L’imbarbarimento dei tempi è nel quotidiano, la normalità del male di vivere è parte integrante del capitalismo nella sua fase apicale: le relazioni, anche laddove sono interne alla legalità, spesso sono improntate al solo valore di scambio con l’effetto di essere sostanzialmente delinquenziali. L’integralismo del capitalismo non più contenuto da posizioni politiche ed ideologiche altre “educa” alla vivisezione dell’essere umano. Il tecno-nichilismo del capitalismo annienta la totalità nella percezione e nel concetto. La totalità non è solo concetto, ma essa è prassi filosofica ed ontologica, poiché non separa mai la parte dal tutto, pertanto l’essere umano è percepito e vissuto nella sua totalità concreta, in tal modo nelle relazioni si produce il senso della reciproca dignità, poiché l’altro è totalità viva che con il logos giunge a noi nel suo mistero e nella sua presenza sfuggente ma dotata di senso.
La presenza è ricchezza incommensurabile, poiché le autocoscienze nell’incontro riconoscono la reciproca umanità, mai categorizzabile, e si riconoscono egualmente umane nella diversità mai assoluta. L’uno di Plotino è unità che emana vita, è polo aggregante teso all’espansione della vita, nello stesso modo l’essere umano è unità intenzionale che spontaneamente si muove verso l’alterità. La totalità è concretezza mai conchiusa, essa è un orizzonte la cui linea non è mai chiusa, ma è un tendere senza disgregarsi, poiché le esperienze sono integrate nella totalità viva della coscienza. Il capitalismo ha annientato la metafisica della totalità per sostituirla con l’imbarbarimento della specializzazione e del sezionamento della realtà in parti, in tal maniera domina l’irrazionale, poiché la parte non è ricondotta alla totalità, per cui regna “la sezione”. Realtà e razionalità decadono e si degradano in frammenti privi di senso e vitalità creatrice. Le relazioni segnate dalla percezione della parte sono in sé delinquenziali e violente: il corpo muore ancor prima della sua scomparsa naturale o violenta nella percezione dei soggetti in lotta.
Si accoglie dell’altro la parte da usare e sfruttare: il padrone vede nel lavoratore due braccia, il medico riduce il paziente ad un organo, l’amante non vive la totalità dell’amato/amata, ma si limita ad usarne edonisticamente delle sezioni, in tutti i casi, comunque, l’altro è sempre solo un mezzo per la soddisfazione di scopi privati, il plusvalore si declina in termini di denaro, ma anche di dominio.
L’omicidio di Borno sulla cui ferocia patologica è inutile soffermarsi, andrebbe compreso non in modo astratto ma concreto. La ferocia inaudita non può essere spiegata con semplicismi facendo riferimento al solito maschilismo, ma necessiterebbe di un’ipotesi di lettura più articolata, in cui una intera società dedita alla pornografia-pornocrazia possa rispecchiarsi nella sua verità, o quanto meno chiedersi, se vi sono anche responsabilità sociali nel susseguirsi di atti di simile ferocia inesistenti in natura, pertanto siamo dinanzi a qualcosa di nuovo e terribile.
Il corpo vivo non può nascere nella mente di coloro che sezionano la realtà, in quanto vi è un analfabetismo filosofico ed emotivo, concetto ed emotività non sono separati, ma l’uno feconda l’altro. La normalità con cui si accetta la riduzione dell’altro a cosa con cui giocare è già cultura della morte ed incuria assoluta dell’alterità. Il passaggio dalla morte concettuale dell’altro alla morte fisica non è automatico, ma necessita di circostanze sempre più diffuse che favoriscono la violenza. La liquidità delle relazioni e l’assenza di ogni vincolo etico non possono che indurre verso l’abisso.
La questione che si vuole porre è, dunque, se il nichilismo edonistico e l’atomistica delle solitudini sia il sostrato non riconosciuto di tali immani tragedie. Animalizzare gli esseri umani è possibile inquinando la capacità percettiva, la quale è orientata solo a valutare le parti dell’altro da usare per uno scopo immediato, l’alterità perde il suo “viso”, non ha volto, non vi è reciprocità, ma subentrano solo relazione di dominio, per cui se l’altro non è vissuto, il passo successivo che può facilmente accadere è la violenza nelle sue forme polimorfe. Si gioca come il gatto con il topo fino a distruggerlo, si gioca all’annientamento, in quanto l’altro è niente.
L’omicidio di Bornio, a me pare, ci indica la tragedia in cui siamo e quanto il processo di disumanizzazione sia ampio e radicale. Le risposte a simili eventi non possono essere solo penali, se ci si limita a questo, non potremo che assistere al ripetersi del solito teatrino che mette in scena un rassicurante maschilismo espresso dal maschio-mostro che divora la sua amante. Il problema è più profondo, ci riguarda tutti. Dobbiamo riprenderci la totalità quale dimensione dell’umano capace di condurci non solo al senso del limite, ma ad avere con esso il senso del bene e del male, il rischio, altrimenti è la coazione a ripetersi di tragedie sempre più orride, dinanzi alle quali ci si limita a descrivere in modo pruriginoso la crudeltà, ma senza capirle. La violenza, così, non potrà che perpetuarsi, poiché essa esige di essere contenuta, anche, con la forza etica e metafisica del logos comunitario. L’intercosalità con cui Massimo Bontempelli ha definito la violenza delle relazioni nel nostro tempo a capitalismo integrale ben si adatta a comprendere la violenza inaudita in cui siamo, la quale non è solo un caso legato a circostanze fortuite e terribili, ma ci segnala il vuoto metafisico in cui siamo.
Se non rispondiamo a tale vuoto, sarà l’abisso ad agguantarci e a tirarci giù per sempre, guardare l’abisso e fargli dono di parole di senso è l’unico modo per mettere in atto l’esodo dalla caverna tecnocratica in cui siamo.
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