Per parlare delle comunali di Roma è necessario partire da una premessa di carattere generale. Nell’ormai lontano 1992, durante la sbornia anti-partitica che modellò il consenso alla spoliticizzazione delle istituzioni, la riforma delle elezioni locali – comunali e regionali – funse da modello per la verticalizzazione del sistema politico. Attraverso le competizioni maggioritarie passò la vulgata secondo la quale la sfera pubblica dovesse affidarsi alle tecniche gestionali dell’impresa e ai criteri valutativi del benchmark. Gli enti pubblici dovevano essere assorbiti nelle dinamiche concorrenziali. Così il sindaco o il governatore non si dovevano più rapportare con le assemblee legislative, le giunte non potevano più essere scelte dalle organizzazioni collettive. Il dovere era formare le cosiddette “squadre” (o “team”) costruite a chiamata diretta del capo che affrontavano il giudizio degli investitori privati. I partiti venivano trasformati in comitati elettorali permanenti dove gli aspiranti manager concorrevano per ottenere le grazie del futuro amministratore delegato. Efficienza, razionalizzazione, merito le nuove parole d’ordine dei programmi elettorali. La Governance il simbolo della nuova funzione pubblica.
La spoliazione delle prerogative keynesiane o socialdemocratiche dello Stato fu portata a compimento da un doppio movimento. Il primo verso le strutture sovranazionali che coniavano la nuova Costituzione economica, quel quadro generale e immutabile di norme utili alla irreggimentazione del sistema concorrenziale e mercantilistico. Il secondo verso il basso con la cessione di fondamentali attività pubbliche agli enti locali, dove il boss di turno aveva finalmente mano libera per trattare direttamente con i privati.
A Roma le giunte Rutelli, Veltroni e Alemanno hanno avuto proprio questa funzione. La formazione di cricche destinate all’intermediazione con il mondo dell’impresa per gestire “razionalmente” l’azienda locale. Queste consorterie si sono appoggiate negli anni alle aziende partecipate dal Comune. Così si è formata una fitta rete di contatti, di rapporti, di servizi amichevoli che ha avuto la prontezza di farsi percepire come la manifestazione plastica della “buona amministrazione”.
Ma dopo la giunta Alemanno sono iniziati i cosiddetti incidenti di percorso. Il primo è coinciso con l’elezione di Marino. Lungi dall’essere un critico della razionalità neoliberale, Marino non era legato a piene mani alle filiere dell’amichettismo di potere. Lo si considerava inizialmente un tecnico “governabile” dall’esterno. Nonostante i suoi intendimenti si connotassero per un liberismo becero e irrazionale, le cricche romane iniziarono a storcere il naso, fino ad arrivare alla sua defenestrazione per mano di un notaio.
Il secondo intoppo, ben più grave secondo il giudizio dei faccendieri assoldati dai cartelli elettorali, ha coinciso con il plebiscito popolare che ha portato Virginia Raggi al Campidoglio. Anche in questo caso nessun mutamento d’indirizzo politico. Le dinamiche di gestione restavano intatte. Il sindaco conferisce ai privati lo scettro regale per modellare la città secondo le loro ragioni di profitto. Ma in questo caso i privati non erano affiliati ai prestigiosi think tank dove scorre solo sangue blu, certificato di affidabilità amministrativa. La violenza compatta delle critiche nei suoi confronti ha raggiunto punte di sadismo compulsivo. I giornali, i partiti, l’associazionismo generalmente verniciato dal bon ton di prammatica hanno condotto una campagna di ineffabile virulenza nella quale d’incanto è scomparso il linguaggio tanto per bene del politically correct. Indimenticabili i riferimenti alla lascivia del sindaco, alla sua mediocrità, alla sua inferiorità intellettiva.
Il mandato della Raggi ha dimostrato una semplice equazione. Conquistare il governo non vuol dire conquistare il potere. Nell’era dello spirito d’impresa, della privatizzazione della sfera pubblica, solo la formazione di potenti cricche assicurano la continuità di gestione. Sin dal momento in cui si comprese che la Raggi avrebbe stravinto il ballottaggio del 2016, l’azienda preposta alla raccolta dei rifiuti AMA, con un vero e proprio messaggio in codice, smise improvvisamente di pulire la strade dalla monnezza. L’Atac, l’azienda del trasporto pubblico, dimezzò da un giorno all’altro le sue corse. Oggi appena iniziata la campagna elettorale i rifiuti tornano a gonfiarsi in numerosi quartieri della città. Non ai Parioli o al Centro Storico per intendersi. Anche questo è un avvertimento. Roma deve tornare a essere gestita con competenza. Da chi sa come vanno le cose nel mondo.
Questo sottobosco di potere è assecondato anche dall’estrema sinistra romana. Esiste un composito puzzle di associazioni culturali, di circoletti Arci, di comitati, di centri sociali che vivono grazie alle prebende della buona amministrazione. Tutto quel mondo che spazia dal post-operaismo ai diritti delle minoranze per arrivare ai festival culturali, nel quale si vaneggia di spazi sociali indipendenti dallo Stato, vive e vegeta grazie alle concessioni gratificanti della consorterie manageriali. Piccole imprese tra le imprese. Peccato che tra le imprese di maggior fatturato della capitale, da qualche anno, prospera quella criminale. Ma questo penso non sia un gran segreto.
Mai come quest’anno serve un voto ideologico. In grado di contestare la radice del problema. Slegato dal nome del sindaco di turno, ma che affronti di petto il sistema nella sua interezza e in tutte le sue articolazioni. E che soprattutto impedisca al partito che da trent’anni abbraccia con protervia la piovra romana di tornare al governo della città. Il Partito Democratico.