Non che Marco si attendesse chissà cosa, ma l’impatto con il supposto “paese” lo sconcerta: consta di poche baracche di legno, minuscole e tirate su alla bell’e meglio – una, fortemente inclinata su un lato, sembra sul punto di crollare, quella vicina non ha neppure i vetri alle finestre. Noi lo definiremmo un acampamento de zingani, anche perché non manca – seminascosto nella boscaglia – un camper tutto ammaccato cui sono stati tolti i copertoni.
Al centro dell’ampio spiazzo delimitato dalle capanne arde vivace un bel fuoco; accanto è in funzione una griglia intorno alla quale si affaccenda con perizia un vecchierello: generosi pezzi di carne cuociono sfrigolando e un profumo invitante si spande nell’aria. Dopo tre ore e passa di camminata il nuovo arrivato si sente venire l’acquolina in bocca, ma indugia a farsi avanti e persino a salutare non avendo idea di come sarà accolto da quella bizzarra comunità (altri quattro uomini in là con gli anni siedono all’aperto a un tavolaccio imbandito su cui trovano posto svariate bottiglie di vino).
Il primo ad accorgersi del visitatore è un omone con una criniera di capelli bianchi e la barba arruffata. «Qual buon vento! – esclama in tono gioviale – finalmente qualcuno che passa dalle nostre parti! Accomodati, giovanotto, e beviti un bicchiere insieme a noi… avrai appetito, la grigliata sarà pronta a breve e ce n’è per tutti, Tony ha fatto buona caccia». Chiamato in causa Tony si schermisce: «Tutto merito della selvaggina, ottima e abbondante da quando i cittadini non bazzicano più l’altopiano… Benvenuto comunque ragazzo, chiunque tu sia», aggiunge con un sorriso mite e un po’ spento.
Incoraggiato dall’accoglienza cordiale Marco si siede all’estremità della panca e, senza fare complimenti, vuota l’ottavo di rosso che Dolfo (l’omone) gli porge. «Vino… vero – commenta, leccandosi le labbra – sa proprio di alcol! Io mi chiamo Marco – tende la mano ai presenti, che gliela stringono con energia a uno a uno – e… non so esattamente il motivo per cui sono venuto fin qui, forse potrete spiegarmelo voi. La carne che state cucinando… di che animale è?», si informa.
«C’è del cinghiale e della lepre» risponde Pino, rivoltando sulla graticola una costina ancora mezza cruda. È glabro, calvo e piccolo di statura: un tipo di poche parole, ma dalla faccia simpatica.
«Ma la carne rossa è dannosa per la salute, causa gravi malattie – obietta Marco – cioè, è quello che ci dicono, ma da noi non si trova proprio».
«Balle, solo balle vi raccontano! – interviene il quarto commensale, un tizio alto e segaligno che fa di nome Carlo – Non dico di mangiarla ogni giorno, ma la carne fortifica! A giudicare dal tuo aspetto macilento, ragazzo, tu non devi averne assaggiata molta…»
«Ci siamo! – annuncia Pino trionfante – prendete un piatto a testa e servitevi!» Le stoviglie sono sudice e incrostate, ma il nostro impiegato, di solito schifiltoso, non ci fa troppo caso e addenta con voracità un cosciotto di lepre: superlativo! Il vino scorre a fiumi e Marco, sentendosi a proprio agio, confida agli astanti le vicende successegli negli ultimi giorni. «… e insomma è accaduto questo, e io mi sforzo di capirci qualcosa – soffoca un rutto – L’uomo con la voglia ha detto… sì, insomma… ha scritto di venire qui da voi, ecco, e io l’ho fatto…»
Dolfo scuote il capo: «Povero Tommaso, mi sa che non lo rivedremo! (il giovane annuisce tetro) Aveva la fissa di fare qualcosa di concreto, di… mandare un segnale, abbiamo provato a fargli capire che opporsi al sistema è vano, ma lui niente – si rivolge a Marco – Veniva spesso qui, sai? Discussioni accese e interminabili, eravamo diventati amici… e adesso non c’è più, disperso nell’atmosfera. Pace all’anima sua, se ne aveva una».
Anche gli altri manifestano cordoglio, ma per Marco c’è qualcosa di stonato nelle frasi appena udite: «Se opporsi è inutile… dobbiamo accettare che le cose vadano come vanno e non fare nulla? – la voce gli esce stridula e impastata – Non mi sembra giusto, ecco… o forse sì, non so – incespica sulle parole, confuso – A proposito, chi è quel signore là in fondo che non mi avete presentato? – addita una figura riversa su una sedia, che ridotta a un intrico pelle e ossa di rughe richiama alla mente certe mummie custodite nei musei – deve essere vecchissimo».
«Ha più di cento anni – assicura enfatico Dolfo – Ne ha viste lui di cose! Ormai però non connette più. Quando si desta dal torpore e apre bocca ripete quest’unica frase in una lingua morta: “El comissario gaveva razòn, go sempre dito mi!” Nessuno ha mai capito chi sia questo… commissario, ma pazienza: di sicuro non è più fra noi».
«Non è possibile che abbia cent’anni! – insorge l’ospite con eccessivo fervore – nessun essere umano può vivere fino a quell’età».
L’omaccione non è per niente d’accordo: «Sciocchezze, fole… nel vecchio mondo da cui proveniamo abbondavano i centenari, ragazzo mio. Noi tutti qui abbiamo passato da un pezzo i settanta, da voi invece…» si zittisce, temendo forse che un eccesso di schiettezza possa offendere od avvilire l’interlocutore.
«Sta bene – fa Marco, pensoso – È proprio del vostro vecchio mondo che vorrei mi parlaste: noi in città ne sappiamo così poco, e quel poco sembra… non so come dire…»
«Propaganda – lo imbecca Carlo che poi, di fronte all’espressione interrogativa esibita dal giovane, si spiega meglio – Intendevo che vi propinano un sacco di frottole miste a un po’ di verità. Vi raccontano che allora tutto andava male, che c’erano solo brutture… ma non è così. Certo, era una società ingiusta… ma meno dell’attuale, e poi le case erano spaziose, si mangiava e si beveva a sazietà, non come adesso. C’è stato addirittura un tempo in cui la gente era libera… beh, abbastanza, e partecipava alle decisioni importanti. C’erano anche cose che oggi sono inimmaginabili: le ferie, il matrimonio, il diritto di sciopero, la sanità pubblica… la possibilità di scegliere quale scuola, che facoltà frequentare… lo so, è come se ti stessi parlando in un idioma sconosciuto, ma se vuoi comprendere devi prima imparare, va bene?»
Disorientato com’è Marco si limita ad annuire e non proferisce verbo – Dolfo allora si intromette e sciorina indulgente il proprio sapere: «Alla fine quel sistema è collassato sotto il peso delle sue contraddizioni, che erano tante! L’ansia di accumulare ricchezze ha innescato una crisi epocale, per risolvere la quale sono ricorsi, come sempre, alla scorciatoia della guerra, ma hanno sbagliato i calcoli. Carlo espone una visione… edulcorata del passato, ma se osserviamo la struttura… beh, economica, riscontriamo invece una continuità di fondo, mi segui? (il giovane non fa motto, irretito da quel discorso non meno ostico del lessico adoperato) Oggigiorno come mezzo secolo fa osserviamo lo strapotere di una classe egemone… si fanno chiamare manager, ma sono nient’altro che un’evoluzione della vecchia borghesia capitalista… che si alimenta sfruttando il lavoro di voi proletari: è proprio sullo sfruttamento che il meccanismo si basa! Come funziona? Loro vi pagano quel tot che vi è sufficiente per sopravvivere, riprodurvi eccetera, ma il frutto del vostro lavoro vale di più… e i capitalisti si appropriano quel di più, chiaro? È come se vi versassero mezzo stipendio e si tenessero l’altra metà per loro, è un concetto semplice da afferrare, mio giovane amico!»
L’esuberante oratore va avanti per un pezzo, ma alcuni passaggi suscitano in Marco delle perplessità: cosa possono mai sottrarci i manager se il nostro lavoro è fine a se stesso, cioè non produce niente? Non si può mica rubare quello che non c’è – conclude, ma quello sfoggio di conoscenza lo ha intimidito, e non ha il coraggio di controbattere. Mormora soltanto, quando Dolfo si azzittisce per prendere fiato: «Mi rendo conto di non sapere proprio nulla…»
«Splendida frase! – plaude Carlo, sorridendo lieto – Tu lo ignori, ma a pronunciarla per primo fu, venti secoli fa e passa, una personalità eccelsa, un maestro… si chiamava Socrate, e ci ha insegnato con l’esempio a investigare la realtà senza mai appagarci dell’opinione comune. L’inizio è promettente, ma dovrai… studiare».
«Giustissimo! – approva Dolfo – e noi abbiamo quello che ti serve: libri che abbiamo gelosamente conservato assieme a un’infinità di articoli di riviste dell’epoca, di ritagli di giornale. Dammi una mano, Tony!» Detto fatto: il cacciatore si introduce in una delle catapecchie e subito ne esce reggendo sbuffante un voluminoso baule, il cui contenuto viene travasato in parte nel sacco da viaggio di Marco. «Basta, basta – implora lui – sennò non ce la faccio a tornare… Farò quello che mi chiedete, prometto, vi sono debitore – prosegue, osservando rassegnato la sua soma – ma il mondo di oggi come lo descrivereste?»
«Non vogliamo saperne – taglia corto Carlo, e gli altri confermano – Noi ci siamo chiamati fuori sin dall’inizio, e per fortuna ci lasciano stare. Però… vedi quel caravan? Ci abita un tale, che fa di nome Matteo… e sta sulle sue, non si mischia con noi bassa forza. Si è stabilito qui anni fa, ma prima… era uno che giù contava, uno di loro. Se è di buona voglia, ma lo reputo improbabile, magari ti dirà qualcosa… tentare non costa nulla. Però leggiti tutto il materiale: è di estrema importanza!».
Il contesto assurdo, il caotico sovrapporsi di voci, il troppo vino bevuto gli hanno frastornato il cervello. Sono come appaiono, questi qua? Sono autentici oppure attori che recitano una parte? Il dubbio si è insinuato nella mente di Marco che, dopo aver ringraziato per l’ospitalità, segue però il consiglio datogli e si accosta riluttante al veicolo in disuso. Batte debolmente alla porticina: «C’è qualcuno?»
La risposta si fa attendere, ma quando arriva non invoglia certo a entrare: «Vi avevo avvertito che esigo di non essere molestato!» Il tono è duro, sgarbato, perentorio.
Marco è tentato di tornare sui suoi passi, ma mentre retrocede la porta si spalanca tutto d’un colpo e all’uscio si affaccia un uomo non più giovane, ma asciutto e vigoroso. Squadra freddamente l’importuno da capo a piedi prima di catalogarlo: «Un lavorante di città… non se ne vedono molti da queste parti! Ti sei perduto o cosa?» Il tizio non dissimula il suo disprezzo, ma nella voce si coglie un sottofondo di… commiserazione.
Forte è l’impulso di mandarlo a quel paese (che screanzato!, si sarebbe detto una volta), ma Marco fa uno sforzo per trattenersi: «Mi spiace disturbarla, ma ho saputo (indica la festosa compagnia di vecchioni) che lei è… era un manager… e che forse potrebbe soddisfare qualche mia… ehm curiosità. Giuro che non ci vorrà molto…»
«Lo sono stato – ammette l’uomo, dopo una lunga pausa – ma a un certo punto non ne ho potuto più del sistema, e mi sono… esiliato qua, in mezzo a questi beoni, gente sgradevole ma innocua… e qua resto, senza dar fastidio a nessuno, augurandomi che nessuno ne dia a me… va bene, già che ci sei entra, tanto non ho nulla da fare…» Sembra essersi ammansito: il dispetto si è tramutato in indifferenza.
All’interno del camper regnano sozzura e disordine: il letto è disfatto, sul tavolino è appoggiato un computer portatile in modalità stand by. «Cosa diavolo ti serve sapere?» lo interroga Matteo (che non si è manco presentato).
Marco narra per sommi capi le sue vicende, e infine conclude: «… ecco: dieci giorni fa, di punto in bianco, intorno a me tutto è cambiato, e vorrei capire il motivo… e avere una mezza idea di quel che mi aspetta. Forse lei può aiutarmi, forse no…»
Negli occhi glauchi dell’uomo si accende una scintilla di interesse. «Sì, a volte loro lo fanno… coinvolgono qualcuno di voi, non lo so il perché… ma queste faccende non finiscono mai bene. Mi domando – soggiunge meditabondo – se c’è qualche ragione particolare per cui hanno scelto te e non qualcun altro…»
Il giovane si lascia cadere sfibrato sulla panchetta: la sua ricorrente ansietà, i suoi timori erano dunque tutt’altro che infondati! Una frase echeggia nella sua testa: finirà male… «Non mi viene in mente nulla di nulla… quel signore, Luigi, ha ripetuto due volte che sono una persona intelligente, ma era tanto per dire… non mi sono mai sottoposto a uno di quei test, io».
«Pensi forse che ti avvisino prima o chiedano il tuo permesso? Esistono molti modi per testare l’intelligenza di un individuo senza che lui nemmeno se ne accorga, fidati – digita la password per sbloccare il pc impolverato – Per scovare qualche indizio mi servono però il tuo nome e cogn… cioè il numero di matricola».
Marco fornisce i dati richiesti, ma manifesta incredulità: «Lei sostiene di essere in grado di entrare nei loro database anche se… non è più attivo?»
«Per essere precisi sono perfettamente in grado di accedere alla totalità o quasi delle loro reti, connessione permettendo. Sappi che prima di dare… diciamo… le dimissioni rivestivo l’incarico di responsabile dei servizi informatici di tutto il nordest, e non ho perso la mano» dichiara senz’alcuna iattanza l’ex manager.
«Ma… non scopriranno l’intrusione?» si informa il giovane, apprensivo.
«È senz’altro possibile – ammette l’altro, facendo spallucce – Sono ossessionati dal controllo, che non è però sinonimo di efficienza. Considera poi che molte delle loro vanterie sugli strabilianti progressi tecnologici del dopoguerra sono un bluff: la civiltà della rinascita… come l’hanno battezzata…è ciò che resta di quel che c’era prima, rimesso in sesto alla buona dopo lo schianto. Solo in alcuni settori si sono fatti passi avanti: essendosi rarefatta la forza lavoro si è dovuto giocoforza investire nella robotica… con risultati discutibili. In generale c’è stato un regresso: so di cosa parlo, poiché ho vissuto l’anteguerra. L’unica invenzione rivoluzionaria è quella che… ah, vedo che non lo porti al dito l’anello!»
«Ce l’ho in tasca – il tono assunto è quasi di scusa – serve a sapere dove mi trovo e… come sto, non è così?»
«Supposizione giusta: è molto più di un localizzatore, misura i tuoi battiti cardiaci, permette di monitorare lo stato emotivo delle persone, ma non solo! Modifica, te ne sarai reso conto, la tua percezione della realtà… inoltre ti è indispensabile: se ne sei sprovvisto non ti funzionano le carte di pagamento e neppure gli elettrodomestici di casa… senza contare che scatta un’allerta e vieni subito segnalato. Insomma, un’evoluzione dei vecchi smartphone, una trovata geniale… si sono ispirati, mi risulta, a una filastrocca resa popolarissima da un film che ebbe un successo planetario… come faceva? Ah sì, mi pare: un anello per trovarli, un anello per domarli, un anello per ghermirli e nel buio incatenarli… non so se in quest’ordine, ma il senso mi pare chiaro. Adesso però veniamo a noi…»
L’uomo fa tanto d’occhi, poi emette un fischio d’ammirato stupore. «Complimenti ragazzo, il tuo quoziente intellettivo è pari a 142… sta scritto qua, vedi?»
Marco si accosta allo schermo: «È… normale o c’è qualcosa che non va?»
«Il tuo q.i. è tre punti sopra il mio – osserva con un pizzico di disappunto l’uomo – e conosco dei top manager che a stento arrivano a 120 truccando i risultati, ma la questione è un’altra: tra voi lavoranti il punteggio medio si attesta intorno a 90… ergo tu sei un’assoluta anomalia! Sei molto dotato, anche se ti affibbiano lavori da scemo… poi tutt’a un tratto ti avvicinano. Perché? Per cooptarti? Non mi pare logico: questo test è vecchio di dieci anni, l’avrebbero fatto prima… e poi non è così che vanno le cose. Potrebbero avere in mente una specie di esperimento… parlami del tizio che ti ha contattato».
Il giovane lo descrive, soffermandosi sull’aspetto fisico e la cadenza forestiera: «… mi ha anche confidato, la seconda volta che ci siamo incontrati, che non tutti approvano questo stato di cose, che c’è chi come lui vorrebbe tornare al… progetto originario, così l’ha chiamato. Forse è sincero, che ne dice?»
Matteo scoppia a ridere, ma è una risata agra la sua: «Ascoltami bene, io sono una persona cinica… eppure mi sono chiamato fuori perché certe cose non le sopportavo più. So chi è questo Luigi: uno che, senza meritarlo, era influente già prima della guerra… uno che a forza di espedienti e colpi bassi si è riciclato mille volte, ritagliandosi ruoli sempre nuovi. Un… galleggiatore di professione, insomma, privo di ideali e di scrupoli, meschino, dannoso e infido. Ultimamente non se ne sente parlare: deve aver perso qualche colpo, ma non è tipo da rinunciare a posizione e privilegi. Starà architettando qualcosa: per questo deve averti adocchiato. Guardati da lui e da chi ciancia di un progetto originario che… non è mai esistito».
«Immaginavo qualcosa del genere – assente Marco, tutt’altro che confortato dalle frasi dell’ex direttore – tuttavia io non posso battere i piedi e dire non gioco più, perché… sono una mosca che si è impigliata nella tela del ragno…» Annichilito allarga le braccia, poi le lascia ricadere lungo i fianchi. La discussione potrebbe anche finire qui, ma il giovane ha in serbo ancora un paio di quesiti, che pone con voce flebile: «Perché la guerra non finisce mai?»
Matteo risponde domandandogli a sua volta: «Lo sai cos’erano le guerre dei fiori? – tace, ma non giunge nessuna risposta – Non è colpa tua se non lo sai. Nell’antico Messico, prima che sbarcassero gli europei, la popolazione era numerosa, ma di carne da mangiare ce n’era poca: non avevano manzi, maiali… nessun animale domestico. Come facevano allora? Un certo numero di volte all’anno i sovrani aztechi dichiaravano guerra ai popoli vicini, ma non si trattava di guerre vere: i nemici non venivano uccisi, ma catturati in grande quantità… per essere poi sacrificati agli dei in spettacolari cerimonie. Barbarie e superstizione mi dirai… invece no: cogente necessità. La carne delle vittime era distribuita alla gente affamata affinché se ne nutrisse! Ecco, quella che si combatte da decenni è… una guerra dei fiori, ma molto più sporca di quella messicana. Siamo rimasti in pochi sulla terra, ben sotto il miliardo, ma anche a causa delle bizzarrie del clima agricoltura e allevamento danno pochi frutti. Il numero delle nascite è ovunque stabilito in anticipo, per questo si ricorre alla fecondazione artificiale, ma eccede del dieci-venti per cento quello degli individui cui sarà possibile assicurare un misero pasto. Non è una svista: la mortalità infantile è abbastanza elevata, e dato che le tecniche sono primitive e che l’atmosfera e i suoli sono inquinati molti vengono al mondo storpi, ritardati o affetti da gravi patologie… e devono essere soppressi. Permane a ogni modo un sovrappiù da… smaltire: a questo servono le mattanze di poveracci che chiamano guerra, oltre che allo sviluppo di nuovi armamenti per tenere in soggezione le potenze rivali… beh, più complici che rivali. A finire in prima linea sono sovente gli indocili, assieme ai vecchi quando gli impianti… ehm di eliminazione sono saturi. Lo so che assomiglia a un incubo – l’uomo ha perso la sua flemma, sembra invecchiato all’improvviso di un decennio – ma quest’incubo è reale, purtroppo».
«Presto quindi partirò… volontario – trae le sue meste conclusioni Marco – Ma perché tanta cattiveria? Perché non fanno semplicemente a meno di noi, visto che il nostro lavoro è… un’improduttiva finzione?»
«Abbiamo appurato insieme che sei molto intelligente – fa di rimando l’ex manager con involontaria ironia – perciò la risposta devi trovarla da te. Io non ne ho una… anche se comandare e asservire un essere umano in carne e ossa dà maggiore soddisfazione a chi lo fa che impartire istruzioni a uno stupido automa di metallo, di questo sono sicuro…»
L’orologio al quarzo lo ammonisce che sono le due passate: Marco deve sbrigarsi a partire se non vuole che la notte lo sorprenda nel folto del bosco. In alternativa potrebbe chiedere asilo a quella stramba congrega: glielo accorderebbero? Potrebbe sistemarsi in mezzo a loro… e magari imparare a cacciare per procurarsi cibo decente. Sarebbe certamente arduo abituarsi a quel genere di vita… forse però nessuno in città noterebbe la sua scomparsa… o forse – eventualità meno improbabile – i signori si disinteresserebbero finalmente di lui. Un reietto fra i reietti non dà nell’occhio…
Esita per un po’ prima di risolversi ad andar via: arrivato a questo punto sente crescere in sé il desiderio… o piuttosto l’esigenza… di apprendere le regole del gioco in cui lui funge da pedone, costi quel che costi. Qualche mossa può già prevederla, anche se non prevenirla: “Luigi” si rifarà vivo, e stavolta sarà obbligato a scoprirsi, a svelare qualche dettaglio dei suoi piani. Saluta i vecchi che stanno ancora sbevazzando: «Ci rivedremo fra sette giorni», garantisce con sicurezza insincera.
Ululando il vento lo sospinge avanti, anche se il carico di libri gli incurva le spalle. È ben presto divorato dalla sete, ma si ferma soltanto un istante per bagnare la lingua asciutta con un grumo di neve: scollina in anticipo sulle pessimistiche previsioni, poi scende a precipizio il versante. Devo essere più veloce del sole, pensa Marco, e affretta il passo in salita. La schiena e le gambe iniziano a dolergli, ma l’età, un minimo di esercizio e la determinazione lo sorreggono: l’ascesa non è traumatica, anche se deve sostare due volte per allacciarsi le scarpe.
Il sentiero discende, fra non molto incontrerà il piano: il giovane percepisce un movimento furtivo sullo sfondo chiaro, è senz’altro la volpe di prima. Non ho più niente da darti… ma poi, sei un’amica o uno spione? Non credo che sia decisivo saperlo: so invece che di finire schiacciato da un carro armato non ho nessuna voglia. Si arrovella sulla frase di congedo pronunciata dal signor Matteo: diffida di tutti, ma senza diventarmi paranoico. Ignora cosa significhi il termine “paranoico”… in generale sono troppe le cose che ignoro, confessa sconfortato.
Sta scendendo la sera e Marco attiva la torcia: sciabolate di luce illuminano la traccia serpeggiante di sentiero. Ci sono quasi, si fa forza lui, anche se il cammino sembra interminabile e lo zaino gli indolenzisce i muscoli.
La selva infine si dirada e appaiono, sotto un cielo color indaco, i lumi della città-ghetto: il giovane impiegato si abbatte al suolo, sfinito. Non ha per niente fame, ma è tormentato dall’arsura: dovrò fare tappa al supermarket, ammesso che sia ancora aperto. Per fortuna lo è: lui fa traballando il suo ingresso, e punta con sorpresa gli occhi in quelli di Francesca… è rispuntata!
La ragazza gli porge una bottiglietta di limonata, indi bisbiglia: «Aspettami fuori, fra pochi minuti finisce il mio turno. Devo dirti una cosa… se ti va di ascoltarmi».
Nonostante la spossatezza e il freddo a lui va, e si pianta come un palo fuori dalla porta. Una volta uscita lei lo prende disinvoltamente sottobraccio e attacca a narrargli la sua storia: «… insomma, mi ha preso per sé, come se fossi… un oggetto in vendita sugli scaffali. Non condannarmi se ti dico che all’inizio ne ero… sì, lieta, perché non mi ha mai maltrattata e mi faceva bei regali. È giusto tu sappia che… – si imporpora, incapace di proseguire – ma poi subentravano vergogna e sensi di colpa, ho pianto per notti intere… adesso è cambiato, non mi tocca più. Deve essere caduto in disgrazia, qualcosa del genere, oppure sta male. È come assente quando stiamo assieme, mi parla del passato… e del suo lavoro di capo della sicurezza, che non lo soddisfa. Si sfoga e io sto lì ad ascoltarlo, provando… sì, compassione, perché in fondo è un essere umano anche lui. A te ci tengo, non so dirti il perché… ma ora non mi vorrai più, e non soltanto perché è proibito…»
Marco, stravolto com’è, replica a monosillabi, ma quasi inconsapevolmente la conduce verso casa sua. È bellissima, con quegli occhi lustri e le gote arrossate, e il giovane – commosso – non si stanca di rimirarla. «Io sarei arrivato, abito qui…» Non si azzarda a proporle di salire da lui, ma Francesca lo segue muta nell’atrio e su per le scale.
Si distendono una addosso all’altro nel lettuccio a una piazza: un bacio più impacciato che focoso, una tenue carezza ai capelli dorati di lei, poi entrambi sprofondano in un sonno sereno, senza incubi.
(fine sesta parte)