Circa mezzo secolo fa, Guy Debord formulava la sua celebre descrizione lapidaria della società dello spettacolo: lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. Incontrovertibile. E in quegli anni l’immagine esplodeva letteralmente nel nostro immaginario, colonizzandolo.
Oggi l’immagine, pur presente in modalità pervasiva e invasiva nella nostra vita, non dice più l’ultima parola sullo spettacolo e sulla nostra società. Semplicemente perché all’immagine manca la parola.
Oggi il capitalismo, che ha accumulato merci e denari all’inverosimile, ha come suo obiettivo ultimo il moralismo. Attraverso il sistema culturale cosiddetto “progressista” – fatto percepire come rivoluzionario e anti sistema – la nuova egemonia culturale plasma la morale ormai da qualche decennio. Impone nuovi criteri “morali”, opposti a quelli del passato.
Egualitarismo farsesco (in realtà i ricchi sono tali sempre di più), relativismo assoluto, individualismo basato sull’autopercezione emotiva e sessuale, natalità vista come contraria alla libertà, allarmismo climatico ecc.
Tale nuova narrazione del mondo fa sì che non sia il mercato a determinare le scelte e le leggi, bensì un dogma soffocante di correttezza politica, cultura della cancellazione, apoteosi snaturata della vittima che, solo in quanto autoproclamatasi facente parte di gruppo vittimizzato, assurge a ruoli di potere estremo.
I grandi network promuovono un’agenda morale gonfia di ipocrisia: un prodotto non si acquista più perché è il migliore, ma per il fatto che con esso ci poniamo dalla parte del bene. C’è il sapore di rieducazione da gulag, di totalitarismo orwelliano. Il progressismo nostrano, cioè occidentale – nato nelle officine post Sessantotto e presto adottato dal capitalismo spettacolare descritto da Debord – incarna la guerra del Bene contro il Male, reinventando la moralità, attraverso una manipolazione autoritaristica e autoreferenziale delle parole.
La neve ormai è nera, senza contraddittorio. A nulla valgono i racconti dei nostri padri che in gennaio stavano accanto al fuoco mentre fuori cresceva una coltre bianca, e neppure le foto, le immagini, di quando noi stessi andavamo a sciare. La neve è nera, senza dubbio, perché lo dice anche quella brava e onesta persona che è il nostro vicino di casa, che come lavoro guida lo spazzaneve (ma guarda disperatamente a ciclo continuo la televisione).