Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera indirizzataci da due ragazzi cristiani e omosessuali, come loro stessi di definiscono, già pubblicata il 19 marzo dello scorso su questo blog:cristiani omosessuali una proposta etica
Ci sembra un contributo interessante e soprattutto coraggioso, al di là della sua condivisione o meno, che ha il merito di aprire una riflessione che va oltre i rigidi schematismi e le diverse “vulgate” con cui normalmente la questione dell’omosessualità viene affrontata.
Non può che farci piacere la decisione di Daniele e di Piotr, di voler pubblicare questo loro documento anche sul nostro giornale.
“Siamo due ragazzi che si sono conosciuti tramite un social network per mezzo di alcune amicizie in comune; non ci siamo cercati ma è stata quella che qualcuno definirebbe “casualità” a farlo per noi. Mentiremmo se non dicessimo che siamo convinti che è stato Cristo a metterci l’uno sul cammino dell’altro. Iniziando a scambiare qualche parola, abbiamo scoperto di essere accomunati dalla fede cattolica, innanzitutto, e in secondo luogo dal provare sentimenti di affetto e di attrazione nei confronti di persone del nostro stesso sesso. Detta con semplici parole, cristiani omosessuali. Nei nostri cammini, differenti per esperienza, ma con le difficoltà che incontrano tutti gli uomini, e in particolare i cristiani nel vivere quotidianamente il Vangelo, abbiamo imparato che questi due aspetti – che molti si ostinano a ritenere inconciliabili – alla luce della grazia di Dio possono diventare l’uno il completamento dell’altro se integrati fecondamente nella nostra persona. Sopprimerne uno, oltre ad essere un grave atto di irriconoscenza nei confronti di Colui che ci ha fatto dono di questo duplice mistero (le cui cause non sono state ancora chiarite né dalle scienze né dalla teologia), ci allontanerebbe definitivamente da quella “perfetta letizia”, per dirla con le parole di San Francesco, cui la nostra anima tende. Con questo non intendiamo ritenerci gli unici o i primi cristiani omosessuali a questo mondo, tutt’altro: nella bimillenaria storia della Chiesa ci sono state moltissime persone che, come noi, hanno vissuto con questa “spina nella carne”; gli storici ci dicono che alcune di loro, a seguito di una vita esemplare, sono state innalzate agli onori degli altari e oggi possiamo venerarle come santi e beati.
Non sosteniamo l’ideologia “gender”
Anche noi abbiamo notato che, sia dal lato dei fautori, sia da quello dei detrattori, oggi si tende a fare un calderone unico tra omosessualità, “sottoculture gay” e teoria “gender”. Partiamo da quest’ultima; nata nel secolo scorso sulla scia del movimento femminista, la teoria gender postula la tesi che nessuno nascerebbe uomo o donna né dovrebbe riconoscersi tale a causa di particolari caratteristiche fisiche, ma sarebbe una “libera” scelta a posteriori che spetterebbe al soggetto, libero dai vincoli della “società borghese”. Si tratta evidentemente di un’assolutizzazione delle facoltà di autodeterminazione dell’individuo, uno strascico di un pensiero disgregante che, privo di qualsivoglia morale (eteronoma o autonoma), ha prodotto danni in molti campi, dall’economia alla famiglia. Tornando al gender, ci preme sottolineare che non si tratta di una semplice “opinione” o teoria, ma di una vera e propria ideologia (talvolta di Stato) che in alcuni paesi nordici si è trasformata in pratica nella didattica all’interno delle scuole dove si è giunti ad una neutralizzazione del linguaggio, dei giochi, dell’insegnamento. Pericolosamente tutto ciò si sta insinuando anche in Italia, ad esempio in alcuni documenti dell’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Citiamo uno stralcio tra i più significativi, rivolti agli insegnanti: «Nella sua pratica didattica quotidiana, il singolo docente dovrebbe assicurarsi che sia evitato il più possibile un linguaggio etero sessista o genderista. Alcuni metodi per evitarlo sono, ad esempio, usare pronomi neutri nel riferirsi a qualcuno (a meno che non si sia certi che tale persona è un uomo o una donna), rivolgersi agli studenti come persone o studentipiuttosto che come ragazzi e ragazze, usare, nella rappresentazione delle persone, nomi e colori di genere neutro (non colori collegati ad un genere come il celeste o il rosa), così che sia possibile per ogni studente identificarsi con tale rappresentazione. […] Anche nei rapporti con le famiglie è importante rivolgersi ai genitori piuttosto che a mamma e papà». Conformemente all’antropologia cristiana, riteniamo che ognuno di noi, creato a immagine e somiglianza all’immagine dell’unico Dio, è prezioso anche nella propria unicità. Qualsiasi uomo in quanto “essere in relazione” (Fides et Ratio, 21) nel confronto con gli altri stabilisce necessariamente rapporti di diversità e eguaglianza. Spesso il cosiddetto “movimento omosessuale”, e prima di esso quello femminista, si è trovato di fronte al bivio se portare avanti le proprie rivendicazioni sotto l’insegna o dell’diversità da sbandierare con orgoglio (differenzialismo) o dell’uguaglianza (mimetismo), princìpi che assolutizzati risultano sterili. Come abbiamo visto in queste righe, nell’ideologia gender si ha dapprima una neutralizzazione “unisex” (di nomi, giochi, vestiti) seguita poi da una precoce ri-sessualizzazione. Impostazione che ritroviamo in un documento dell’Ufficio Regionale per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’edizione italiana promossa e finanziata dalla Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica, dove si invita a informare i bambini dai 0 ai 4 anni (sic!) sulla «gioia e piacere nel toccare il proprio corpo, masturbazione infantile precoce» ad esempio «nel contesto del gioco del dottore», con il «diritto di esplorare la nudità [e] le identità di genere». Il modello è quello della tabula rasa, del reset totale, per poi – storditi dal luccichio delle vetrine – scegliere ciascuno il proprio oggetto di consumo. Non vogliamo lasciar dubbi in proposito: senza per questo cedere all’“omofobia”, noi cristiani omosessuali condividiamo la critica che molti muovono a queste follie e riteniamo particolarmente deprecabile legare aiuti economici per i paesi più poveri all’adozione di libri di testo conformi alle suddette teorie. Tutto ciò accrescerebbe la confusione già presente e di certo non sarebbe la strada migliore per giungere ad un’accoglienza armoniosa nella nostra società. Educare al rispetto dell’altro per noi non è sinonimo di cancellare la diversità tra uomo e donna o tra mamma e papà i quali, secondo l’ideologia gender, sarebbero retaggi di una mentalità “borghese” da superare, proprio come la fede religiosa che costituirebbe, secondo l’UNAR, un “fattore di rischio” per l’“omofobia”, un po’ come il fumo che andrebbe contrastato per evitare il cancro ai polmoni. Qualcuno ci scuserà se in questa sede non ci siamo soffermati sulle specifiche sfumature teoriche tra gender, (post)gender e (gender)queer– che non ignoriamo, seppur presenti quasi esclusivamente in nicchie accademiche – ma ciò è dovuto al fatto che abbiamo preferito guardare alla “verità effettuale” delle cose, perché ciò che dovrebbe preoccuparci maggiormente è quanto viene assorbito dalla società, in particolare se imposto alle generazioni più indifese. A prescindere dalle etichette, abbiamo provato a esplicitare il nostro rigetto dei principi individualistici – che pretendono il diritto/dovere di decostruire e di ricostruire tutto a proprio piacimento – fondativi di queste impostazioni, che ci siamo permessi di considerare come un mix ideologico unitario.
Non apparteniamo alla sottocultura “gaio-sessuale”
Per fare ulteriore chiarezza, vorremmo precisare che vivere la condizione omosessuale non significa necessariamente appartenere alla “sottocultura gay”, suddivisa in rivoli deliberatamente auto-ghettizzanti, fatta di battuage, cruising e dark room. Questa sottocultura, nata nel periodo “catacombale” – quando l’omosessualità era ancora un tabù, una macchia che poteva costare l’allontanamento dagli schermi televisivi, o persino un reato – oggi andrebbe inquadrata in un fenomeno ben più ampio che riguarda quella che Éric Zemmour definisce “dévirilisation de la société”. In un saggio scritto dal medico psichiatra, psicoterapeuta e sessuologo omosessuale Mattia Morretta se ne parla apertamente: «narcisismo, vanità, effeminatezza, passività, onnipotenza, immoralità o amoralità, gelosia e invidia senza freno, manipolazione e vendicatività, sono tutti tratti distintivi di un infantilismo approvato socialmente e amplificato dai media, una volta attribuito in esclusiva agli omosessuali». Quella che lui definisce non omo-sessualità ma “gaio-sessualità” è appunto
«il modello di individuo isolato, “libero” di stato civile, sganciato dalla rete comunitaria per potersi dedicare al corpo e al piacere fisico, consumatore anzitutto nella sfera sessuale, è abbracciato da una gran parte dei moderni etero, i quali perciò approvano uno stile di vita inglobandovi gli omo che lo “rappresentano” da tempo immemore, senza riconoscerli veramente e comprenderne le specificità (che non hanno importanza per loro). Il tipo e l’immagine “omosessuale” giovanile curato spensierato corrisponde all’aspirazione dell’uomo medio che vorrebbe poter adottare criteri individualistici in ambito relazionale (sessuale e affettivo); l’omosessualità, infatti, era ritenuta sessualità pilota negli anni Settanta in quanto non procreativa e a orgasmo illimitato. Pertanto, verrebbe da considerare che siano gli omosessuali a venir trascinati e sfruttati dal velleitarismo sessuale e sentimentale degli eterosessuali, fautori di un progetto “separatista” (secessionista) che prende di mira i dettami morali e punta a destrutturare l’impianto civico. Non sono gli omosessuali ad aver scalato la vetta della normalità, sono “gli altri” ad aver de-costruito, in maniera inerziale e non propositiva, i generi e i ruoli sessuali. Gli etero perciò hanno raggiunto gli omo e non il contrario, per il processo di deriva identitaria verso “le diversità”» (Morretta, 2013: 259-260).
Infatti,
«sono gli eterosessuali del XXI secolo che vogliono ridurre al minimo i loro impegni nei confronti di mogli/mariti, figli, Stato e via dicendo, ad adoperarsi per nascondere le loro pretese e convenienze, l’assenza di progetti familiari, l’insofferenza sino al rifiuto di regole e limiti, dietro il falso e mal posto problema dei bisogni degli omosessuali quali soggetti “deboli”. Così, le gerarchie ecclesiastiche, la destra più bigotta, i politicanti da strapazzo e i sociologi della superficialità possono prendersela una volta ancora con le solite vittime designate» (Morretta, 2013: 31).
Questa va temuta: non l’omosessualità delle persone omosessuali ma la gaio-sessualità, anche degli eterosessuali. Vogliamo forse dare la colpa del calo dei matrimoni e della natalità agli omosessuali?
Dignità e rispetto non possono essere imposti per via legale
Già che abbiamo menzionato la parola “matrimonio”, veniamo ad un nervo scoperto, quello dei “diritti gay”. A tal proposito, il riconoscimento giuridico di una coppia omosessuale non deve essere confuso con il rispetto e la tolleranza che – indiscutibilmente – merita ogni figlio di Dio. Nonostante molte associazioni/lobbies come l’ILGA continuino a sostenere il contrario, l’Italia è un paese in larga parte rispettoso e fondamentalmente non omofobo né tantomeno razzista. Secondo una ricerca Eurispes, ad esempio, solo l’1,3% degli italiani mostra un atteggiamento di aperta disapprovazione nei confronti degli omosessuali. Dal canto nostro ci auguriamo che questa percentuale possa scendere ulteriormente, ma leggi liberticide come quelle “anti-omofobia” vorrebbero farlo imponendo a tutti di accettare e condividere una diversità percepita come tale. Come osserva Morretta: «Un conto è invitare la collettività a non offendere o condannare per partito preso, un altro conto è obbligare a parlar bene dei gay per principio, cioè imporre un a priori a rovescio». Costringere quella società oggi supposta come “omofoba” a “parlare bene” dell’omosessualità equivarrebbe ad una “vendetta” giuridica cui noi personalmente non vogliamo prendere parte. Compito del diritto è tutelare la libertà di ogni cittadino e la partecipazione di ogni singolo membro della collettività al bene comune, garantendo medesimi diritti e doveri. Spesso si pretende che i diritti e i doveri di una coppia omosessuale debbano essere gli stessi di una coppia eterosessuale, ma così si dimentica che l’unione fra un uomo ed una donna è per natura quella predisposta alla procreazione e alla crescita della prole. Durante il “Colloquio interreligioso sulla complementarietà tra uomo e donna” il nostro PonteficeFrancesco ha affermato: «La famiglia è un fatto antropologico, e conseguentemente un fatto sociale, di cultura. E noi non possiamo qualificarla con concetti di natura ideologica che soltanto hanno forza in un momento della storia, e poi cadono». Si parla spesso di “diritti gay” ma ci si dimentica di quale sia uno dei diritti fondamentali di un bambino: il diritto a crescere in una famiglia, con un papà ed una mamma, nella complessità dei ruoli che ognuna di queste due figure è portatrice. Oggi, proprio per porre un freno alla “gaio-sessualità” irresponsabile (che nel frattempo accorcia i tempi per i divorzi etero), qualche forma di riconoscimento giuridico duraturo – e quindi non un generico “contrattino a tempo determinato” – sarebbe auspicabile per permettere alle coppie omosessuali di concepire progetti di vita in un orizzonte temporale maggiore. Ma ci rendiamo conto che i vari associazionismi LGBTQIAS(…) continuano ad avanzare proposte con atteggiamenti simbolici (nei fatti, quanti ne beneficerebbero effettivamente?), difensivi, oppositivi, risarcitori e di rivalsa che di certo non sono i presupposti per una integrazione pacifica nella comunità, e anzi acuirebbero gli scontri tra arci-gay e anti-gay. Spesso ci fanno credere che i “bisogni” delle persone omosessuali siano queste tutele giuridiche ed esclusivamente queste, tant’è vero che nella mitologia gay esistono i “paradisi” come la Spagna, trascurando il fatto che anche lì dei veri bisogni (amicizie disinteressate, spiritualità, qualità della socializzazione, ecc.) non se ne occupa nessuno e che, in un siffatto momento di crisi economica e sociale, sono in pochi a potersi permettere il lusso di sposarsi. Ci si illude che con queste leggi le persone omosessuali vivrebbero tutte felici e contente, ma vorremmo insistere sul fatto che la felicità non sta tanto nell’incarcerazione del vecchietto scandalizzato per la promiscuità in luogo pubblico, quanto nell’appagamento dei bisogni intimi di affetto e tenerezza, oggi alienati dal consumismo (anche sessuale) imperante. In sintesi, il rispetto per le persone omosessuali è un cammino lungo che deve essere compiuto da entrambe le parti, iniziando ciascuna a rimuovere la trave che ha nel proprio occhio prima di togliere la pagliuzza che sta in quello altrui. Di certo la dignità non può ridursi ad un’imposizione legislativa ed è difficile che possa scaturire da essa.
Essere omosessuali – e noi aggiungiamo l’aggettivo adulti – è qualcosa di ben diverso e va al di là della partecipazione al gay pride che ogni anno viene riproposto in molte città del mondo. Indubbiamente questa manifestazione è legata ad un momento storico ben preciso e fu ideata con la volontà di emanciparsi da un periodo buio e di intolleranza istituzionalizzata. Oggi siamo agli antipodi, perché «ciò che è stato in precedenza tacciato di vizio o anormalità, nonché un condensato della scabrosità e pericolosità del sesso, costituisce un prototipo del godimento privo di limitazioni o debiti» (Morretta, 2013: 196). Tutti possono notare che non c’è spettacolo che non ospiti un esemplare digay, ancor meglio se macchiettistico – altrimenti sarebbe giudicato “omofobo” –, ma si tratta di una finta integrazione, poiché «l’approccio ideologico alla problematica omosessuale ha favorito una normalizzazione superficiale intessuta di finto dibattito e falso protagonismo nella piazza mediatica, mentre le esperienze dei singoli omosessuali continuano a svolgersi in scenari di marginalità e persino miseria relazionale nell’indifferenza generale» (Morretta, 2013: 5). E noi, allora, come possiamo essereomosessuali adulti, capaci di vivere eticamente una vita che non sia solo sesso e divertimento? Cosa può pensare la gente se mostriamo solo paillettes, lustrini, travestiti, carri allegorici di palestrati con le chiappe all’aria e ninfomani che hanno fatto del godimento genitale l’unico scopo della loro vita? Sarebbe legittimo pensare che sia solo un capriccio la pretesa di adottare bambini o, peggio, procrearli con uteri in affitto? Assolutamente sì, e non si tratta di omofobia, termine che andrebbe usato parsimoniosamente per evitare la fine del pastorello che gridava sempre “al lupo!” nella favola di Esopo. Finché ci saranno rivendicazioni animate essenzialmente dal vittimismo non si potrà giungere ad una posizione matura. Per poter approdare ad essa occorrono spazi di dialogo e maturazione personale, una “terza via” non contemplata dalla “sottocultura omosessuale” che si biforca tra l’atteggiamento sindacalistico, che include la difesa d’ufficio di ogni singolo gaio-sessuale che si trovi coinvolto in qualsiasi vicenda o discussione, e l’atteggiamento edonistico genitale.
Alcune proposte etiche per le persone omosessuali: responsabilità, castità e testimonianza
Personalmente noi due scriventi abbiamo esperienze differenti. Daniele, ad esempio, è impegnato in una scelta di coppia fedele, un amore reciproco che nasce dal rispetto dell’altro; amore che unisce a prescindere dal rapporto sessuale e che si manifesta in un cammino di vita condiviso anche alla luce della forza dirompente del Vangelo di Cristo. Nella nostra realtà sono molte però le coppie omosessuali che si definiscono “aperte”, nascondendo dietro questa parola la scelta di portare avanti relazioni sessuali con altre persone all’infuori della coppia. Questi comportamenti non possono e non devono essere confusi con quelli delle coppie che hanno scelto un cammino ben diverso. Interessante a tal proposito è la scelta di molte persone di non identificarsi con il termine omosessualità ma con quello di “omofilia” che «che non si riferisce immediatamente all’uso della genitalità, ma mette piuttosto l’accento sull’esistenza di un’attrazione tra soggetti che appartengono allo stesso sesso sul terreno psicologico affettivo» (Piana, 2010: 14). Per troppo tempo il movimento omosessuale è stato confuso con la liberalizzazione sessuale; questo ha creato molti danni e infelicità. Ora è il momento di testimoniare che esistono altre vie etiche percorribili e che sempre più persone scelgono di viverle, anche per mostrare a chi si scopre omosessuale che il suo spettro di alternative è ben più ampio della scelta fra le innumerevoli perversioni sessuali mercificate nei sexy-shop e presenti sui siti pornografici che noi, in quanto cristiani, lottiamo per allontanare dalla nostra vi(s)ta.
Come è noto, la proposta cristiana implica la castità per tutti, e che – parafrasando Spinoza – non è assenza di sesso (quella è detta a-sessualità) ma è “buon uso” del nostro corpo. Al momento la Chiesa Cattolica propone alle persone omosessuali come modello quello della continenza assoluta, obiettivo verso cui idealmente tutti dovremmo tendere e che qualcuno, come il francese Philippe Ariño mostra non essere impossibile e come anche noi, nella nostra vita, abbiamo saputo sperimentare per periodi più o meno lunghi che ci hanno aiutato a crescere e ad acquisire maggiore padronanza del nostro corpo. Ma, come già affermava San Paolo, «se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere» (1Cor, 7: 9); tuttavia, dicevamo, gli omosessuali non possono “sposarsi”: quali possono essere allora i cammini percorribili per chi non ha ricevuto la vocazione per vivere la continenza assoluta? È possibile negare per principio alle persone omosessuali una prospettiva di amore integrale? Questo è un campo dibattuto dai teologi moralisti, da Giacomo Rossi a Kevin T. Kelly, da monsignor Geoffrey James Robinson al domenicano Timothy Radcliffe, passando per Paolo Gamberini. Il Sinodo dei Vescovi che quest’anno giungerà al compimento ha fatto propria questa sfida, mostrando come il cantiere sia effettivamente aperto: «La questione omosessuale ci interpella in una serie di riflessioni su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale» (Relatio post disceptationem, 51) e «anche per la pastorale per le persone omosessuali si è insistito sulla importanza dell’ascolto, e anche di gruppi di ascolto» (6a Congregazione Generale). In Italia da circa trent’anni esistono gruppi come La Fonte e il Guado a Milano, Nuova Proposta a Roma o Kairos a Firenze e, pur non facendone parte, abbiamo appreso (cfr. Pezzini, 1998) che si tratta di realtà particolarmente feconde; però, considerando l’importanza della “sfida educativa” (espressione che ha soppiantato quella di “problema”, presente nei documenti del magistero meno recente) ci sembra ancora troppo poco, spesso lasciato all’iniziativa dei singoli. C’è poi chi – come alcuni sacerdoti e qualche nostro amico – preferisce prestare il proprio servizio in modo silenzioso, senza sbandierare i propri gusti sessuali, facendo proprio lo slogan profetico di un convegno del 1990: “Da una clandestinità imposta ad una riservatezza voluta”. Soprattutto si soffre la «mancanza di voci fuori dal coro, persino di padri e profeti capaci di rimproverare e richiamare, che abbiano a cuore la loro umanità» (Morretta, 2013: 7). In questo senso, il giornalista americano Constantino Diaz-Duranha mostrato che si potrebbe andare in direzione di un matrimonio “per tutti” assicurando ad esso piena dignità e significato per mezzo di un cammino di astinenza pre-matrimoniale (laddove sia concesso giuridicamente a due persone dello stesso sesso di sposarsi), e ne sta dando un bellissimo esempio con la sua vita, nonostante sia legato da una relazione di coppia con un ragazzo. Inoltre siamo molto grati a Edoardo Rialti, che scrive ottimi articoli di critica letteraria suIl Foglio, per la sua lucida testimonianza di fede e di vita; purtroppo in Italia sono pochissime le testimonianze come la sua, ma ciò non significa che non ce ne siano.
Nel nostro piccolo, vorremmo associare ad essi le nostre testimonianze, mostrando che esiste quindi una omosessualità etica che, nel tentativo di costruire con responsabilità rapporti di coppia e amicali, non si pone certamente i medesimi scopi della gaio-sessualità spensierata, con la quale però inevitabilmente ha alcune occasioni di confronto che potrebbero rappresentare ulteriori sfide per l’evangelizzazione; ardue, ma non impossibili da affrontare. Val la pena ricordare che, come tutti, anche noi siamo peccatori, e non solo nella sessualità; qualora combattessimo esclusivamente e morbosamente contro il peccato sessuale (ossia la genitalità sterile, in tutti i sensi) rischieremmo di peccare più gravemente in altri campi, ad esempio venendo meno al comandamento dell’amore, sull’osservanza del quale saremo giudicati, come da sempre insegna la Chiesa.
Omosessuali per natura o cultura? La prospettiva personalistica
In queste righe non abbiamo ancora affrontato una questione dibattuta in antropologia: l’omosessualità tra “natura” e “cultura”. Omosessuali si nasce o si diventa? È un quesito che ci siamo posti anche noi, rendendoci conto che né l’una né l’altra risposta ci soddisfano appieno. Per molto tempo, in una prospettiva teologica, ci si è rapportati alla realtà omosessuale ripetendo una banale posizione naturalistica, in base alla quale l’omosessualità sarebbe sbagliata in quanto “contro-natura”, contro l’ordine corretto della creazione, contro la volontà divina. Oggi ci sono scienziati che cercano, al contrario, di dimostrare l’esistenza di un “gene dell’omosessualità”, anche se con finalità non ben definite: si cercherà di estirparlo? Oppure vorranno utilizzarlo per de-responsabilizzare l’individuo che vive questa condizione, il quale sarebbe programmato alla promiscuità, così come il leone è programmato per sbranare i facoceri? In egual misura, il voler cercare a tutti i costi una spiegazione alla realtà omosessuale ricorrendo a rapporti di causa ed effetto legati solo a processi psicologici, sociali e culturali è fuorviante perché verrebbe meno il presupposto indispensabile del riconoscere il mistero di ogni singola creatura nella sua unicità. Anche qui, se l’omosessualità fosse esclusivamente una scelta – volontaria o imposta – come sostengono sia gli ideologi “gender” sia dagli ideologi delle “terapie riparative”, sarebbe possibile senza troppi problemi passare dall’omosessualità all’eterosessualità, e viceversa; ecco la “fluidità sessuale” in questo “amore liquido”, come direbbe Bauman. Tuttavia, salvo casi di bisessualità o di attrazioni passeggere, la stragrande maggioranza dei casi ci mostra che non è cosi. La stessa Chiesa Cattolica, che prima si focalizzava sulla peccaminosità dell’“atto”, oggi riconosce la presenza di una forma di omosessualità permanente, frutto di una struttura originaria della persona che non nasce da una scelta ma costituisce una prerogativa tutta particolare di essere al mondo. «L’omosessualità può essere infatti, in un certo senso, considerata […] come una “seconda natura”», commenta Giannino Piana. Questo importante teologo italiano imposta la questione da una prospettiva personalista che, per comprendere al meglio la realtà della nostra omosessualità, può essere senz’altro più fertile perché tiene conto delle diversità di ogni singola persona e al contempo rifiuta l’etichettatura in base ai meri gusti sessuali: innanzitutto siamo persone, dunque cristiani. L’uomo si realizza nella relazione con gli altri; in modo specifico, è importante considerare le relazioni omosessuali partendo da un modello che proponga un criterio di valutazione nella capacità di dare senso alla relazione, di viverla come una relazione autenticamente umana e in grado di integrare tutte le dimensioni (spirituali, psicologiche e fisiche). Di conseguenza sono da ritenersi sbagliate e peccaminose tutte quelle relazioni, siano esse eterosessuali o omosessuali, vuote e prive di significato. Pur ribadendo le peculiarità specifiche della relazione eterosessuale, per le evidenti possibilità di una fecondità biologica, sarebbe eticamente opportuno lasciare spazio ad altre forme di relazione egualmente dignitose in cui la relazionalità umana si incarna. La persona omosessuale non ha né più né meno “libero arbitrio” rispetto a quella non omosessuale, e pertanto dovrebbe anch’essa compiere delle scelte nell’orientare la propria vita e nel riconoscerle un senso, come tutti gli uomini sono chiamati a fare. C’è sicuramente la possibilità di autentiche relazioni – amorose ma anche amicali, sebbene spesso la “gaio-sessualità” tenda a ridurre entrambe a “trombamicizie” disimpegnate – sia eterosessuali, sia omosessuali. Con la nostra vita, e con l’aiuto di Dio, vorremmo testimoniare che omosessualità, eterosessualità – e affettività in generale – possono far rima con responsabilità.
Oltre il conflitto arci-gay VS anti-gay: riqualificare eticamente l’omosessualità
Infine, rivolgiamo a tutti il nostro appello: finiamola con la guerra civile ideologica tra arci-gay e anti-gay! In quanto cristiani omosessuali, noi ci collochiamo in una posizione di equidistanza: condividiamo l’esigenza di rispetto dell’una e le preoccupazioni dell’altra parte, ma in molti casi entrambe ci appaiono accomunate dal medesimo stereotipo – purtroppo confermato da numerosi esempi – che vede nell’omosessuale l’avanguardia della sregolatezza sessuale e dell’individualismo post-borghese. Come abbiamo cercato di argomentare, noi non crediamo che questa sia una scelta obbligata. Facendo nostro l’invito di Mattia Morretta, intendiamo contribuire a «riqualificare culturalmente, con l’elaborazione di un pensiero raffinato e prezioso» (Morretta, 2013: 183), la nostra condizione di omosessuali. Con la felice metafora del “guado”, a coloro che vivono nella bambagia delle sottoculture genitali proviamo a testimoniare che la vera gioia è altrove, mentre nei confronti delle persone che ci circondano limitiamo le nostre richieste a due sole cose, che nessun provvedimento giuridico potrà mai assicurarci: dignità e accoglienza, nella misura in cui il vostro semplice cuore potrà esserne capace, affinché possiate apprezzare senza pregiudizi il nostro contributo nel servizio quotidiano – dal lavoro all’impegno ecclesiale – al progresso materiale e spirituale della comunità. La nostra posizione è di frontiera, o di “periferia esistenziale”, come direbbe papa Francesco; di certo avrete capito che non è comoda, vi preghiamo pertanto di stare al nostro fianco”.
19 marzo 2015