Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera del Movimento degli Uomini Beta indirizzata agli uomini e alle donne di Potere al Popolo:
Cari compagni e care compagne di Potere al Popolo, siamo un gruppo di uomini dichiaratamente di Sinistra e altrettanto dichiaratamente critici nei confronti dell’ideologia politicamente corretta (e all’interno di questa in particolare del femminismo che rappresenta uno dei suoi mattoni fondamentali) che noi riteniamo essere il nuovo paradigma ideologico, cioè la nuova falsa coscienza dell’attuale sistema capitalista.
Per questa ragione, ormai diversi anni fa, abbiamo deciso di dare vita ad un movimento “maschile e di classe” denominato “Uomini Beta”. Sul nostro sito www.uominibeta.org, qualora lo riteniate opportuno, potrete approfondire meglio le ragioni che ci hanno spinto a dare vita a questo movimento.
Avremmo salutato con grande soddisfazione la nascita di una nuova formazione antagonista e radicalmente critica nei confronti dell’ordine sociale dominante, rappresentativa di lotte e movimenti reali che agiscono concretamente nel tessuto sociale.
Purtroppo – anche se la cosa non ci sorprende – dobbiamo invece prendere atto che anche Potere al Popolo ha scelto di sposare in toto l’ideologia femminista; nel programma, infatti c’è un riferimento esplicito al “progetto contro la violenza maschile” di “Non una di meno”.
In quel documento si sostiene che l’attuale società capitalista sarebbe tuttora dominata dalla cultura patriarcale e maschilista. Di conseguenza la violenza, sia essa fisica, economica, psicologica, sessuale, che alcune donne subiscono non sarebbe episodica (per quanto diffusa) ma la diretta conseguenza di un sistema sociale che le vede discriminate a prescindere, in virtù o a causa della loro appartenenza sessuale. Sempre secondo quel documento – che ripropone di fatto le categorie del femminismo di sempre (in tutte le sue correnti) gli uomini, all’interno dell’attuale società “capitalista, maschilista e patriarcale” sarebbero in una condizione di privilegio e di dominio per il solo fatto di appartenere al genere maschile.
Ora, secondo il nostro punto di vista, questa visione è a dir poco obsoleta e anche priva di fondamento, oltre che venata di un malcelato (neanche tanto…) sessismo.
Vediamo di spiegare perché, partendo come prima cosa dai numeri e dai dati oggettivi, inconfutabili, che chiunque può verificare, che ci raccontano di una realtà concreta ben diversa da quella descritta dal femminismo. Una volta fatta questa operazione spiegheremo le ragioni per le quali l’attuale società capitalista non è (o non è più) a trazione maschilista e patriarcale e soprattutto perché non ha più nessuna necessità del patriarcato che rappresenta per essa, giunta al suo attuale stadio di sviluppo, addirittura un ostacolo da rimuovere.
Cominciamo allora dai dati.
Sono gli uomini a morire pressochè in esclusiva sul lavoro, con percentuali che oscillano ogni anno dal 92/93% al 95/96%. La rimanente percentuale del 5% circa di donne che muoiono sul lavoro sono in realtà vittime di incidenti stradali mentre si recano al posto di lavoro e vengono comunque considerate cadute sul lavoro. Questi dati possono essere verificati da tutti/ sul sito dell’Inail.
E’ curioso che in una società che si dice essere dominata dalla cultura maschilista e patriarcale, a morire sul lavoro siano gli oppressori invece degli oppressi, anzi, in questo caso, delle oppresse. Si tratta di un paradosso eclatante. E’ come dire che negli stati del sud degli USA a lavorare (e a morire) come schiavi nelle piantagioni di cotone non erano gli schiavi neri ma i padroni bianchi. L’esempio (è solo uno fra i tanti che potremmo portare) potrà forse essere considerato iperbolico ma è a nostro parere efficace. Ciò significa, ovviamente, che a svolgere i mestieri più rischiosi, nocivi, pesanti e purtroppo spesso mortali sono quasi esclusivamente gli uomini. Non osiamo pensare cosa sarebbe già accaduto a parti invertite, se cioè a morire sul lavoro fossero state e continuassero ad essere solo donne. Noi stessi per primi ci saremmo mobilitati contro quella che avremmo considerato una intollerabile discriminazione sessuale. E invece nulla, silenzio assoluto, evidentemente perché questa tragedia, di classe (perché muoiono solo lavoratori, non certo banchieri o divi del cinema) e di genere (perché muoiono solo maschi) viene considerata normale, un dato di fatto, ormai acquisito, forse perché è normale considerare i maschi come dei soggetti sacrificabili (invitiamo caldamente a leggere questo articolo nel merito http://www.uominibeta.org/editoriali/alla-scuola-del-titanic/ )
La totalità dei suicidi per perdita del lavoro riguarda solo gli uomini (mentre i suicidi per altre cause sono commessi nel 75% dei casi da uomini). Questo perché storicamente per gli uomini il lavoro, oltre ad essere una dolorosa necessità (e non certo un modo per realizzarsi) legata alla loro sopravvivenza e a quella delle loro famiglie, è anche un dovere morale, una sorta di “dover essere”, di imperativo categorico. Un uomo che non lavora, a differenza di una donna, è considerato un fallito, un buono a nulla. Per una donna essere mantenuta dal marito è un fatto del tutto normale. A parti invertite, un uomo mantenuto dalla propria moglie o compagna verrebbe socialmente considerato un saprofita, un parassita, un losco avventuriero se non un vero e proprio farabutto. Questa è la ragione per la quale la perdita del lavoro può avere sugli uomini conseguenze devastanti anche e soprattutto dal punto di vista psicologico. Conseguenze che le donne non hanno o comunque hanno in misura molto diversa ed estremamente minore rispetto agli uomini. Lo dice la percentuale del tasso di suicidi, tutti maschili, a meno di non considerare i maschi più fragili delle femmine per ragioni di natura ontologica (ma se questa fosse la spiegazione saremmo in pieno sessismo oltre al fatto che verrebbe meno il paradigma femminista: come si può essere infatti dominati da chi è più debole di noi?…). La risposta è molto semplice. Le donne non devono rispondere a quell’imperativo categorico. Il lavoro assume per loro una importanza esclusivamente pratica, che non coinvolge – quanto meno non nella stessa misura degli uomini – la sfera psicologica ed emotiva, legata a quell’imperativo di cui sopra. Di conseguenza, anche la sfera sessuale ed affettiva viene ad essere fortemente condizionata da tutto ciò. Infatti, la vita sessuale, affettiva e relazionale di una donna non è condizionata dalla sua condizione sociale, economica e professionale. Ella è desiderata per il solo fatto di essere una donna in sé e per sé, indipendentemente da altri fattori di ordine economico e sociale. Al contrario, un uomo povero o in condizioni economiche e sociali precarie e senza nessuna prospettiva di migliorare la propria condizione, avrà una vita sessuale, affettiva e relazionale altrettanto povera.
Il femminismo ha ovviamente rovesciato come un guanto questa situazione, rivisitando e deformando pro domo sua la realtà delle cose. Ciò che, fra le altre cose, ha infatti caratterizzato la storia dell’umanità, oltre alla divisione sociale del lavoro, è stata proprio la divisione sessuale del lavoro, dovuta a ragioni oggettive, di ordine biologico, fisico, ambientale, e non certo la discriminazione sessuale. Questa divisione sessuale del lavoro ha fatto sì che la grande maggioranza delle donne fosse adibita ai lavori di cura e domestici e la grande maggioranza degli uomini ai lavori forzati. Solo da un’ottantina di anni a questa parte, diciamo dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti, in seguito alla seconda grande rivoluzione tecnologica (che ha fatto sì che il lavoro da “materiale” diventasse in buona parte “immateriale” sì da consentire che le stesse mansioni potessero essere svolte indifferentemente da uomini e da donne), le donne hanno potuto entrare in modo massiccio nel mondo del lavoro. Prima di quel momento non era possibile, perché le condizioni di lavoro – il più delle volte insopportabili e brutali per gli stessi uomini – rendevano impossibile quell’ingresso. Ciò che è stata quindi reinterpretata come una discriminazione sulla base del sesso è stata invece il prodotto di una fisiologica e inevitabile divisione del lavoro che ha visto la grande maggioranza degli uomini (con l’esclusione, ovviamente, degli uomini appartenenti alle classi sociali dominanti) farsi carico di un terribile fardello di fatica e di sfruttamento. Lo dimostra – come spiegavamo – il tasso di incidenti e di mortalità sul lavoro (del quali abbiamo già parlato). Nonostante la rivoluzione tecnologica, infatti i mestieri più pesanti continuano ad essere comunque svolti dagli uomini che hanno un’aspettativa di vita inferiore alle donne nell’ordine mediamente dei cinque anni ma vanno in pensione cinque anni più tardi (su quest’ultimo punto due articoli nel merito http://www.uominibeta.org/articoli/a-proposito-di-parita-parliamo-di-pensione/ e http://www.uominibeta.org/articoli/una-rapina-di-genere%e2%80%a6e-di-classe/ )
Per ciò che riguarda la divisione del lavoro, abbiamo approfondito l’argomento qui http://www.uominibeta.org/articoli/nuovo-racconto-maschile/
La stragrande maggioranza della popolazione carceraria, con percentuali che oscillano intorno al 95%, è maschile. Ciò significa, a meno di non pensare che gli uomini siano più “cattivi” delle donne per condizione ontologica, che questi vivono molto più delle donne, e in modo molto più lacerante, le contraddizioni della società. Non osiamo pensare, anche in questo caso, cosa sarebbe già accaduto a parti invertite. E invece, anche la maggiore tendenza degli uomini alla illegalità è considerato un dato normale, fisiologico. Per gli stessi reati gli uomini vengono condannati a pene detentive molto superiori a parità di reato, nell’ordine mediamente del 63% e, sempre a parità di reato, hanno il doppio delle possibilità di essere incarcerati. Nei paesi dove vige la pena di morte, la quasi totalità dei condannati è composta da uomini. Negli USA è del 99,9%. Il carcere, dunque la massima istituzione repressiva di una società (di classe), diventa di fatto una istituzione repressiva rivolta, nella stragrande maggioranza dei casi, nei confronti degli uomini (non appartenenti alle elite sociali dominanti). La qual cosa non può, naturalmente, essere casuale ed è la conseguenza di un ordine sociale determinato.
La grande maggioranza dei marginali, dei senza casa, dei senza fissa dimora, dei ricoverati alla Caritas e dei cosiddetti “barboni” è maschile, la maggior parte degli abbandoni nella scuola dell’obbligo è maschile. Un milione circa (in Italia) di uomini e padri separati vive sotto la soglia di povertà o giù di lì, espropriati dei figli, della casa, anche quando è di loro proprietà, del reddito e molto spesso, nell’ordine del 90% dei casi (dati verificabili) falsamente denunciati per violenze e molestie al fine di ottenere vantaggi in sede giudiziale. Una percentuale che oscilla fra un terzo e un quarto dei ricoverati nei centri della Caritas sono padri separati, persone che avevano una vita normale e che sono stati ridotti in miseria da leggi sessiste e antimaschili e da una “giustizia” altrettanto sessista e antimaschile (oltre che di classe). Sottoposti a pesanti sanzioni (compreso il carcere) qualora non riescano a versare regolarmente gli assegni di mantenimento e in caso contravvengano alle regole per ciò che riguarda la relazione con i figli (laddove, ad esempio, incontrino i figli al di fuori degli orari e dei tempi previsti e consentiti).
Ci sono diritti che le donne hanno e che gli uomini nemmeno sognano di avere, quelli riproduttivi: ossia il diritto di decidere se e quando diventare padri. Le femmine possono disconoscere la maternità con l’aborto e con il parto anonimo, cui possono ricorrere senza nemmeno avvisare il potenziale padre. Viceversa possono imporre la paternità in ogni modo, anche estorcendola con l’inganno e con la frode più smaccate. Decidono autocraticamente in piena autonomia. Hanno il diritto di imporre la paternità e quello di sottrarla, di cambiare idea, di rimediare ad un errore. Ottima cosa. Senonché a questa autocrazia corrisponde la subordinazione maschile radicale su una delle decisioni più importanti della vita e in grado di condizionarla totalmente. Scriveva Condorcet: ”L’abitudine può familiarizzare le persone alla violazione dei loro diritti ad un punto tale che nessuno si sogna di reclamarli, né ritiene di aver subito un’ingiustizia”. Appunto. Questi sono diritti che gli uomini non hanno mai riservato a sé e nemmeno pensano di poter avere. Si sono limitati a riconoscerli alle donne ed a subirne le conseguenze.
Gli uomini subiscono violenza né più e né meno di come la subiscono le donne. Soltanto che questa violenza non emerge alle cronache perché opportunamente occultata o ridimensionata dal sistema mediatico e dagli istituti di ricerca, Istat in primis. Sulla base degli stessi criteri dell’Istat un gruppo di esperti ha svolto una indagine in base alla quale emerge che il numero degli uomini che hanno subito violenza, sia psicologica che fisica, da parte delle donne è pari a quella subita dalle donne da parte degli uomini. Di seguito l’indagine, frutto di un intenso lavoro: http://www.uominibeta.org/articoli/prima-indagine-sulla-violenza-delle-donne-sugli-uomini-in-italia/
E’ in corso da anni una campagna mediatica martellante che vuole accreditare la tesi in base alla quale, solo in Italia, sarebbe in corso una sorta di genocidio del genere femminile, altrimenti detto “femminicidio”. Si tratta, a nostro parere di un gravissimo depistaggio ideologico al fine di dirottare l’attenzione delle masse e creare un immaginario del tutto virtuale finalizzato a ingenerare nelle masse femminili una ostilità nei confronti dei maschi in quanto tali, e non certo nei confronti del sistema capitalistico e delle classi dominanti che salutano con gioia (e infatti la alimentano ad arte con tutta la potenza mediatica che hanno a disposizione) questa guerra fra i sessi, anzi contro il genere maschile. Una guerra che contribuisce (insieme a quella fra poveri, cioè fra lavoratori autoctoni e immigrati, pompata ad arte dalla variante di destra del sistema) a disinnescare ed allontanare l’unica guerra che esse temono, quella di classe.
Infatti, la percentuale delle donne uccise in Italia complessivamente, quindi non solo dal partner o in ambito familiare ma in qualsivoglia circostanza, come si evince da questo articolo in cui vengono riportati i dati dell’ISTAT e che consigliamo di leggere, oscilla fra lo 0,35 e lo 0,45 su 100.000 (centomila) abitanti.
Da rilevare come la percentuale delle donne uccise in Italia sia peraltro inferiore a quella degli altri paesi europei: si va dallo 0,75 della Francia e della Germania allo 0,50 della Spagna e allo 0,64 della Polonia (sempre su 100.000 abitanti, ovviamente).
Numeri e percentuali che possono essere definiti in un solo modo: insignificanti. Non solo, negli ultimi anni (il dato è del 2014) il fenomeno, per ciò che riguarda il caso italiano, è calato sensibilmente, passando dallo 0,65 del 2002 allo 0,47 del 2014.
In tutto ciò, gli uomini uccisi sono tre volte tanti, pari (in Italia) all’ 1,11 (dato del 2014) su 100.000 abitanti (1,65 nel 2003).
Su queste percentuali, cioè sostanzialmente sul (quasi) nulla, è stato costruito il fenomeno del cosiddetto “femminicidio”.
La nostra opinione è che nessuno studioso di sociologia e/o di statistica degno di questo nome prenderebbe mai in considerazione quelle percentuali per trarne la conclusione che siamo di fronte ad un’emergenza sociale o meglio, di genere. Infatti, per quanto anche una sola vita umana abbia un valore assoluto a prescindere, dobbiamo prendere atto che i numeri di cui sopra sono assolutamente fisiologici. A meno di non pensare di poter eliminare ogni forma di violenza dal mondo; intento nobilissimo al quale bisogna in linea teorica tendere, ma è evidente che non può essere quello il parametro di riferimento per stabilire la veridicità o meno di una presunta emergenza.
Stando così le cose, resta a questo punto da capire per quali ragioni il sistema mediatico-politico, senza eccezioni, da “destra” a “sinistra”, ha costruito questa gigantesca “bolla” mediatica priva di alcun fondamento reale.
La nostra risposta (che in parte abbiamo già dato) è, per punti, la seguente:
- a) dirottare l’attenzione delle masse popolari dalle problematiche sociali – crisi economica, precarietà, disoccupazione, mancanza di lavoro, diseguaglianza crescente, impoverimento di larghi strati sociali, peggioramento delle condizioni di vita ecc. – alle cosiddette “tematiche di genere”, contribuendo, in questo modo, a disinnescare il potenziale conflitto sociale che da tali contraddizioni potrebbe scaturire;
- b) dividere le masse sostituendo il potenziale conflitto di classe con quello fra i sessi, all’interno del quale, naturalmente, quello maschile è individuato come quello nemico, dal momento che gli uomini, tutti, in quanto tali, per lo meno secondo la narrazione femminista, vivrebbero una condizione di supremazia (sulle donne) e di privilegio garantita loro dalla cultura patriarcale e maschilista di cui l’attuale sistema capitalista sarebbe tuttora intriso.
- c) depistare ideologicamente le donne, persuadendole che il loro nemico non è il sistema capitalista e imperialista dominante, bensì gli uomini, o meglio, i maschi. Il nemico non è più, quindi, il padrone, il capitalista, le banche, la finanza, le multinazionali, gli stati imperialisti, l’UE, la NATO, il sistema mediatico al loro servizio, ma l’uomo che si ha in casa, a partire, naturalmente, dal proprio marito o compagno, considerato come un “oppressore per definizione e ormai anche come un potenziale “femminicida”;
- d) paralizzare psicologicamente gli uomini in seguito ad un sistematico processo di colpevolizzazione e di criminalizzazione e in tal modo disinnescare la loro potenziale capacità antagonistica.
Tutto ciò è stato naturalmente possibile in quanto l’ideologia femminista o “neo femminista” è stata completamente assorbita dal sistema politico-mediatico dominante, fino a diventare una sola cosa.
E’ singolare osservare come anche e soprattutto coloro (mi riferisco ad una certa “sinistra radicale” e, drammaticamente, anche a quella “antagonista”) che, giustamente, sostengono (e noi con loro) che il sistema mediatico sia uno strumento di lucida e scientifica disinformazione e manipolazione della realtà finalizzato alla costruzione di un immaginario fasullo (nonché di relativa falsa coscienza), assumano come Verità Assoluta tutto ciò che viene loro proposto in tema di “questioni di genere”.
Per dirla in parole ancora più semplici, quegli stessi organi di “informazione” che sarebbero preposti ad una lucida e scientifica opera di deformazione della realtà e di depistaggio ideologico (e noi siamo convinti che lo siano), diventano, come d’incanto, i dispensatori della Verità quando si tratta di “questioni di genere”. Per cui, se i media ci spiegano ad esempio che si va a bombardare in Libia o in Iraq per portare democrazia e diritti umani oppure che l’occupazione sta crescendo o che l’economia è in ripresa, si dice – giustamente – che stanno manipolando la realtà. Quando invece ci spiegano che sarebbe in corso una sorta di genocidio del genere femminile, altrimenti detto “femminicidio”, ci starebbero raccontando la Verità, solo la Verità, nient’altro che la Verità.
Una gigantesca contraddizione, ci pare di poter dire. Come è infatti possibile che un sistema mediatico scientemente finalizzato alla manipolazione delle menti si trasformi in una sorta di messaggero della Verità Assoluta, soltanto in un ambito specifico, e cioè quando c’è di mezzo la questione della relazione fra i sessi? Il sistema è forse per metà conservatore e per l’altra metà rivoluzionario?
Ciò detto, stilare una classifica che stabilisca il livello di gravità della violenza è assai arduo se non impossibile, perché entrano in gioco tanti fattori quali il contesto, le circostanze, l’ambiente, le condizioni psicologiche, le motivazioni (vere, presunte o pretestuose) di chi l’agisce e tanti altri aspetti ancora.
Tuttavia, se dovessimo in linea di principio stabilire una sorta di gerarchia in tal senso, non c’è alcun dubbio che al primo posto dovrebbe essere posta la violenza agita sui minori. E questo per una ragione evidente: i bambini sono indifesi, comunque sicuramente i più indifesi rispetto a chiunque altro, donne o uomini che siano. Questa è la ragione che rende la violenza contro i bambini più odiosa rispetto a tutte le altre.
Eppure – nonostante questa (particolarmente) spregevole forma di violenza sia purtroppo diffusa e ampiamente praticata – non c’è nessuna emergenza in tal senso, nessuna martellante campagna mediatica per contrastare la violenza contro i minori, al contrario di ciò che accade per il fenomeno della violenza contro le donne (quella subita dagli uomini, da parte di altri uomini o da parte di donne, non è neanche contemplata, non è oggetto di interesse mediatico nè di altro genere, è semplicemente ignorata o data per scontata) che, per quanto gravissima, è sicuramente meno grave (in base al discorso di cui sopra) rispetto a quella subita dai bambini e dalle bambine.
Perché, ci si chiederà? Per una ragione molto semplice. Se il fenomeno della violenza sui minori fosse portato all’attenzione dell’“opinione pubblica” con la stessa potenza mediatica con cui viene portato quello della violenza contro le donne, emergerebbe inevitabilmente che tale forma di violenza è agita indifferentemente sia da uomini che da donne, anzi, soprattutto dalle donne. Non perché, ovviamente, siano più “cattive” degli uomini, ma semplicemente perché, rispetto a questi ultimi, sono a contatto con i minori in misura sicuramente maggiore, basti pensare alle maestre elementari, di scuola materna, alle insegnanti delle scuole medie, alle assistenti e alle operatrici degli asili ecc. e naturalmente alle madri che specialmente durante gli anni dell’infanzia hanno un rapporto molto più stretto (e non sempre psicologicamente sano) con i figli rispetto ai padri (come è normale che sia…).
Ma mettere in evidenza il fenomeno della violenza sui minori equivarrebbe, per le ragioni che abbiamo spiegato, a disintegrare la narrazione ideologica-mediatica neofemminista dominante che si fonda sulla vittimizzazione tout court del genere femminile e sulla criminalizzazione altrettanto generalizzata di quello maschile, e naturalmente a ridimensionare notevolmente se non a minare in via definitiva la campagna mediatica in corso da anni contro la violenza (maschile, ovviamente…) sulle donne. E questo nessuno lo vuole, dall’estrema sinistra all’estrema destra, dal momento che tutte le forze politiche, nessuna esclusa, aderiscono, da questo punto di vista, alla narrazione ideologica-mediatica dominante (una contraddizione in termini per quella sinistra che si definisce “antagonista” e che non abbiamo mancato di evidenziare più volte…).
Il tema è ovviamente scabroso oltre che destabilizzante sotto ogni punto di vista. Pensiamo ad esempio alla figura genitoriale femminile che da sempre è stata mitizzata. La “mamma è sempre la mamma”, e da sempre è stata considerata la depositaria dell’amore, per definizione, fino ad essere trasformata in un vero e proprio archetipo. Le cose non stanno ovviamente così, purtroppo, ma si preferisce non indagare e mettere la testa sotto la sabbia perché affrontare il tema sarebbe devastante dal punto di vista psicologico, ideologico e ormai da tempo anche politico.
Altrettanto scabroso e parzialmente rimosso (anche se in misura molto minore rispetto alla violenza agita dalle donne e soprattutto dalle madri sui bambini e sui figli) è il tema della violenza fra i minori che oggi va sotto il nome di “bullismo”, anche in questo caso agita indifferentemente sia da maschi che da femmine (come ogni forma di violenza, del resto…).
Questo fenomeno (così come quello della violenza agita dalle donne) viene interpretato come un retaggio della violenza degli adulti (e naturalmente degli adulti maschi). I bambini e le bambine agirebbero in modo violento sostanzialmente per mimesi (e in questo c’è sicuramente una parte rilevante di verità), cioè per imitazione dei comportamenti degli adulti (ovviamente maschi). Così facendo si mantiene intatto anche il mito dell’innocenza dei bambini, un altro archetipo che non si vuole incrinare perché sarebbe altrettanto destabilizzante ammettere che anche i bambini e le bambine sono in grado di agire in modo violento, sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Tutto molto rassicurante e naturalmente tutto molto falso. Ma se Parigi val bene una messa, la nostra (si fa per dire…) serenità val bene una grande rimozione.
Inoltre, è importante sottolineare che la maggior parte degli uomini che agiscono in modo violento in ambito domestico hanno a loro volta subito violenza da parte delle rispettive madri (dato Istat che riportiamo all’interno di questo articolo http://www.uominibeta.org/articoli/autogol/ ).
Da tutto ciò emerge ciò che già sappiamo, e cioè che l’unica violenza ufficialmente riconosciuta e ammessa (e stigmatizzata) come tale è quella maschile. Tutte le altre forme di violenza (comunque occultate o ridimensionate) sono tutt’al più dei derivati di quella.
Assume dimensioni addirittura grottesche la versione diffusa da tutti i media, da destra a sinistra e viceversa, senza nessuna esclusione, in base alla quale le donne, a parità di qualifica e mansione, percepirebbero un salario inferiore a quello degli uomini. Sfidiamo chiunque a mostrarci una busta paga in cui una donna, a parità di mansione e qualifica, percepirebbe un salario inferiore a quello di un uomo. Si tratta, ovviamente, anche in questo caso, di una clamorosa falsificazione della realtà per fini ideologici e politici.
Se infatti fosse possibile, al di là delle leggi e dei dettati costituzionali che possono comunque essere aggirati (ma non in questo caso perché non c’è l’interesse oggettivo a farlo), per prassi, usi, costumi e consuetudine assumere le donne con un salario inferiore rispetto agli uomini a parità di qualifica e mansione, è evidente, dal momento che viviamo in una società capitalista dove la sola e unica stella polare è il profitto (almeno su questo saremo tutti d’accordo), che ci sarebbe un tasso di occupazione femminile infinitamente più alto di quello maschile perchè tutte le imprese, piccole, medie o grandi (e il concetto sarebbe ancora più valido per l’economia sommersa…), potendolo fare, tenderebbero ad assumere solo donne. Le cose non stanno così, come ben sappiamo. Ma non stanno così non a causa di una discriminazione sessuale ai danni delle donne bensì perché l’ingresso massiccio di queste ultime nel mondo del lavoro è stato possibile solo relativamente di recente (ogni processo necessita dei suoi tempi, quindi è del tutto naturale che ci sia ancora un certo gap occupazionale) – come abbiamo già spiegato – in seguito alla rivoluzione tecnologica, che ha fatto sì che la gran parte dei mestieri che prima potevano essere svolti solo dagli uomini (per ragioni oggettive, fisiche e biologiche) potessero essere svolti anche dalle donne. Senza contare che a tutt’oggi i lavori più pesanti continuano comunque ad essere appannaggio dei soli uomini. E’ altresì ovvio che un lavoratore, sia esso un operaio o un tecnico, che lavora ad esempio su una piattaforma petrolifera, guadagnerà di più di una insegnante o di una impiegata, professioni meno (e neanche tanto) retribuite ma molto più sicure e confortevoli sotto ogni punto di vista (e comunque stiamo parlando di mansioni e qualifiche completamente diverse).
In realtà, il presunto gap salariale viene misurato in un modo che definire ipocrita è un eufemismo. E cioè ci calcola l’intero monte salari maschile, lo si confronta con quello femminile, si scopre che c’è una differenza di tot punti in percentuale in favore degli uomini (chi dice del 12%, chi del 23%, chi dell’1,5%), determinata da quello che spiegavamo prima (e dal fatto che le donne optano molto più degli uomini per il part time, fanno molte meno ore di straordinari, non sono disposte ad accettare qualsiasi lavoro, a differenza degli uomini, e tante preferiscono tuttora restare in famiglia, curare i figli e lasciare la “produzione” agli uomini), e si manipola e si deforma il tutto arrivando appunto a postulare la menzogna in base alla quale le donne, in virtù di una discriminazione sessuale (che se fosse vera sarebbe intollerabile e saremmo noi per primi a scendere in piazza contro una simile ignominia) percepirebbero un salario inferiore a parità di mansione e qualifica.
Abbiamo approfondito il tema nei seguenti articoli:
https://www.linterferenza.info/editoriali/linsostenibile-paradosso-della-sinistra-antagonista/
https://www.linterferenza.info/attpol/islanda-laboratorio-del-femminismo-europeo/
Ma proprio il femminismo (ormai del tutto sovrapposto al sistema mediatico) martella sistematicamente sul fatto che il tasso di occupazione femminile è inferiore a quello maschile, cosa senz’altro vera ma anche in questo caso non per una discriminazione sessuale ma per tutt’altre ragioni che abbiamo approfondito in questo articolo: https://www.linterferenza.info/attpol/un-racconto-maschile-classe/
Le due presunte discriminazioni, infatti, non possono coesistere, per la semplice ragione che l’una esclude l’altra, sono in contraddizione logica fra loro stesse. A meno di non pensare che la molla, la logica e il fine del capitalismo (sia esso avanzatissimo o arretratissimo, ultra moderno o “straccione”) non siano dati dal profitto ma da qualcos’altro che con tutta la buona volontà di questo mondo non siano personalmente in grado di spiegare cosa possa essere.
Ergo, come è possibile, in epoca di capitalismo assoluto, sostenere che le donne possano ricevere salari inferiori rispetto agli uomini e al contempo che l’occupazione femminile è inferiore a quella maschile, in entrambi i casi a causa di una discriminazione sessuale? La contraddizione è macroscopica ma da tempo abbiamo capito che gli occhi delle persone possono restare chiusi anche quando sono aperti…
La “tesi” (si fa per dire…) potrebbe essere valida se ci trovassimo in una società organizzata per caste (come potevano essere le società dell’epoca medioevale o di altri contesti geografici e storici), dove il prius non è dato dal plusvalore e dall’accumulazione di capitale bensì da una gerarchia valoriale/ideologica su basi castali e/o appunto sessuali o di altro genere (religiose/clericali, ecc.).
Ma questa non sarebbe una società capitalistica (dove il prius, la “stella cometa”, è SEMPRE il plusvalore) e di certo non è la società capitalista assoluta in cui ci troviamo a vivere. L’attuale forma del dominio capitalistico non ha, peraltro, alcun interesse oggettivo a discriminare economicamente le donne per la semplice ragione che queste sono chiamate a produrre e soprattutto a consumare (e ad orientare le tendenze del mercato…) come e più degli uomini. Il capitalismo nella sua fase matura (quella attuale, del futuro non possiamo sapere) non ha alcun interesse ad alimentare una discriminazione economica su basi sessuali, così come non ha alcun interesse ad alimentare qualsiasi altra forma di discriminazione di questo genere a meno che (ma nell’attuale contesto storico è pressochè impossibile) non sia funzionale e riconducibile all’unica e sola ragione della sua esistenza: l’accumulazione illimitata di capitale e a tal fine la mercificazione totale di ogni forma e spazio dell’agire umano. Se tali forme di discriminazione sono avvenute, anche in modo massiccio e sistematico, in passato e in molti contesti (pensiamo ad esempio alla discriminazione razziale e all’apartheid in Sudafrica o negli USA), ciò è stato possibile perché quella discriminazione era funzionale alla riproduzione del capitale in quel determinato contesto storico (molto diverso da quello attuale) che naturalmente ha lasciato delle tracce profonde in quelle società. Ma questa forma di discriminazione razziale non ha nulla a che vedere con la condizione delle donne in quanto tali, come se queste fossero una categoria in sé e per sé. Nessuna donna nera negli USA o in Sudafrica è stata incatenata o frustata in quanto appartenente al genere femminile ma in quanto schiava e in quanto nera (esattamente come i neri venivano incatenati e frustati in quanto schiavi e in quanto neri e non in quanto maschi…), cioè in quanto appartenente ad una etnia e/o ad un gruppo sociale che la divisione capitalistica del lavoro aveva generato e collocato nell’organizzazione del lavoro, sulla base di determinate condizioni storiche e culturali che a loro volta rendevano possibile quel tipo di divisione del lavoro. Ma considerare il genere femminile nella sua totalità come una categoria a sé, come una etnia, un gruppo o una classe sociale, è stato e continua ad essere una forzatura ideologica operata dal femminismo, perchè è evidente che ci sono donne ricche e donne povere, donne sfruttatrici e donne sfruttate, donne appartenenti alle classi sociali dominanti e donne appartenenti alle classi sociali dominate. La sovrapposizione del concetto di classe con quello di genere (un assurdo logico, oggi decisamente ancora più assurdo) è l’escamotage ideologico del femminismo, anche e soprattutto quello di “estrema sinistra” (l’utilizzo di tale categoria è puramente virtuale e serve solo al fine di individuarlo all’interno del più ampio schieramento femminista). Secondo questa concezione, il genere femminile, nella sua totalità, viene considerato di fatto alla stregua di una classe sociale oppressa (gli schiavi, i servi della gleba e/o il proletariato), di un’etnia perseguitata (come ad esempio gli indios sud e nord americani), di una razza (come ad esempio i neri in un paese razzista), e così via. Quando si prova a fargli notare la contraddittorietà evidente di tale postulato, se si è fortunati, nel migliore dei casi (accade molto di rado) si viene tacciati di vetero marxismo e di avere una visione obsoleta e superata delle cose. Nel peggiore (cosa che accade infinitamente più spesso) si viene sottoposti ad un vero e proprio linciaggio morale, all’esclusione sociale e umana, al pubblico ludibrio e all’accusa di essere dei reazionari, fascisti, misogini e negazionisti.
La tesi in base alla quale l’attuale società capitalista sarebbe anche patriarcale e maschilista, vuole, ovviamente, che gli uomini siano in una posizione di dominio sulle donne anche e soprattutto dal punto di vista sessuale. Ora, qualsiasi persona dotata di un briciolo di onestà intellettuale e di buon senso sa perfettamente che questo è completamente falso.
Infatti, contrariamente ai luoghi comuni alimentati dal femminismo ma anche da una certa sottocultura pseudomachista (che in realtà è soltanto una modalità per camuffare o mal celare la propria condizione di dipendenza), i maschi vivono appunto una condizione di dipendenza dal punto di vista sessuale nei confronti delle femmine. Una dipendenza data da una condizione naturale (che attiene allo stato di natura, alla condizione ontologica degli uomini e delle donne) di asimmetria sessuale che pone gli uomini in una condizione di dipendenza nei confronti delle donne. Questa condizione viene naturalmente negata dal femminismo perché se l’ammettesse, dovrebbe necessariamente ammettere che le donne sono in effetti in grado di esercitare un dominio pressoché quasi assoluto sugli uomini nell’ambito di una sfera fondamentale quale è quella sessuale e quindi psicologica (i due aspetti non possono essere separati). Ma è evidente che dominare un individuo dal punto di vista psicologico significa dominarlo nella sua totalità. E naturalmente questo dominio produce tutta una serie di effetti anche dal punto di vista sociale ed economico. Gli uomini sono dunque chiamati a colmare questo gap di peso specifico che li pone nella condizione di chi deve chiedere nell’ambito di una relazione fondamentalmente dominata dalla logica della offerta e della domanda (relazione esaltata ed alimentata scientemente dal sistema capitalista), anche se da sempre naturalmente occultata o camuffata in primis dagli uomini ma anche naturalmente dalle donne (dall’amor cortese al romanticismo). E’ anche e soprattutto per questa ragione che oggi il sistema capitalista non sa che farsene del patriarcato. Ha anzi necessità di un femminile declinato secondo le sue logiche che sono quelle della razionalità strumentale (capitalista) e, per la verità, e questa è un’amarissima constatazione (dovrebbe, per la verità, in linea teorica rappresentare un tragico fallimento per il femminismo), fermo restando la grandissima capacità di condizionamento del sistema, c’è da dire che molte donne hanno sposato, consapevolmente o inconsapevolmente, quel modello che, pur producendo alienazione, le pone in una posizione di vantaggio per lo meno nei confronti della grande maggioranza degli uomini che non hanno nessun potere contrattuale e nessun peso specifico da mettere sul piatto della bilancia di quella “contrattazione mercantile non dichiarata” (se lo fosse crollerebbe il velo di Maya che la copre…) a cui è stata ridotta la relazione sessuale. Da qui il gigantesco processo di mercificazione sessuale che vede la grande maggioranza degli uomini (con l’esclusione dei maschi socialmente dominanti che sono provvisti e in grado di esercitare il loro peso specifico) in una condizione di “ricatto”, dipendenza e subordinazione (psicologica e sessuale). Il paradosso è che proprio questi ultimi vengono individuati come i responsabili del processo di mercificazione (indicativa in tal senso la criminalizzazione degli uomini che frequentano episodicamente o sistematicamente le prostitute o praticano sesso virtuale a pagamento tramite chat line e quant’altro) quando è evidente che non ne hanno oggettivamente alcun interesse. Qual è infatti l’uomo che preferirebbe pagare, direttamente o indirettamente, di fatto o metaforicamente, per ciò che potrebbe avere gratis e che certamente preferirebbe vivere in modo naturale, spontaneo, ludico e libero da qualsiasi legaccio o condizionamento, in special modo di natura economica? Nessuno, è evidente (per lo meno fra gli uomini di condizione sociale, piccola, media, bassa o medio bassa), oppure soltanto colui che è in grado di “pagare” o a cui non pesa in alcun modo pagare perché dispone di possenti mezzi e risorse oppure ancora perché il suo status lo pone nella condizione di trarre dei vantaggi da questa situazione e di marcare e rafforzare ancor più la sua posizione di dominio nella gerarchia sociale (in questo caso la relazione si capovolge ed è quella tipologia di uomini ad essere oggetto delle attenzioni femminili).
Quindi, come vediamo, anche e soprattutto in questo caso, la narrazione femminista ha operato uno stravolgimento (e un capovolgimento) totale della realtà. Ma non è un caso, ovviamente, perché nella società capitalista assoluta dove tutto deve essere sottoposto alle logiche di mercato, la sessualità non può certo restare come una sorta di oasi libera. Al contrario, in primis la sessualità deve essere mercificata, psicologicamente e concettualmente prima ancora che praticamente, perché la grande potenza e l’energia che è in grado di sviluppare deve essere necessariamente ingabbiata nelle logiche della razionalità mercantile e strumentale capitalista dominante. All’interno di queste logiche sono innanzitutto i maschi non appartenenti alle elite sociali dominanti a trovarsi in una posizione oggettivamente subordinata, perché privi di qualsiasi “potere contrattuale” nell’ambito di una relazione, come abbiamo già spiegato, totalmente mercificata.
Ciò che il femminismo deve altresì negare è che sono le donne stesse ad avere da sempre alimentato determinati modelli maschili, quelli appunto del maschio vincente, di successo, potente, socialmente affermato. Nessuna donna ha mai avuto come oggetto del desiderio un “perdente”, un “debole”, oppure un uomo di basso ceto sociale o comunque non socialmente affermato e in grado di rispondere a determinati requisiti che in primis le donne richiedono agli uomini. Qui dovrebbe essere indagato a fondo il ruolo delle madri, andrebbe aperta una riflessione sul ruolo del materno e sulla relazione simbiotica che molto spesso può sfociare in un rapporto perverso tra madri e figlie e figli. E invece anche in questo caso, il materno viene da sempre celebrato, in primis dagli uomini; e non è un caso, ovviamente, perché la “mamma” è e resta la “mamma”, e l’imprinting materno viene interiorizzato dagli uomini e proiettato sulle altre donne. Da qui anche la paralisi maschile e la estrema difficoltà da parte degli uomini ad affrontare un percorso di consapevolezza necessariamente doloroso che prevede un processo di distacco, di separazione emotiva. Un processo che dovrebbe essere attivato e facilitato appunto dalla figura paterna e che, attuato in condizioni “normali”, cioè in presenza di un paterno e di un materno in una posizione di equilibro, dovrebbe per lo meno in linea teorica non comportare conseguenze laceranti e nevrotizzanti in termini psicologici. In assenza invece dell’elemento paterno, o comunque con un paterno disconosciuto quando non criminalizzato, questo processo rischia di non inverarsi mai e quand’anche lo fosse, sarebbe inevitabilmente molto più faticoso e doloroso.
Ci rendiamo quindi conto di come il femminismo abbia rovesciato tutto ciò attribuendo interamente agli uomini la responsabilità di aver costruito e imposto determinati modelli che sono invece in larghissima parte dovuti a delle proiezioni di archetipi femminili (proiezioni delle donne, ovviamente). Potremmo anzi dire, capovolgendo il tutto, che sono gli uomini a trovarsi nella condizione di dover rincorrere quei modelli per poter essere appetibili nei confronti delle donne, per poter cioè essere scelti. Tutto ciò viene scientemente esaltato nella società capitalistica assoluta, dove tutto è sottoposto a mercificazione, pratica o concettuale. Possiamo quindi affermare che in questo contesto sociale i primi a “mettersi in vetrina”, i primi a fare mercimonio di loro stessi (un mercimonio fondamentalmente indotto), sono proprio gli uomini, prima ancora delle donne, le quali, avendo ormai interiorizzato le logiche e le dinamiche della ragione strumentale capitalistica dominante, vivono la relazione con gli uomini come intrinsecamente mercantile, e considerano la loro sessualità come una merce, una proprietà privata che in quanto tale ha un valore, in termini economici, concettualmente parlando, prima ancora che praticamente. E la proprietà non è qualcosa che si dona, bensì è qualcosa che si utilizza, si investe o tutt’al più che si aliena per trarne un profitto. E’ ovvio che tutto ciò non è manifesto, bensì abilmente camuffato sotto una grandissima coltre di ipocrisia che deve servire appunto a camuffare ciò che è stato ridotto ad uno scambio strumentale, anche se, come dicevamo poc’anzi (ma repetita iuvant) non dichiarato (se lo fosse, tutta questa impalcatura si sgretolerebbe), nella maggior parte dei casi.
Arriviamo, dunque, in conclusione, a spiegare, sia pure in estrema sintesi (e ci scusiamo per la necessaria semplificazione), per quale ragione oggi il sistema capitalista non può essere fondato su base patriarcale.
La storia ci ha dimostrato che il capitalismo è un sistema (e una ideologia) estremamente flessibile, capace di incistarsi e convivere con qualsiasi contesto culturale e anche e soprattutto di plasmarlo pro domo sua. E’ forse la sua principale caratteristica e uno dei suoi punti di maggior forza. Il capitalismo ha convissuto e convive con il liberalismo nella sua forma tradizionale occidentale/anglosassone, con il fascismo, il nazismo, i regimi clericali, con le dittature militari sudamericane ed asiatiche, con i regimi razzisti e colonialisti fondati sull’apartheid, e oggi con anche con l’integralismo wahabita (vedi Arabia Saudita) e con lo stato-partito post maoista e neoconfuciano cinese.
Il capitalismo ha combattuto e vinto la sua prima grande battaglia contro il sistema feudale, contrapponendo i valori del liberalismo (libertà individuali, godimento dei diritti civili, divisione dei poteri, libertà di impresa e libero mercato) a quelli dell’ “ancien regime”. In questa fase, durata su per giù dal XVII agli inizi del XIX secolo, in cui doveva affermarsi, il capitalismo, attraverso la sua ideologia di riferimento (nelle sue varie correnti), il liberalismo (e l’Illuminismo), ha fatto leva su categorie e istanze antireligiose (oltre che anticlericali) e antimetafisiche. L’obiettivo strategico della borghesia era quello di demolire il vecchio ordine feudale che doveva essere cancellato insieme, ovviamente, a tutto il suo bagaglio (sovrastruttura) ideologico e “valoriale” (culturale, religioso, ecc.).
In una seconda fase che va dai primi decenni del XIX fino alla prima metà del XX secolo, il capitalismo deve consolidare il suo dominio e per questo, vinta ormai definitivamente la battaglia contro l’”ancien regime, recupera e reintegra in parte la vecchia e (parzialmente) dismessa sovrastruttura culturale e ideologica integrandola nella nuova che ha come baricentro il “nuovo” ordine borghese liberale capitalista fondato a sua volta, dal punto di vista politico, sullo stato-nazione. Si viene così a creare un nuovo “apparato” (sovrastruttura) ideologico/valoriale che sostanzialmente è una miscela di “vecchio e nuovo”, di liberalismo e di vecchie istanze metafisico-religiose mutuate dall’ “ancien regime”. Si crea, dunque, il nuovo (ormai vetero…) sistema ideologico valoriale (falsa coscienza) borghese, quello che comunemente definiamo con il famoso “Dio, Patria e famiglia” che è stato egemone per almeno un secolo, fino agli anni ’50 del secolo scorso.
Questo apparato valoriale che prevedeva e comprendeva anche il patriarcato (fermo restando, spiega Marx nel Manifesto, che l’esistenza della famiglia borghese era possibile e trovava compimento solo nella forzata mancanza della vita di famiglia per i proletari, cioè nella dissoluzione di fatto della famiglia proletaria) e l’alleanza strategica con la Chiesa, è stato funzionale agli interessi della borghesia e del capitale, soprattutto nella fase in cui quest’ultimo aveva necessità di contrastare il movimento comunista e socialista mondiale che poneva chiaramente sul piatto la questione del suo superamento.
Con il crollo del comunismo e il dissolvimento dell’URSS, e soprattutto in seguito al processo di trasformazione economica, tecnica, della produzione e organizzazione del lavoro (e quindi conseguentemente anche sociale e culturale) avvenuto nella società capitalistica negli ultimi 40/50 anni – basti pensare al tramonto della cosiddetta fabbrica fordista (e alla sua successiva evoluzione), alla ultra parcellizzazione, automazione, precarizzazione e frammentazione del lavoro, al conseguente sconvolgimento delle classi sociali avvenuto in seguito a tale processo e al ruolo decisivo e sempre più pervasivo della tecnica, pensiamo ad esempio all’eugenetica – il sistema valoriale borghese (Dio, Patria e Famiglia) diventa inservibile e anzi di ostacolo al parzialmente nuovo ordine sociale “post moderno” e “ultra capitalista”. Il capitalismo, giunto al suo stadio supremo (che è quello attuale, del futuro non ci è dato sapere), quello della feticizzazione assoluta della merce e della mercificazione assoluta non solo dell’agire umano ma dell’umano stesso, non ha più necessità di strutture (a parte gli stati e i loro apparati militari, di sicurezza ecc.) e soprattutto di sovrastrutture rigide. Al contrario, ha necessità di un contesto sociale e di sovrastrutture sociali estremamente fluide e flessibili, cioè l’esatto contrario della società vetero borghese ottocentesca (e patriarcale). Il suo obiettivo è la riproduzione infinita e illimitata di sé stesso, cioè del capitale e della “forma merce”, nel momento in cui questa è diventata ormai la totalità della realtà stessa. La “comunità umana” deve essere ridotta ad una massa di produttori (precari) e di consumatori passivi, sprovvisti di ogni forma di coscienza e identità, a partire da quella di classe, fino a quella culturale e oggi addirittura sessuale.
Abbiamo affrontato e approfondito questi temi in questi articoli:
http://www.uominibeta.org/editoriali/il-capitalismo-alloffensiva-su-tre-fronti/
http://www.uominibeta.org/editoriali/il-nuovo-orizzonte-del-capitalismo-la-cancellazione-delle-identita-sessuali/
https://www.linterferenza.info/attpol/la-nuova-falsa-coscienza-delloccidente-e-del-capitale/
http://www.uominibeta.org/editoriali/ha-ancora-senso-considerare-il-patriarcato-come-larchitrave-delle-societa-capitalistiche-occidentali/
Di conseguenza, l’attuale sistema capitalista deve rimuovere ogni barriera, ogni “auctoritas” che potrebbe essere potenzialmente di ostacolo all’unica “auctoritas” oggi realmente consentita, cioè quella rappresentata dalla forma merce e dalla sua illimitata riproduzione, materiale e immateriale.
Ci troviamo quindi dentro quella che Bauman definiva la “società liquida” neocapitalistica postmoderna, che ha necessità di individui “non sociali” (parafrasando invece il celebre libro del compianto Pietro Barcellona), ridotti ad una sorta di monadi incapaci di relazionarsi fra loro se non attraverso la forma alienata e alienante dello scambio mercantile. Qualsiasi altra istanza o soggettività che non sia funzionale a questo “progetto”, cioè sostanzialmente al flusso ininterrotto e illimitato della forma merce, cioè dell’unica forma di “auctoritas” morale oggi di fatto (al di là delle liturgie formali e ideologiche del tutto artificiose, cioè della produzione della marxiana falsa coscienza socialmente necessaria) consentita e a cui facevamo cenno poc’anzi, deve essere rimossa. Da qui la tendenza (in atto) finalizzata alla cancellazione o quanto meno al sostanziale indebolimento di ogni identità, a partire proprio dall’identità sessuale. La qual cosa non è ovviamente casuale; cosa esiste infatti di più potente e di più naturale dell’identità sessuale, dell’appartenenza al proprio sesso, prima ancora dell’appartenenza sociale, etnica o culturale? Ecco, dunque, per il capitalismo, giunto al suo stadio apicale (per lo meno per ora, non siamo in grado di conoscere la sua eventuale e anche altamente probabile e ulteriore espansione, specie perché in stretta comunione con la Tecnica, ossia la sua più potente alleata), la necessità di intervenire non solo sul piano sociale tradizionale ma anche su quello antropologico e addirittura genetico (il femminismo “genderista” è oggi una delle sue punte di diamante in tal senso)
Ecco perché anche il “paterno” deve essere distrutto o comunque ridotto ad una sorta di appendice o di protesi del materno.
Il paterno – spiega Erich Neumann nel suo libro “Storia delle origini della coscienza” – rappresenta l’irruzione nell’Uroboros dell’io nel non-io, del distinto nell’ indistinto, del limite nell’illimitato, della “forma” nella/sulla materia. Senza questa irruzione, senza questo metaforico ma anche sostanziale strappo, l’individuo (inteso come persona) non potrà mai costituirsi in quanto tale, nella sua autonomia e consapevolezza. Egli resterà sempre un soggetto privo di una sostanziale identità, fluttuante nel metaforico “brodo” di cui sopra, incapace cioè di definirsi come uomo o come donna (anche se il problema, per ovvie ragioni, riguarda oggi prevalentemente gli uomini) nel mondo. Da qui l’attacco sfrenato al paterno e al maschile, dove paterno sta per patriarcato e maschile per maschilismo; non sono ammesse altre interpretazioni.
Del resto, la “società liquida” così puntualmente descritta da Bauman è la società della mercificazione totale e assoluta dell’ente umano e per questo ha necessità, come dicevamo, di eliminare qualsiasi forma di “auctoritas” che non sia direttamente o indirettamente ricollegabile alla riproduzione in linea teorica illimitata di quel metaforico “Uroboros” costituito dalla “forma merce”. Ergo, non ha più nessun senso continuare a sostenere che l’attuale società capitalistica sia dominata dalla cultura patriarcale. Sostenere una simile tesi equivale a sostenere che l’attuale crisi economica è dovuta ai rapporti di produzione feudale, alla mancata privatizzazione delle terre incolte e alla rendita fondiaria …
Continuare a sostenere che il patriarcato costituirebbe tuttora la struttura portante, l’architrave dell’attuale società capitalista è del tutto privo di senso. Sarebbe come analizzare e interpretare l’attuale società capitalista con le stesse categorie interpretative con cui si analizzava e si interpretava la società feudale! Una contraddizione in termini. Un assurdo logico.
Eppure, proprio questo assurdo è ripreso e sostenuto nel documento di “Non una di meno” fatto proprio da Potere al Popolo.
La nostra opinione è che questa visione delle cose sia, fra le altre cose, viziato da un errore strutturale che consiste in una errata interpretazione della dialettica e conseguentemente della prassi. Un errore che degenera inevitabilmente nel dogmatismo. Se il pensiero marxiano, fra le altre cose, ci ha insegnato qualcosa è proprio ad entrare in una relazione dialettica con la realtà, ad analizzarla e interpretarla (per trasformala) per quella che è, con le sue contraddizioni reali, nel suo divenire, e non per quella vorremmo che fosse sulla base dei nostri desiderata ideologici, cioè di categorie fissate una volta per sempre in una sorta di luogo fuori dal tempo e dallo spazio, una specie di Iperuranio post-moderno. Continuare a sostenere che l’attuale dominio capitalistico sia contestualmente anche patriarcale, sta a significare che, come minimo, non si è entrati in una relazione dialettica con la realtà e si continua a riproporre liturgie ideologiche che non hanno più nessuna o quasi attinenza con la realtà.
Per queste ragioni, dopo un’attenta riflessione, siamo giunti alla conclusione che non ci è possibile sostenere la lista di Potere al Popolo. Perché non è possibile, dal nostro punto di vista, combattere il sistema capitalista dominante sposandone la sua ideologia.
Da molto tempo sollecitiamo l’apertura di un dibattito e di un confronto dialettico su questi temi ma queste nostre sollecitazioni vengono sistematicamente lasciate cadere nel vuoto, a voler essere benevoli. Ma senza dialettica non c’è crescita. E la dialettica c’è quando ci sono polarità che si confrontano fra loro, anche in modo conflittuale, se necessario. Oggi, sul grande e complesso tema della relazione fra i sessi, c’è una sola campana a suonare, quella femminista. La sola che sia pubblicamente e ufficialmente riconosciuta, in tutti gli ambiti, da sinistra a destra e viceversa.
Noi pensiamo che se la Sinistra che si autodefinisce di classe e antagonista vuole ritrovare le sue ragioni di esistere e recuperare quel rapporto che ha perduto con quelle masse popolari che ambirebbe a rappresentare, deve aprire una discussione anche e soprattutto su questi temi, deve avere il coraggio di accendere i riflettori della critica su quelle che ormai da molto tempo sono considerate delle Verità Assolute, incontrovertibili, incriticabili, date per acquisite, in altre parole, dei Dogmi. Lo deve fare, pena la sua scomparsa.
Ci auguriamo che dopo la campagna elettorale, al di là del suo esito, il nostro invito ad una franca ma serena discussione, posso essere accolto.
Un caro saluto e i migliori auguri da parte nostra per un risultato più che favorevole il prossimo 4 marzo!
I compagni del Movimento degli Uomini Beta
Fonte: http://www.uominibeta.org/home/lettera-aperta-agli-uomini-e-alle-donne-di-potere-al-popolo/