L’improvvisa emergenza epidemiologica, dovuta al Covid-19, ha finito (temo) per infliggere il colpo di grazia agli ultimi baluardi o fermenti di resistenza di qualsiasi forma di sapere autentico, vale a dire di matrice umanistica, nella realtà della scuola, oramai asservita a logiche di segno aziendalistico ed al dominio ostentato della burocrazia e delle tecnologie digitali, in funzione degli interessi più luridi del mercato del lavoro e del profitto capitalistico. Le tecnologie digitali vengono imposte come uno strumento di alienazione e di asservimento del soggetto, e non di emancipazione, come dovrebbe essere, per cui io non mi adeguo ad un modello di sviluppo spacciato in termini di un “progresso”, che è un falso progresso e che in realtà si rivela come una forma strisciante di schiavismo nuovo, camuffato dietro un paravento ipocrita ed elegante di modernità. Ci hanno imposto un’aberrazione, un ossimoro, la DaD, sotto la pressione psicologica di una psicosi collettiva scatenata da una grave pandemia. Il prolungarsi della didattica digitale è stato logorante ed estenuante per tutti: alunni, genitori e docenti. Ebbene, meno male che è finita! Spero che si ritorni in aula, alla scuola in presenza, in quanto è l’unica forma di scuola che, nel bene e nel male, è formativa, è viva e stimolante, è l’habitat naturale di un pensiero critico e di una crescita integrale della personalità umana, in quanto consente agli studenti di socializzare tra loro e con gli insegnanti in maniera emotiva, dialettica, vitale ed empatica. La DaD, nella migliore delle ipotesi, può servire solo a trasmettere qualche arida ed insulsa nozione di tipo didascalico. Questa è la mia più sincera opinione, elaborata alla luce di un’esperienza che ho maturato sul campo. Anzi, sul monitor.
Fonte foto: Corriere TV (da Google)