Ha suscitato un certo clamore in Europa e nel mondo del lavoro in Germania, il nuovo accordo definito sulla settimana lavorativa tra la IG Metall (sindacato dei lavoratori metallurgici, metalmeccanici) e la Gesamtmetall, una delle principali organizzazioni padronali tedesche, che dovrebbe prevedere una presunta riduzione della settimana lavorativa a 28 ore con aumento di stipendio del 4,3%.
Il celebre matematico e filosofo tedesco G.W. Leibniz sosteneva che spesso delle cose che non si conoscono si ha un’opinione migliore, al fine di controbilanciare il più diffuso giudizio per cui delle cose che non si conoscono ci facciamo un’opinione peggiore (per poi magari scoprire che invece c’era molto di buono, portandoci ad apprezzare quello che ci sembrava inizialmente ostile).
Dunque Leibniz è il punto di partenza. Ad una lettura molto superficiale questo potrebbe sembrare un ottimo accordo, e che in Germania i lavoratori riceveranno per grazia divina questo aumento di stipendio e riduzione dell’orario di lavoro.
Qualche malaccorto potrebbe addirittura pensare che stiano applicando il famoso motto socialista “lavorare tutti, lavorare meno”, ma niente affatto, naturalmente non è così. Eppure la domanda dovrebbe venire spontanea: può questo realmente accadere nella Germania di Angela Merkel e Jens Weidmann? Nella Germania dello stritolamento economico e finanziario dei Paesi mediterranei e dell’Est Europa? Nella Germania che, con i suoi alleati olandesi e con il contributo della Francia, ha demolito la Grecia alla faccia della decantata solidarietà europea?
Le cose stanno molto diversamente e sono parecchio peggiori di quanto si pensi. Non solo non è stata discussa una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, ma addirittura il paragone con la battaglia per le 35 ore è del tutto inesistente.
Innanzi tutto è di dovere l’approfondimento per capire cosa realmente prevede l’intesa: nella regioni del Baden-Wurttenberg a 900.000 lavoratori è stato riconosciuto un aumento in busta paga del 4,3% e il diritto ad accorciare la settimana lavorativa a 28 ore “per un periodo massimo di due anni”; settimana accorciata che potrà anche essere chiesta più di una volta durante la carriera ma (e qui già spunta fuori la magagna) “le aziende potranno aumentare la quota di dipendenti a cui si potrà allungare la settimana di lavoro a 40 ore”. Questo significa che la riduzione dell’orario “comporterà una riduzione del salario”, ma nel caso si debba accudire figli fino a 14 anni, assistere i congiunti, oppure sostenere orari troppo pesanti, allora è fissata l’integrazione salariale.
Si prevede che una modalità simile possa applicarsi in futuro anche ad altri 3,6 milioni di lavoratori.
Quale sia la vera natura di questo accordo è deducibile apertamente dalla dichiarazione rivelatrice di Rainer Dulger, il Presidente della confindustria Gesamtmetall, il quale ha entusiasticamente affermato che “è la pietra angolare della flessibilità del 21° secolo”. Le cose stanno proprio così: è stato onesto a differenza di altri. Questo accordo servirà a rendere più flessibile il mercato del lavoro. Queste parole vengono dallo stesso soggetto che riteneva la proposta della IG Metall “un gioco con il fuoco che potrebbe innescare un processo incontrollabile”. Lo stesso identico entusiasmo per tale accordo è stato espresso anche da Stefan Wolf, Presidente della Sudwestmetall.
Le motivazioni del sindacato IG Metall e la loro proposta (che inizialmente prevedeva un aumento del 6% dello stipendio) non avevano come obiettivo una reale riduzione generale dell’orario, ma piuttosto avevano come nodo centrale un argomento tanto caro agli imprenditori: la flessibilità. Riportiamo qui alcune dichiarazioni d’attacco da parte della IG Metall: “la flessibilità degli orari di lavoro non può continuare ad essere unilaterale con tutto il peso sulle spalle dei lavoratori, ma deve servire anche a loro”. La motivazione per le richieste sono “l’eccellente situazione economica del settore e di irrobustire la domanda interna e contribuire alla stabilizzazione della congiuntura”.
E’ evidente che siamo davanti ad un sindacato che ha tenuto un comportamento di tipo collaborazionista: essi hanno praticamente rivendicato per i lavoratori una posizione di maggior rilievo nella gestione del reddito globale del capitalismo e di maggior partecipazione alla spartizione dei benefici del momento, affinchè essi partecipino alle lotte della concorrenza imperialistica con gli altri Paesi dell’UE e fuori dall’UE.
Bisogna aggiungere che un ruolo determinante alla buona conclusione della trattativa è stato giocato dal leggero calo demografico. In Germania è evidente che le concessioni ai lavoratori salariati sono viste come un male minore rispetto alla mancanza di operai qualificati che si manifesterà a partire dai prossimi anni, e dunque le aziende dovranno mettere qualcosa sul piatto se vogliono tenerseli stretti dalla loro parte.
La Germania è il Paese dove storicamente è più frequente la “corruzione” della classe lavoratrice da parte della grande borghesia, che prova ad indirizzarla verso obiettivi di spartizione dei profitti per quanto bassa sia la quota a loro destinata rispetto ai profitti mostruosi dovuti all’accumulazione capitalistica delle grandi multinazionali, ma sufficientemente alta da concedere loro vantaggi cospicui (parecchio cospicui rispetto, ad esempio, ad un lavoratore medio africano, asiatico o sudamericano), portandoli a desistere da reali lotte di cambiamento che pure qualche volta sono sorte. La tendenza ad un’alleanza tra capitale e lavoro e con una maggiore ripartizione interna del reddito globale capitalistico non può che rafforzare sul piano politico l’accordo tra le due classi contrapposte.
A tal proposito non c’è niente di nuovo sotto il Cielo: dal 1948 la Germania Federale è il paese in Europa con il minor numero di ore di sciopero, e anche quando grandi scioperi sono stati organizzati di solito non sono stati momenti di vera e propria lotta di classe, quanto piuttosto rivendicazioni che si collocano sempre nel quadro delle condizioni economiche specifiche date dalla posizione del Paese nel contesto internazionale.
L’importanza che questa vertenza aveva assunto è ben riassunta persino da Mario Draghi, che ha appoggiato la realizzazione dell’accordo auspicando l’applicazione di questo tipo di flessibilità anche al resto dell’Europa, come nuovo modello di riferimento da seguire per gli altri Paesi dell’Unione. Nei mesi passati, sulla vertenza lo stesso Draghi disse: “Se IG Metall riuscirà ad imporsi potrebbe essere un indice di correzione di uno dei più gravi errori di politica economica degli ultimi decenni: la moderazione salariale”.
Questo passaggio è un chiaro e autentico segnale della volontà di mettere in atto la ristrutturazione capitalistica dei Paesi dell’Unione e dell’intero progetto (imperialistico) dell’Unione Europea, entrato profondamente in crisi.
Questo accordo tra lavoratori e i gruppi dominanti capitalistici, così come anche quello delle formazioni delle Grosse Coalizioni (CDU+SPD), rientra nello schema del nuovo corso liberale che ha caratterizzato la storia della Germania a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Esso, come molto spesso accaduto, è il frutto di un’intesa e di una ricercata alleanza interclassista tra gli operai e la grande borghesia finalizzata a rinsaldare la comunanza di intenti nella strategia imperialistica di lungo termine per l’Europa.
L’unico interesse da perseguire continuerà a essere quello imperiale del dominio tedesco sull’Europa, da sostenersi mediante l’alleanza interclassista tra capitale e forza-lavoro, la Ostpolitik, un maggiore grado di sfruttamento dei Paesi mediterranei.
L’alleanza interclassista tra capitale e forza-lavoro è quello stesso cavallo di troia che da anni si sta tentando di rafforzare in modo ancora più deciso anche in Italia, similmente a quanto accaduto durante l’esperienza del ventennio fascista, e con maggiori accelerazioni rispetto al passato sia da parte di sindacati compromessi e di organismi come la Confindustria e quella parte del mondo politico (PD, Forza Italia e i vertici dello stesso M5S) che hanno tessuto intrecci con settori finanziari e imprenditoriali capitalistici e i cosiddetti investitori italiani ed esteri. Partiti come la Lega (ex Nord) avranno come dovere prioritario quello di dare risposte al mondo imprenditoriale settentrionale (che hanno al loro fianco una fetta rilevantissima di proletariato imborghesito, aizzato sui temi del razzismo e del nazionalismo) e la tutela dei privilegi della piccola e media borghesia del Nord Italia in difficoltà per la crisi economica e che costituisce la loro principale base di sostegno politico e materiale.
Per la Lega, fare l’interesse nazionale non sarà nient’altro che sbilanciare ulteriormente la ricchezza al Nord piuttosto che al Sud, e dunque far gravare ulteriormente una parte del Paese sull’altra mediante uno sfruttamento di tipo semi-coloniale (del Sud). Il legame nascosto con la Germania è sottile ma al tempo stesso più evidente di quanto non sembri; a dispetto delle ingannevoli chiacchiere dei loro esponenti, essi propongono la stessa visione della politica sindacale e della gestione di classe tedesca con vigore persino maggiore di quanto abbiano già fatto finora le altre forze politiche.
L’accordo lavorativo in Germania sulla cosiddetta “settimana corta”, ha pertanto come primo effetto immediato un ulteriore spostamento a destra del baricentro dell’assetto politico europeo, indebolendo le potenzialità rivoluzionare del conflitto di classe, inasprendo i rapporti tra le classi lavoratrici dei Paesi in difficoltà (tra i quali l’Italia) e quelli del Nord. In altre parole, grazie a strategie di questo tipo, si raggiunge l’obiettivo di depotenziare e disinnescare il conflitto sociale nei Paesi appartenenti all’Unione Europea. Le sistematiche campagne mediatiche all’insegna dell’ ideologia razzista, del cretinismo economico, dell’ europeismo e dell’ eurocentrismo, fanno il resto.
Il lavoratore medio tedesco continuerà ad essere in contrapposizione al lavoratore medio greco. Continuerà a non esistere una vera solidarietà di classe internazionale e soprattutto rimarrà debole la costruzione di un’alleanza tra i lavoratori europei da Nord a Sud.
Questa situazione generale verrà ulteriormente rinsaldata, sia grazie al fatto che la Germania ha ritrovato una stabilità politica interna sia grazie alla politica di nuova pacificazione salariale, facilmente agevolata dalla costante crescita dei profitti di provenienza neo-coloniale delle multinazionali tedesche disseminate in America latina, Africa, e Asia e naturalmente fondate sullo sfruttamento intensivo dei lavoratori autoctoni e dei giacimenti naturali di questi continenti (analogamente a quanto fanno tutti gli altri del blocco imperialista occidentale).
Concludiamo aggiungendo che la Germania nel 2017 ha raggiunto il record assoluto del mastodontico surplus commerciale maturato in questi ultimi anni. Da 16 anni la Germania produce un saldo delle partite correnti positivo (quindi esporta più di quanto importa) ma è da otto anni consecutivi che lo fa “violando rigorosamente quelle regole europee che ha imposto agli altri Paesi ma che non rispetta per sè”. Per inciso: queste sarebbero regole che prevedono che non si possa generare un saldo positivo superiore al 6% del Pil nella media di tre anni.

Foto: Corriere della Sera (da Google)