Non ricorderò il massacro orripilante compito da belve naziste vigliacche perchè tutta la Palestina muoia con l’assenso del democratico Occidente.
Ricorderò i volti, i dialoghi di bambine e bambini di Gaza a significare che il continuo spargimento di sangue degli “eroi sionisti” porta verso la distruzione del sionismo e la rinascita del popolo palestinese.
TEARS OF GAZA
Un documentario datato 2010 che ho voluto rivedere. Allora come oggi devastazione. Case distrutte. Penuria di acqua, di cibo, di medicinali. Embargo, riduzione degli aiuti umanitari. Solo i tunnel garantiscono precariamente che la popolazione riesca a sopravvivere alla barbarie di Israele-Usa.UE.
La triplice del male continua a maramaldeggiare ma è importante sottolineare che non ha vinto. Il sogno di Netanyahu-Trump di espulsione dei palestinesi dalla loro terra non riesce ad andare in porto. E non ci riuscirà neanche il ridicolo e patetico “Accordo del secolo”.
Il documentario è ben girato da Vibeke Løkkeberg, una ottima regista norvegese: volendo parlarci della vita «difficile…difficile davvero» (nota 1) dei gazawi aveva bisogno di una tesi che potesse dare ordine allo scenario terrificante che si presenta allo spettatore. Un centro da cui far nascere il senso di ciò che accade nella Striscia.
Il senso ci viene dai bambini e dalle bambine che continuano a immaginare il riscatto, a proporre progetti. Sono stati tramortiti dalle bombe, dall’invasione dei sionisti nelle loro case (o in quello che è rimasto di esse) e dalla morte dei loro cari; hanno assistito ai funerali oceanici dove più che l’odio per i carnefici regnava un dolore partecipato e commosso per i “martiri”. Il senso che ci arriva da questa infanzia “non vissuta” – e già consapevole del male e dell’odio che grava inesorabilmente sulle loro vite – è quello della irreversibile sconfitta del sionismo e della vittoria non solo morale del popolo palestinese.
Sionismo, che se aveva l’obiettivo di disgregare un popolo, di ridurlo in una massa disperata di individui colmi di odio, privi di affetti e di solidarietà, tutti l’uno contro l’altro, immemori del loro passato e della loro cultura, ebbene ha ottenuto l’effetto opposto: compattare, dare una forza smisurata con la capacità di amare, di resistere, di sopportare e di progettare un futuro.
Si pensi alle immagini di quel funerale, dove un uomo solleva in aria il corpo di un bambino morto e lo mostra alla grande folla per indicarlo come simbolo della sofferenza di tutto un popolo ma anche come strada maestra per la riaffermazione della propria dignità. alzandolo molto in alto per far partecipare intensamente i presenti. In alto, ben in alto perché possa essere ben visto anche dal loro Dio al quale viene consegnato.
Tre bambini, su cui giustamente la regista insiste con primi e primissimi piani (nota 2) per evidenziare, assieme ad un’infanzia “tradita” dal sionismo, una lucida proposta di partecipazione al dolore onnipresente e una decisa volontà non di fuga ma di coinvolgimento alla vita sociale con i progetti di diventare medici per poter assistere i malati anche sul piano chirurgico oppure di diventare avvocati per poter trascinare Israele in tribunale per dare conto delle sue illegalità, della sua ferocia
Altro che venti miglia. La bambina, con la stampelle. volge lo sguardo verso il mare chiuso (concesse tre miglia dalla ciurma sionista). Non sentiamo odio ma la certezza, la volontà di non abbandonare la propria terra, che è sua da sempre, la certezza di una vittoria che è già nel presente e altresì della sconfitta irreversibile del “Golia” israeliano.
NOTE
1) Così si esprime con controllato dolore una bambina
2) la regista ha insistito sui primi e sui primissimi piani soprattutto dopo che i bambini avevano finito di parlare. Credo lo abbia fatto appositamente perché venisse evidenziato lo stato d’animo di questi straordinari interpreti del loro popolo. Sono i momenti più esaltanti e commoventi del film.