La crisi dell’immigrazione rimette in discussione lo spazio Schengen, sempre più affossato dagli egoismi nazionali e dalla deriva xenofoba del Vecchio Continente. Ma l’Europa non può permettersi di ristabilire le frontiere se vuole sopravvivere economicamente e se vuole preservare quella serie di valori che ne contraddistinguono la sua identità
L’Europa di oggi svela il suo volto peggiore: quello capace di ripristinare frontiere e alzare muri, quello conservatore e disumano, ma soprattutto quello che non è in grado di attuare delle concrete politiche di accoglienza per i migranti. Infatti è notevolmente fallito anche l’ultimo programma di ricollocazione varato dai vertici Ue, il quale prevedeva la sistemazione di 160000 profughi tra i diversi Paesi membri a seconda delle possibilità economiche. La realtà è che meno di 300 persone sono state accolte. Per ora nell’Unione non c’è nemmeno l’ombra di un altro piano per fronteggiare l’emergenza migratoria, a prevalere in questo momento sono solamente gli egoismi nazionali, che giorno dopo giorno affossano uno degli storici pilastri dell’architettura europea: il trattato di libera circolazione delle merci e delle persone. Ed ecco che la Svezia ha annunciato il respingimento di 80000 profughi, la Finlandia di 20000, mentre l’Olanda sta fantasiosamente pensando di rispedire in Turchia i richiedenti asilo sul suo territorio via treno. Nel frattempo Austria, Slovenia, Serbia e Macedonia hanno costruito muri per impedire il transito ai migranti. Ad aggravare ancora di più un quadro così tragico nella sua complessità ci sono le critiche di diversi governi europei nei confronti di Atene, accusata di essere troppo lasciva nei confronti dei migranti. E’ paradossale come molti Stati chiedano a Tsipras di intraprendere una politica di respingimento dei profughi, proprio nel mese in cui altre 500 persone sono morte nell’Egeo, consapevoli che respingere vuol dire affondare i barconi. La risposta del Primo Ministro ellenico è stata spiazzante perché ha toccato due ferite aperte nel cuore dell’Ue: “Noi diciamo che siamo orgogliosi della nostra azione che fa emergere il volto umano dell’Europa” – e ancora- “Mi si chiede quanto reggerà la Grecia ma io mi domando quanto reggerà l’Europa”. Parole che vanno a braccetto con quelle di Renzi: “Se l’Europa perde Schengen, perde sé stessa”.
Non c’è dubbio che le misure restrittive applicate da buona parte degli stati membri, oltre a mettere fine al patto di Schengen, possano provocare sia un aumento della criminalità per i trafficanti sia una deriva xenofoba dei cittadini europei. Come scrive Benoit Breville su “Le Monde Diplomatique”, i paesi europei hanno speso, negli ultimi 14 anni, 11 milioni di euro per espellere i “clandestini” e altri 2 miliardi per rafforzare le frontiere esterne. Il politologo Peter Andreas ha sottolineato che rendere più difficile l’accesso agli Stati non solo fa aumentare il costo e la durata del viaggio, ma implica anche la proliferazione di reti criminali in grado di corrompere funzionari per permettere ai migranti di passare. Contrariamento a quanto si possa pensare, applicare misure sempre più restrittive non dissuade assolutamente i profughi dal tentare ugualmente un “viaggio della speranza”. Chi lotta quotidianamente per sopravvivere nel proprio Paese di certo non si tira indietro dinnanzi ad un muro o ad una frontiera. Proprio questo rivelano le parole di un giovane ragazzo nigeriano: “Non ho soldi né lavoro né istruzione. Non posso avere una casa né formare una famiglia. Non credo nello Stato, non credo in niente e nessuno. Prego Dio di lasciarmi andar via, o di darmi un’arma per combattere”[1].
Non sarà una barriera a fermare la vita, ma probabilmente saranno i muri che stiamo ergendo ad accrescere il sentimento xenofobo che il Vecchio Continente pensava di essersi lasciato alle spalle. In realtà, ad ogni minima scossa, l’Europa riscopre quegli antichi pregiudizi razzisti che tanto possono compromettere la sua stabilità. La prova concreta della diffusione di questo sentire è possibile trovarla nelle manifestazioni del 23 e del 24 gennaio a Roztoky, cittadina nei pressi di Praga. In questo paese della Repubblica Ceca si sono dati appuntamento i membri dell’internazionale anti-islamica europea con lo scopo di dare una forte risposta ai problemi legati all’immigrazione. La riunione convocata dai tedeschi di Pegida si è aperta con una chiamata alle armi contro l’islam e i suoi collaborazionisti europei[2]. I rappresentanti dell’internazionale non hanno risparmiato nemmeno Bruxelles, colpevole di portare “solo miseria, disoccupazione, caos, corruzione e sfaldamento della morale”. Potremmo catalogare questo sentimento come frutto di un’eccessiva enfasi destrorsa in chiave neo-nazista, ma non dobbiamo assolutamente sottovalutare il potenziale di tali proclami in un Continente che sta perdendo i suoi punti di riferimento. Basta pensare che nella Repubblica Ceca il 60 % dei cittadini si dichiara contrario ad ogni provvedimento di accoglienza, mentre in molti altri stati Ue le cifre non sono per niente differenti.
Se non per compassione, almeno per denaro. Solo quest’ultimo motivo appare come l’unico realistico movente in grado di mantenere in vita Schengen. Sopprimere il trattato di libera circolazione equivarrebbe a sottoscrivere il testamento dell’Unione: il Vecchio Continente non può permettersi economicamente di porre fine al mercato unico, se non a patto di una radicale quanto utopica trasformazione dell’economia globale. Eppure era stato il libero scambio a innescare una notevole crescita del mercato comunitario, ma paradossalmente proprio l’Europa di oggi, incentrata soltanto su una moneta, disdegna uno dei suoi più grandi successi sul piano economico.
Cecilia Malmstrom, commissaria europea per il commercio, ha prontamente fatto sapere che “se verranno ristabilite le frontiere interne, come auspicano alcuni responsabili politici, avremo dei gravi problemi”[3]. Non è stata questa l’unica voce allarmante riguardo alla possibile chiusura dello spazio Schengen, anche la Federazione Olandese delle società di trasporto e logistica ha lanciato un inequivocabile avvertimento: il ripristino delle frontiere rappresenterebbe un mancato guadagno di 600 milioni. In effetti, all’orizzonte, si staglia una situazione che ha dell’incredibile: un’Europa composta da 500 milioni di cittadini che pur di non accoglierne appena un milione in un anno preferisce ritornare ad un modello economico molto simile al nostalgico feudalesimo medioevale. Nemmeno più i soldi o il profitto sembrano in grado di unirci per salvaguardare una conquista comune, chissà dove andremo a finire…
E’ ormai da troppo tempo che l’Ue ha abbandonato il sentiero verso una vera unione politica. Il Vecchio Continente si mostra come un malato cronico che non vuole imparare dai suoi errori del passato, ma che schiavo delle individuali spinte nazionalistiche volge senza troppi rimpianti verso la fine. D’altronde un’Europa che è vittima dell’egoismo non può pensare di salvaguardare un’unità comunitaria ancora per molto tempo.
E’ necessario prendere atto che le decisioni sul trattato di Schengen appaiono come una via dalla quale non è possibile tornare indietro: se i Paesi membri decretano la soppressione del libero scambio devono essere coscienti che mettono fine al sogno comunitario. Purtroppo l’Europa di oggi altro non è che un guscio vuoto, il quale, privato dei suoi valori fondanti, necessiterebbe di una profonda ristrutturazione: dal ristabilimento di rapporti tra politica e finanza alla creazione di un esecutivo comune che ne legittimi le scelte, dal recupero di un sentimento inclusivo che non permetta di affossare sempre il più debole fino all’ideazione di una vera e propria federazione di Stati. Non c’è dubbio che queste siano tutte problematiche di difficilissima risoluzione, ma porre fine all’esperienza comunitaria vorrebbe dire lasciare strada libera al trionfo dello spirito nazionalistico: proprio quello che ci potrà condurre nel prossimo futuro alla peggiore delle ipotesi, la guerra.
[1] Cit. in “The central Sahel: a perfect Sandstorm”.
[2] Si legga Jakub Hornacek su “Il Manifesto” del 26/1/2016.
[3] L’Obs, Parigi, 21 Novembre 2015.