Sconfitte e dintorni

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

 

Quando si tratta di scegliere parole d’ordine in grado di irretire o, all’opposto, mobilitare le masse, la destra è sempre stata in vantaggio sulla sinistra, tranne i periodi nei quali quest’ultima è riuscita a produrre un senso comune universalista, in grado di inglobare, sintetizzare e contenere le pulsioni prepolitiche e particolaristiche sulle quali i dominatori sempre puntano per dividere e mantenere divisi i dominati. In altre parole: ovunque; la destra ha di primo acchitto più facilità di farsi ascoltare dalla “gente” rispetto alla sinistra, perché le basta prendere a pretesto le paure del momento e pomparle a piacimento, rivestite della credibilità più o meno a buon mercato prodotta dai suoi pennivendoli, trasformandole, se necessario, nel terrore vero e proprio del Caos che giustifica l’eventuale azzeramento delle tanto decantate libertà, in favore del ripristino dell’Ordine ormai reso concettualmente imprescindibile. Questo meccanismo, quello della destra di parlare alla pancia delle persone, è quindi efficace non solo perché collaudato dalla millenaria esperienza sul campo accumulata dalla classe dominante, ma anche perché rimane sempre uguale a se stesso: espressione elementare dei sensi, compreso quello intellettivo. Su tale base, nel frangente storico che stiamo vivendo, bisogna ammettere che la destra, intesa appunto come classe dominante, ha asservito tutti i maggiori partiti del Vecchio continente, a prescindere dalla loro collocazione formale, compiendo attraverso di essi il vero e proprio capolavoro sia di convincere senza ombra di dubbio decine e decine di milioni di europei che gli stati nazionali non esistono, mentre essi non sono mai stati così forti e soggiogati al Capitale nemmeno quando erano nelle mani dei fascismi, sia perché, attraverso gli stessi partiti, ha convinto le stesse decine e decine di milioni di europei che il recupero della sovranità monetaria e democratica coinciderebbe con l’esasperazione della corrispondente geografia politica e razziale, precipitando quindi il Vecchio continente nella più cupa barbarie, mentre è proprio lo scontro di interessi dei capitali finanziari moderato dalla dittatura monetaria, che sta aprendo inesorabilmente le porte, alla barbarie. Lo stupefacente portato di quest’operazione è che l’anticomunismo e l’antifascismo, quintessenze dello scontro reale fra Capitale e Lavoro, appaiono anacronistici e annichiliscono in uno sfondo artificiale di buon senso dove sono entrambi ostacoli al fluire dell’ineluttabile presente: il meglio che i Padroni stessi possono mettere a disposizione di noi “brutti, sporchi e cattivi”. A questo punto, dopo averlo raccontato più d’una volta in contesti più o meno colloquiali, voglio divulgare il mio battesimo antifascista con l’intento di trarne elementi di riflessione, sia per me sia per chi legge, così da metterci in grado di uscire dall’angolo intellettuale di cui sopra, nel quale siamo prigionieri, e ricominciare a vedere l’orizzonte nella sua interezza. Insomma: raccontare per dimostrare, questo mi prefiggo di fare. L’avvenimento accadde una sera di dicembre del 1973, quando avevo da poco compiuto i 14 anni, mentre tornavo a casa di ritorno dalla sezione del Pci di Monte Mario, a Roma, nella quale ero andato a prendere la tessera della Fgci. I fascisti, il cui Covo del MSI era a meno di duecento metri dalla sezione, spiavano costantemente le mosse di chi entrava ed usciva e, quando m’avviai, m’inseguirono per tutto il tragitto (circa un chilometro e mezzo) scatenando una sassaiola che colpì me, i passanti, le auto in sosta e quelle in transito. Mi salvai dal pestaggio, cavandomela solo con qualche ammaccatura, grazie al vantaggio accumulato inizialmente che mi consentì di riuscire ad aprire appena in tempo il portone del palazzo di casa mia, nonostante la paura mi avesse più volte fatto tremare la mano impedendomi di infilare la chiave nella serratura. Appena richiusolo a spinta con la schiena, il portone, lo sentii crivellato dalle bastonate, mentre in sette o otto mi urlavano rabbiosamente che la volta successiva non me la sarei cavata. La prima cosa che imparava chi faceva politica apertamente, in quegli anni, era proprio questa: di guardarsi sempre bene intorno a meno che non abitasse in quartieri rossi; la prima cosa da fare, in sostanza, era di prendere atto che c’era chi aveva lo scopo politico di impedire che si facesse politica apertamente. La marmaglia fascista era in parte interclassista, c’erano dunque anche i borgatari, ma ferreamente egemonizzata dai figli dell’alta e media borghesia, gente dichiaratamente disposta a mettersi ad ogni costo dalla parte del più forte, per servirlo con il massimo zelo in cambio di una nicchia dove sfogare il proprio represso e quindi marcio senso d’onnipotenza. La vicenda del massacro del Circeo, in cui tre di questi “figli di papà” adescarono una cameriera e una studentessa per poi torturarle fino ad ucciderne una e sprofondare l’altra nella depressione perenne, è emblematica dello stereotipo fascista, violento per la superbia introiettata per educazione fin dall’infanzia, in opposizione a chi è considerato inferiore. La marmaglia in questione organizzava imboscate a singoli o a piccoli gruppi, mai scontri in piazza o faccia a faccia; sempre con un rapporto di tre a uno o più, e sempre armata come minimo di tirapugni e bastoni, ma non poche volte dotata anche di mazzafionde con relative scorte di pietre, per fare male a distanza. Ricordo che nel quartiere Prati imperversava un famigerato gruppo di infami che usciva indisturbato dal Covo del MSI di Via Ottaviano armato di lunghi teli neri, da un lato avvolti attorno ai polsi e innervati nell’opposta parte finale di lamette da barba, fradici d’acqua, per meglio scivolare a mo’ di frusta sulle gambe delle ragazze in minigonna che venivano inquadrate come “zoccole rosse”. Per tutti gli anni ’70 e i primi anni ’80, parallelamente alle stragi e agli attentati, i fascisti non cessarono mai di tenere l’azione politica aperta dei militanti del Pci, e dei gruppi extraparlamentari di sinistra, sotto la costante minaccia dei loro agguati. Il perché lo si capisce al volo: gli industriali e i finanzieri italiani non potevano e non volevano rinunciare ad usare il loro braccio armato, la suddetta manovalanza fascista, perché in trent’anni di vita repubblicana, nonostante le stragi mafiose e quelle fasciste, così come nonostante la repressione di stato delle lotte operaie e contadine, avevano solo in parte arginato l’avanzata elettorale del Pci, che aveva consolidato nel tempo un formidabile partito di massa, in grado di influenzare molto profondamente il senso comune attraverso una propaganda capillare e costante, che partiva dai vertici e si propagava appunto per mezzo di centinaia di migliaia di persone impegnate tutti i giorni nei luoghi di lavoro e nei territori. Era quest’azione diretta, alla luce del sole, che soprattutto allargava costantemente la presa di coscienza fra i lavoratori e i cittadini di essere sfruttati e oppressi, e che il blocco dominante del Capitale non riusciva a frenare nemmeno con l’aggiunta del quasi totale ostracismo radiotelevisivo. Nel contesto attuale, gli intellettuali che si dichiarano comunisti e di sinistra e i gruppi dirigenti e i militanti dei partiti che si dichiarano comunisti e di sinistra, vedono senza ombra di dubbio segnali inequivocabili che quella stagione di violenza si sta riaprendo; anzi, per molti di loro si è già riaperta. Io che l’ho vissuta, quella stagione, in ragione del preambolo di apertura di quest’articolo, non la vedo così, e quel che vedo è peggio. Infatti, oggi in Italia non solo manca una forza di massa che rappresenti il mondo del lavoro in contrapposizione al Capitale, e lo stia guidando di conquista in conquista, com’era al tempo in cui mi tesserai alla Fgci, ma c’è anche una uniforme presenza di partiti che (come accennato in precedenza) o usurpano, letteralmente, i termini “sinistra” e “destra” per coprire la comune subalternità agli industriali e ai banchieri, oppure scimmiottano più o meno inconsapevolmente tempi andati che non sono ancora tornati. In altre parole: siamo già sottomessi, e i padroni non hanno alcun bisogno di sguinzagliare allo scopo i loro cani da guardia fascisti. Dirò di più: per far durare l’inerzia attuale, le loro bestie i padroni cercano di tenerle in giardino, ma quelle scappano perché, educate all’odio e alla prepotenza come sono, scalpitano in continuazione e si mettono all’opera proprio quando non dovrebbero. Tranne il fatto che i primi non vogliono stranieri in casa e i secondi si, le masse popolari assistono a questo pseudo scontro tra fascisti e antifascisti senza distinguere in null’altro sia la finta destra che la finta sinistra, sia i passatisti dell’una e dell’altra sponda che si comportano come se stessero ai tempi in cui mi dovevo guardare intorno mentre camminavo. Quel che le masse popolari fanno, è soffrire la concorrenza di chi viene fatto entrare perché disposto a tutto in cambio di quasi niente, perfino i delinquenti nostrani hanno fatto i conti con la maggiore spietatezza e mancanza di scrupoli dei criminali stranieri, approfittandone per alzarne il livello generale fino a quelli che un tempo erano solo picchi temporanei. Le fortune della finta destra, così come quelle della destra passatista, provengono quindi da questo dato oggettivo che dà forza al messaggio prepolitico razzista, e sono addirittura alimentate dalla sconcertante sgangheratezza di quello antirazzista della finta sinistra e di quella passatista, ridotto nella pratica a mero solidarismo che si confonde in continuazione con l’insopportabile carità pelosa di tanta parte del mondo cattolico. Non c’è analisi marxista alle spalle; non si dice chiaramente che i flussi migratori sono allo stesso tempo creati oggettivamente e anche voluti dai mercati per avere a disposizione gli eserciti industriali di riserva; e non lo si ammette, altrimenti si dovrebbe dire che vanno regolati: non solo per frenare la caduta dei salari, ma anche e soprattutto per ridare ai migranti la possibilità di lottare nelle loro terre per l’emancipazione dei loro popoli, proprio nel quadro dell’internazionalismo di cui si ciancia a piè sospinto. E a proposito dei nomadi, invece, si dice in continuazione che noi europei li dobbiamo finalmente lasciare in pace, dopo secoli di persecuzioni sanguinose; anche qui, nei fatti, non facendo altro che lasciarli liberi di alimentare la criminalità e il degrado dei luoghi da loro scelti senza più nomadare, in una condizione di parassitismo economico che è del tutto inaccettabile per qualunque comunità, figuriamoci se lo dovrebbe essere per chi dice di volere la società socialista. Se ne può uscire, da questo stomachevole e pernicioso circolo vizioso; a patto che i partiti e i movimenti comunisti, antiliberisti ma anche genuinamente riformisti, risolvano una volta per tutte l’equivoco nei confronti del Pd e delle sigle che lo fiancheggiano a livello locale. L’uno e le altre vanno additati alle masse, che vogliamo organizzare, come i referenti del potere industriale e finanziario che li ha soggiogati; e senza alcuna remora, dato che ancora adesso si spacciano per antifascisti nello stesso tempo in cui vogliono stravolgere la Costituzione che dall’antifascismo è nata, ancor più di quanto hanno fatto finora, in direzione opposta agli interessi del lavoro. E’ lo stare vicino ai piddini e i loro epigoni che ci impedisce di vedere in modo chiaro il da farsi; è l’accodamento ai loro ragionamenti che ci disorienta perché ci precipita nella logica morale, nella quale ogni sforzo razionale finisce per affogare nel sentimentalismo d’accatto e la supponenza da loro usati per irretire le masse e tenerle imbambolate, altro che mobilitate! Una mutazione, quella dei piddini in quanto elettori e cittadini, che li pone fuori dalla tradizione comunista che essi stessi hanno ripudiato e strumentalizzato per gli scopi ad essa contrari: “io sono comunista dentro”, ripetono sfacciatamente ancora oggi in tanti di loro, a trent’anni dall’abiura, ribadendo l’infame identificazione fra le loro malefatte e tutto quello che il Pci ha lasciato di buono in eredità ai salariati e al paese, che tanti danni ha fatto e fa alla causa della classe lavoratrice italiana. Ma tale mutazione pone fuori i piddini anche dalla tradizione socialista e perfino riformista, visto che hanno ormai assunto in tutto e per tutto il punto di vista dell’avversario, che li spinge appunto a schifare le masse pretendendo oltretutto di dire ad esse cosa possono, cosa non possono e cosa debbono fare. L’unica via d’uscita è quella di legare di nuovo l’antifascismo alla lotta per il socialismo, altro che storie! Con tanto di analisi strategica, strumenti tattici e partito, uno solo! Da cui far seguire una nuova stagione di vertenze anche minuscole ma inquadrate e portate alla ribalta, nel sociale e in Parlamento una volta ottenuti i voti. Allora si che riconquisteremo credibilità fra gli sfruttati e oppressi; allora si che i richiami al passato avranno ragion d’essere, allora si che la marmaglia fascista sarà sguinzagliata davvero e dovrà sudarsi le infamità che le verranno ordinate per fermarci; allora si che sembrerà nuovamente di stare come negli anni ’70, perché sarà in atto la riscossa del mondo del lavoro.

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Fonte foto: Dissensi Edizioni (da Google)

 

 

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