo in Italia, questa volta non riesco a dar voce al secondo.
Ho davanti agli occhi una sinistra di governo pronta ad arrendersi su tutta la linea di fronte alle intimazioni di Confindustria, che si tratti di ruolo dello stato, di fisco o di reddito di cittadinanza. E una sinistra più attenta alle pressioni degli interessi che alle esigenze delle persone ( tutto questo mentre altri compagni si attardano su Karlsruhe dimenticando che, magari chissà, abbiamo a che fare con soldati giapponesi e non con feroci e invincibili guerrieri). Il che ci porta a pensare che il trauma cerebrale che l’ha colpita circa trent’anni fa non sia assolutamente recuperabile.
E ancora, un “parlar d’altro”o meglio un “parlare di nulla”assolutamente terrificante. Si dice, e si fa bene a dire che “siamo tutti sulla stessa barca”. Ma, in realtà, siamo tutti sullo stesso transatlantico già colpito dall’iceberg. E siamo in compagnia di sciacalli della peggiore specie e di personaggi intenti a togliersi l’un l’altro cabine e argenteria; mentre i passeggeri della terza classe stanno già affondando.
Rimane, a confortarci, l’idea che ad ogni azione corrisponda una reazione uguale e contraria. Speriamo che questa già si sia manifestando in qualche parte del globo con e nuovi protagonisti. Ma, purtroppo, il tempo a nostra disposizione è scarso; e, nello specifico, di mesi e non di anni.