Ciò che suscita meraviglia nella copertina del settimanale L’Espresso nella quale viene indicato come ultimo intellettuale il fumettista Zerocalcare non è da ricercare nel riconoscimento dello status di intellettuale a un autore leggero. Il termine in questione può essere utilizzato con innumerevoli sfaccettature e muta significato a seconda del contesto nel quale viene inserito. Non si ravvisa quindi alcun peccato di blasfemia. Al contrario lo stupore emerge quando viene definito come “l’ultimo intellettuale”. Qui l’Espresso sembra manifestare le proprie reali intenzioni. Nel momento in cui utilizza questa parola assegna all’autore un compito ingrato perché lo inserisce in un contesto di alta cultura. La definizione di ultimo assume un significato storico. Ultimo in quanto obbedisce a una funzione sociale di arricchimento del dibattito culturale, letterario, filosofico. Automaticamente il pubblico è costretto a stabilire un ordine di grandezza che permette di accostare Zerocalcare ai grandi intellettuali del passato, capaci di interpretare a loro modo interi periodi storici o che si sono interrogati sulla complessità della vita umana o della società. Con il termine “ultimo” non si vuole contestualizzare l’autore in un ordine temporale. Non è l’ultimo tra i tanti. E’ l’ultimo che abbiamo.
L’impressione però è che L’Espresso abbia voluto compiere un’operazione ideologica ancor più aggressiva. Se si prende in esame l’intera frase “Zerocalcare, l’ultimo intellettuale” si ha la sensazione che ci si stia riferendo al fatto che oggi la nostra società si può permettere di sopportare solo questa forma di cultura. Quindi Zerocalcare diventa l’ultimo intellettuale in senso assoluto. Questa è l’unica forma culturale dotata di senso.
Ma a ben vedere in un periodo storico in cui la tecnica si assume il compito di classificare ogni verità e ordina la società attraverso apriorismi indiscutibili non occorre più interrogarsi né sui misteri della condizione umana né sui rapporti di dominio e di sfruttamento presenti nella vita sociale. Tutto è già svelato. Non si riconosce dignità alla complessità. Così l’intellettuale deve svolgere una sola operazione. Educare le masse all’intrattenimento leggero. Tutto ciò che ha bisogno di approfondimento appare desueto. Distoglie dalla produzione e allontana dallo sballo. Il tempo che si deve dedicare ai ragionamenti deve inserirsi nei tempi morti. Certo gli inviti al consumo di cultura sono incessanti. Ma appunto tutto fa cultura. Tutto fa brodo. Così è determinante leggere ma non cosa si legge. Un romanzo di Chiara Gamberale ha la stessa dignità di uno scritto di Céline. Allo stesso modo Paolo Mieli si potrà improvvisare storico e Aldo Cazzullo un dantista. Ascoltare Beethoven rientra nel medesimo esercizio di distrazione che provoca il consumo musicale di un Tiziano Ferro.
Il marketing impone il proprio linguaggio che deve sottostare alle regole dell’efficacia e dell’immediatezza. Il tempo sul quale soffermarsi è solo il presente. E il presente non ama le grandi narrazioni. Così come non ama troppi sforzi che siano intellettuali o politici. Le energie vanno conservate solo per la performance. Conseguenze della Fine della Storia e di quel relativismo culturale prodotto da certi pensatori, quelli che accolsero con entusiasmo la forza liberatrice della società dei mercati.