Mi fa molto piacere che il mio amico Alessandro Visalli – che è stato, voglio sottolinearlo, uno dei recensori e presentatori del mio libro “Contromano”, un vero e proprio atto di coraggio da parte sua in considerazione dei temi da me affrontati (persone intelligenti e colte, tutto sommato, ce ne sono tante, ma di coraggiose se ne contano sulle dita, forse, di due mani…) – abbia prontamente e rapidamente (una rapidità dettata da ragioni politiche…) replicato al mio articolo https://www.linterferenza.info/editoriali/patria-costituzione-luci-ombre/ sul manifesto di Patria e Costituzione presentato sabato scorso a Roma. Di seguito il suo articolo: https://tempofertile.blogspot.com/2019/03/circa-fabrizio-marchi-patria-e.html
Mi fa molto piacere innanzitutto perché lo considero uno degli intellettuali più colti e lucidi che orbitano oggi nella sinistra (e che, a mio parere, dovrebbe avere più spazio e visibilità di quanta non ne abbia, specie nella sua area politica) e poi perché questi nostri scambi (non è certo il primo…) confermano come ci si possa confrontare dialetticamente in assoluta serenità pur avendo posizioni diverse su quegli stessi temi sui quali altri si scannano, si scomunicano e si insultano vicendevolmente. Ed è per questo, infatti, che a sinistra ci sono decine di (micro) partiti(ni), appartenenti alle due aree che ormai si sono con il tempo definite, cioè quella “antagonista” e quella “sovranista” (non prendo neanche in considerazione, ovviamente, il PD, “renziano” o “zingarettiano” che sia, e i cespugli neoliberali alla sua “sinistra”), ciascuno dei quali convinto di essere il depositario della “giusta e corretta linea” alla quale tutti gli altri dovrebbero adeguarsi.
Fatta questa premessa, entro nel merito della critica alla mia critica, procedendo per punti.
Quando affronto il tema dell’immigrazione vengo spesso tacciato di “idealismo” (non in senso filosofico ma, fra virgolette, “volgare”), cioè di essere una cosiddetta “anima bella”, oppure uno “che aspetta Godot”, come si suol dire, cioè la futura, prossima o remota, Rivoluzione Socialista Mondiale che traghetterà l’umanità verso le sorti magnifiche e progressive del Comunismo. Ultimamente c’è stato anche più d’uno (che mi conosce poco, è evidente) che ha detto che io farei del “solidarismo cristiano” (lo ha appena fatto anche Alessandro, sostenendo che la mia sarebbe una posizione “religiosa”, la qual cosa mi fa anche un po’ sorridere…). Cominciamo comunque col dire che – se anche così fosse – non sarebbe di certo una colpa, anzi. Preferisco di gran lunga un autentico e sincero cristiano – dati soprattutto i tempi – ad un sostenitore del capitalismo (in specie nella sua attuale versione neoliberista, sia essa di destra o estrema destra o di “sinistra”), o ad un fan del cosiddetto “pensiero debole” che null’altro è se non l’attuale variante postmoderna dell’ideologia capitalista. Del resto, il rapporto con i cristiani (e in Italia, ovviamente, con i cattolici) ha rappresentato da sempre una questione centrale per la Sinistra (quella seria) e soprattutto per i comunisti (quelli seri). E allora, quale migliore banco di prova per provare a riallacciare un rapporto con quel mondo, se non il tema dell’immigrazione, approcciandolo, ovviamente, da un punto di vista di classe e marxista? A meno di non pensare che meriti attenzione solo quel popolo (nel senso di ceti subalterni, perché una buonissima parte dell’elettorato leghista è composto da una media e medio-alta borghesia del centro-nord) che vota per la Lega; comunque, come dicevo poc’anzi, una minoranza, seppur significativa, perché rammento, peraltro, che la stragrande maggioranza di coloro che hanno votato per il M5S non lo hanno fatto per ostilità o competizione nei confronti degli immigrati ma per tutt’altre ragioni. E’ bene, dunque, cominciare anche a ridimensionare la portata della questione, senza naturalmente sottovalutarla, ma senza neanche attribuirgli quell’enfasi che la variante reazionaria e di destra del sistema capitalista gli attribuisce (e con essa, è seccante dirlo, anche i sovranisti di sinistra”).
Alessandro dice che non è quello il suo problema, e ci credo, perché lo conosco. Ma non credo affatto che non sia il problema di tanti altri amici e compagni che orbitano nella sua stessa area che invece (anche se non lo ammettono apertamente, forse per un malcelato pudore…), fortemente animati dalla volontà di dare vita nei tempi più brevi possibili, ad un nuovo soggetto politico (cioè un partito), ritengono che la riconquista di una gran parte dell’elettorato passi attraverso l’assunzione di una posizione che ponga la questione della “regolazione dei flussi migratori” al primo posto dell’agenda politica. Alessandro la pone in concomitanza con tanto altro, che ha spiegato nel suo articolo (sul quale dirò fra breve e sul quale concordo in larga parte), ma anche in questo caso credo che sia fondamentalmente la sua posizione, ma non quella di tanti altri suoi compagni (interpretazione personale, naturalmente). Ed è proprio il porre questa questione al primissimo posto della loro agenda politica – anche se, come già detto, non in modo esplicito (per non perdere consensi e non rompere del tutto a sinistra e anche con quel mondo cattolico di cui sopra) – che rende tale posizione viziata da un tatticismo politico e in prospettiva elettoralistico (anche con una certa vena trasformistica…) che la rendono strumentale e ideologicamente subalterna alla variante di destra del sistema capitalistico. E’ banale e superfluo ricordarlo ma la tattica non va mai anteposta alla strategia (e all’analisi della realtà).
Dicevo, appunto, che il sottoscritto viene spesso tacciato di “idealismo”. Se così fosse, la posizione di Alessandro sarebbe quella non di un idealista ma di un “super idealista” (ma in realtà non lo è affatto, come non lo è la mia…). Alessandro, infatti (che è infinitamente più ferrato in economia del sottoscritto la cui competenza in materia si limita al “canonico” e propedeutico – ma utilissimo – esame di Economia Politica presso le facoltà di Scienze Politiche), ci spiega (sarà, eventualmente, lui stesso a correggermi se ho male interpretato) come l’immigrazione sia un effetto o uno degli effetti dei “rapporti di produzione capitalistici” (cioè della famosa struttura) e quindi dell’organizzazione e della divisione capitalistica del lavoro su scala planetaria. Cito testualmente:” Allora quale è la ‘verità’? L’immigrazione, come l’emigrazione, è un effetto di un meccanismo autorafforzante che si alimenta per logica immanente, e non per costrizione esterna. E’ la centralità, nel modo di produzione capitalista imperniato sull’accumulazione flessibile[1][1], di rapporti ineguali di dominazione governati internamente dalla logica ferrea della concorrenza[2][2] che attraversano interamente tutto il sistema internazionale, che aspira costantemente verso il ‘centro’ dalle ‘periferie’ forza-lavoro[3][3] debole e ricattabile”.
Nulla da dire. Sono d’accordissimo, anzi, sottoscrivo. Non c’è alcun dubbio infatti che il colonialismo e il neo-colonialismo (e naturalmente l’imperialismo) siano “epifenomeni” di quella struttura, cioè di quei rapporti di produzione capitalistici che, fra i vari effetti, producono anche l’immigrazione. Pensavo, per la verità, che fosse sottinteso. Forse ho peccato di presunzione nel mio articolo, nel senso proprio del termine (cioè del presumere…), cioè ho dato per scontata questa “scansione”, diciamo così, in termini logici e dialettici (in senso marxiano, intendo) del processo. Non era certo mia intenzione capovolgere la questione. E’ evidente che non è il colonialismo (cioè la “costrizione esterna”, come l’ha definita Visalli) a creare il fenomeno dell’immigrazione ma il sistema capitalista (dato da lui stesso per “immanente”, per lo meno allo stato attuale, e ha purtroppo ragione), di cui il colonialismo, con tutte le sue “nervature” economiche e politiche in loco, in stretta interconnessione con le varie “madrepatrie” (si fa per dire, cioè con gli stati capitalisti e imperialisti dominanti) è un prodotto. E’ il capitalismo che crea le sue contraddizioni (strutturali), fra cui il colonialismo (e, naturalmente, l’imperialismo) e ovviamente anche l’immigrazione, che null’altro è se non il famoso esercito industriale di riserva che ieri, come ho già spiegato nel mio precedente articolo, era composto da lavoratori autoctoni e oggi è composto in buona parte (ma non del tutto, ovviamente…) da lavoratori stranieri. Le ragioni di ciò sono evidenti e non ci sarebbe neanche bisogno di spiegarle. Il mondo in questi ultimi 150 anni ha conosciuto un processo di trasformazione tecnica e tecnologica incredibile, direi tumultuosa, basti pensare che un secolo e mezzo fa per andare da un capo all’altro del mondo era necessario un viaggio di mesi con il rischio concreto di non giungere a destinazione per le ragioni più disparate (morte per malattia, naufragio, aggressioni ecc.) mentre ora ci vogliono poche ore di aereo (per la verità anche oggi moltissimi immigrati crepano nel modo indegno che sappiamo, e il Mediterraneo è ormai una sorta di cimitero galleggiante, ma questo è un altro discorso ancora…).
Ora, se volessi seguire il discorso di Alessandro (cosa che faccio volentieri) non potrei che ribadire che la sua posizione è sicuramente molto più “idealista” della mia. Perché se veramente volessimo risolvere le ragioni strutturali che determinano l’esistenza dell’esercito industriale di riserva (e quindi dell’immigrazione e dell’emigrazione), dovremmo porci innanzitutto il problema concreto del superamento del capitalismo. A meno di pensare che in regime capitalistico – anche ammesso che una coalizione democratica e socialista andasse al governo di un paese – possa essere possibile la realizzazione di una politica economica che abbia il suo asse centrale nel welfare, nell’impresa pubblica e nel massiccio intervento dello stato nell’economia, al punto tale da eliminare l’esercito industriale di riserva. Cosa del tutto impossibile, che non si è mai data, neanche nei momenti più “alti” di applicazione delle politiche keynesiane o socialdemocratiche. Pensiamo – è l’esempio più banale e a portata di mano che mi viene alla mente – al famoso New Deal roosveltiano che certamente è andato in quella direzione, a patto però di non dimenticare che fu la seconda guerra mondiale (in quella fase storica) a costituire il vero volano della espansione economica (e imperialista) americana.
E’ possibile, certamente, limitare quell’esercito industriale di riserva (solo in regime socialista può darsi piena occupazione) – e quindi alleggerire la pressione sui lavoratori occupati – con le politiche sociali ed economiche di cui sopra, nella stessa misura in cui è possibile limitarlo (come spiegavo nel mio articolo) attraverso il cambiamento radicale delle politiche internazionali, cioè chiudendo con le politiche neocolonialiste e con la costruzione di rapporti di cooperazione ed equo scambio con quei paesi che, obtorto collo, “esportano” (si fa per dire…) manodopera (si tratta in realtà di espulsi come ho spiegato in questo articolo: https://www.linterferenza.info/editoriali/migranti-o-espulsi/ ) a basso e a bassissimo costo. Le due cose NON possono essere separate né MAI io l’ho sostenuto; certo, ogni articolo che si scrive non può essere un’enciclopedia dove si affronta ogni aspetto (altrimenti non se ne uscirebbe più…) e non si può partire dalle origini e dalle cause prime ogniqualvolta si affronta un tema. Ho dato la cosa, forse sbagliando, per scontata…
Dove divergiamo Alessandro ed io? Naturalmente sulla risposta immediata da dare al fenomeno dell’immigrazione, sul “qui ed ora”. Lui scrive:” Per questo l’indiscriminata accoglienza, se resta sostanzialmente affidata alle sole capacità di socializzazione del mercato, in particolare nelle condizioni odierne di grande e diffusa sofferenza, si tramuta immediatamente in un fattore di aggravamento, in particolare nelle nostre tante periferie e nelle aree di abbandono. Il mercato attrarrà infatti flussi secondo il proprio principio, che è la massimizzazione del rendimento e quindi dello sfruttamento, garantendo tra l’altro la costante compressione della quota di ricchezza sociale che resta al lavoro (e determina domanda aggregata), a vantaggio di quella che viene appropriata dalla capacità di comando del capitale”. E ancora:” Ma non si può fare una cosa mentre non si fa l’altra, il rafforzamento delle capacità dei lavoratori, fornendo beni e garantendo potere, la cessazione della sostituzione guidata dal mercato, e l’interruzione delle politiche di saccheggio, vanno fatte insieme o non potranno avere alcun effetto”.
Anche in questo caso, nulla da dire. Non ho mai pensato di affidarmi alle “capacità di socializzazione del mercato” (di cui sono fiero avversario…). Al contrario. Il problema, in questo caso, è proprio quello della scansione temporale. Come ho già spiegato nel mio articolo, un ipotetico governo democratico e socialista degno di questo nome, non può porre al vertice della sua agenda politica il contenimento dell’immigrazione, se non DOPO (che non significa un’era geologica…) aver attuato quelle politiche sociali e quelle politiche internazionali (che comunque, come ho già scritto, non potranno mai eliminare completamente il fenomeno migratorio ma contenerlo entro limiti accettabili e governabili, e questo sarebbe già un risultato…) di cui sopra che lo legittimerebbero, anche sul piano etico (ma non è ora questo il punto), a porre anche la questione della regolazione dei flussi, anche per far cessare o quanto meno limitare quella “sostituzione (di manodopera, cioè di lavoratori) guidata dal mercato”.
Ma nelle attuali condizioni (che non mi sembrano proprio quelle da noi auspicate…), porre la questione del “contenimento” – come di fatto fanno (più nelle chiacchierate nei corridoi che pubblicamente) gli amici e i compagni della “sinistra sovranista”, significa di fatto attuare misure e provvedimenti repressivi e violenti (e quindi reazionari, perché attuati nei confronti di soggetti che dovrebbero essere invece oggetto di protezione e soprattutto di solidarietà di classe e internazionalista da parte di una forza Socialista né più e né meno dei ceti subalterni autoctoni) nei confronti dei soggetti più deboli dello sfruttamento capitalistico (e forse è proprio per questo che ne parlano nelle chiacchierate informali piuttosto che pubblicamente). Ed è questo che li espone alla critica di subalternità alla destra.
Mi si risponde, spesso, che organizzare politicamente delle persone che provengono da altre culture e contesti e animate dal desiderio (umano e legittimo) di integrarsi e magari anche di affermarsi socialmente, sarebbe difficilissimo se non impossibile. E’ vero e nessuno lo nega, ma solo in parte, perché sappiamo perfettamente che proprio nei luoghi di lavoro, dove cioè si creano delle condizioni oggettive di relazione e di condivisione fra le persone, i lavoratori immigrati sono spesso i più combattivi e sindacalizzati. Valeva ieri (pensiamo alle grandi fabbriche del nord) e vale per l’oggi dove, ad esempio nella logistica, i lavoratori immigrati sono in prima fila nelle lotte e nelle rivendicazioni sindacali. Forse che oggi è più facile ricostruire una rinnovata coscienza politica e di classe nelle masse popolari autoctone, da tempo ideologicamente e psicologicamente spappolate da un sistema ideologico-mediatico altamente pervasivo? Personalmente, credo che la difficoltà sia esattamente la stessa. A meno di non pensare che l’adesione alla “variante populista” da parte di tanta gente significhi automaticamente l’acquisizione di una coscienza di classe. Può essere vero (per lo più a livello inconscio), e lo è, in parte, ma può anche essere – come a mio parere è, anche in questo caso in parte – l’adesione (sia pure inconsapevole o a metà fra il consapevole e l’inconsapevole) ad una risposta reazionaria (e, ovviamente, niente affatto anti liberista) alla crisi del modello neoliberista tuttora dominante. Ciò significa che bisogna mollare l’osso? Ma neanche per sogno. Bisogna anzi “rompersi la testa”, metaforicamente parlando, che non significa affatto suicidarsi o assumere atteggiamenti stoici o “religiosi” bensì semplicemente avere la consapevolezza che ci sono stati momenti e fasi storiche assai più difficili per i comunisti e per i socialisti, dal momento che oggi, per lo meno in questo angolo di mondo, per tutta una serie di ragioni, non rischiamo o non rischiamo ancora nessuna conseguenza drammatica sulle nostre vite e sui nostri corpi che non siano l’emarginazione, l’ostracismo, la scomunica, l’isolamento e l’esposizione al pubblico ludibrio; tutte cose sopportabili e superabili per chi sia animato da quel gramsciano ottimismo della volontà senza del quale non si va da nessuna parte, né sarebbe possibile dare vita ad alcunchè, tanto meno ad un soggetto politico. E non mi si venga a dire che questo è un atteggiamento “religioso”, perché è soltanto la consapevolezza di stare al mondo con le proprie idee e portarle avanti con convinzione, come del resto fa in primis anche Alessandro Visalli. E meno male che lo fa.
Fonte foto: Famiglia Cristiana (da Google)