Il presente è il risultato di un lungo tradimento dell’ideologia comunista, se il partito comunista ha fallito ed è mutato “geneticamente” al punto che la sinistra è indistinguibile dal peggior liberismo, una delle cause profonde è nell’abbandono sin dall’inizio della storia del comunismo reale della missione emancipativa e libertaria del partito comunista. György Lukács è stato tra gli interpreti del pensiero di Marx e del comunismo che ha messo in evidenza il valore pedagogico “non contrattabile” dell’agire comunista e del partito. L’umanesimo marxiano non può essere ridotto a formule e leggi positivistiche, esse hanno un senso solo all’interno di una rivoluzione collettiva delle coscienze. La rivoluzione è l’effetto della relazione che si instaura tra le circostanze storiche e la coscienza dei singoli, senza la mediazione delle coscienze ogni rivoluzione è impossibile, ogni possibilità storica non può che arenarsi su se stessa e disperdersi. La rivoluzione è nella concretezza dell’universale: i singoli decodificano il loro tempo mediante paradigmi culturali ed ideologici critici e collettivi sostenuti da un forte senso etico che si coniuga con la tattica politica. La rivoluzione e la partecipazione non possono essere ridotte, come avviene nella contemporaneità, ad un click digitale che offre la percezione della partecipazione, ma in realtà è solo propaganda ed immagine, poiché la partecipazione non può che avvenire all’interno di incontri reali e nella condivisione di ideali. La coscienza si forma nello spirito critico che autodisciplina i singoli per rafforzare la comunità dei rivoluzionari. I saggi presenti nel testo di György Lukács “Cultura e rivoluzione” scritti tra il 1919 e il 1921 associano alla rivoluzione il valore della cultura, il binomio è inscindibile, ogni rivoluzionario autentico deve essere formato culturalmente, in modo che l’esperienza rivoluzionaria diventi vita e prassi. Se l’adesione alla rivoluzione è semplice atto meccanico dipendente dalle circostanze materiali al cambiare delle stesse non potrà che seguire l’abbandono dell’ideale rivoluzionario. Il partito non può essere semplice apparato amministrativo, ma deve avere in primis la chiarezza del suo fine educativo, deve conquistare alla causa l’umanità con la forza delle convinzioni dei suoi aderenti, pertanto i comunisti devono essere consapevoli che dalla loro prassi dipenderà il futuro del comunismo, non vi è legge scientifica e della storia che possa assicurare il futuro del partito:
“Il partito perciò dopo essere stato l’educatore del proletariato alla rivoluzione, deve diventare l’educatore dell’umanità all’umanità e all’autodisciplina. Ma esso può adempiere a questa missione solo se sin dall’inizio ha compiuto quest’opera di educazione nei suoi aderenti[1]”.
Partito e regno della libertà
Il partito dev’essere esperienza di libertà dialettica, deve conquistare con la forza etica della differenza dagli altri partiti. Dev’essere l’incarnazione prima del regno della libertà, non vi è libertà senza durezza ed autodisciplina, il comunista deve lavorare su se stesso per essere credibile dinanzi alle titubanze degli incerti. La libertà è autodisciplina, è un percorso di emancipazione e consapevolezza nel quale essere liberi significa difendere le singole identità nel vincolo ideologico di autotrascendimento dell’egoismo individuale. Il sacrificio personale non dev’essere inteso come una mutilazione della propria personalità, ma come dono spontaneo alla comunità, perché solo in essa ciascuno ritrova il suo senso. Ogni identità può esprimersi e conoscersi solo nella relazione senza la quale non è possibile discernere l’essenziale dal desiderio contingente ed indotto. Senza tale progetto educativo il partito comunista non può che confondersi con gli altri partiti, i quali sono espressione di interessi personali e di classe. Il partito comunista con la sua missione paideutica è capace di conquistare nuovi aderenti al di là della condizione sociale di appartenenza, in quanto il suo modello si radica nel proletariato, ma il messaggio è rivolto a tutti:
“È necessario che il partito comunista costituisca la prima incarnazione del regno della libertà; nel partito deve regnare innanzitutto lo spirito di fratellanza, la vera solidarietà, la volontà e lo spirito di sacrificio. Se il partito comunista non fosse in grado di realizzare ciò o per lo meno non intraprendesse dei veri sforzi in questa direzione, si differenzierebbe dagli altri partiti unicamente per il suo programma[1]”.
Libertà ed autodisciplina
Essere comunisti significa condividere gli strumenti d’analisi della storia, affinarli nella pratica. Il partito non deve costruire nuove forme di divisione basate sulla cultura, non potrebbe, in tal caso, che riprodurre nuove forme di dominio e sottomissione. György Lukács all’inizio dell’esperienza comunista aveva già intravisto i pericoli di un partito chiuso in se stesso nel quale si riproducevano le medesime logiche settarie e di potere del capitalismo. L’autodisciplina da lui invocata e vissuta doveva evitare tali dinamiche che avrebbero sterilizzato la vocazione libertaria del pensiero di Marx. L’autodisciplina è liberazione dalle “scorie” del capitalismo:
“Quanto più i comunisti (e con loro e tramite il loro il partito) si saranno purificati dalle scorie della vita di partito capitalistico-socialdemocratico, dalla burocrazia, dagli intrighi, dall’arrivismo, ecc., quanto più la loro militanza diventerà vero cameratismo e comunanza spirituale, tanto più la loro militanza diventerà vero cameratismo e comunanza spirituale. Tanto più essi saranno in grado di adempiere alla loro missione: raccogliere le forze rivoluzionarie, infondere fiducia negli incerti, risvegliare la coscienza di coloro che ancora non l’hanno, respingere e annientare le canaglie e gli opportunisti. Il periodo rivoluzionario che abbiamo di fronte, ricco di dure e lunghe lotte, ci offre innumerevoli possibilità per realizzare quest’autoeducazione[2]”.
Rileggere György Lukács è oggi necessario, in quanto la nicchia dei resistenti è spesso interna al linguaggio del capitale: narcisismo e carrierismo logorano l’azione dei resistenti, la dipendenza mediatica favorisce forme di vuota resistenza e veicola il messaggio che in realtà si è tutti omologati all’incultura dell’apparire. I narcisismi impediscono la formazione di comunità coese e progettanti senza le quali ogni prassi è solo flatus vocis. Il modo di produzione capitalistico non ha nulla da temere da coloro che criticano il capitalismo, ma ne riproducono i comportamenti, anzi sono i migliori alleati del capitale, perché testimoniano l’impossibilità di un’alternativa. Senza l’esodo dalle scorie del capitale non vi è alternativa, ma solo la tragedia del tempo presente senza uscita. Narcisismi, facili compromessi ed edonismo sono stati i mezzi più efficaci con cui il capitale ha infettato la prospettiva comunista. György Lukács può sembrare un idealista fuori del tempo, in realtà è stato non solo un grande interprete di Marx, ma ha denunciato con postura pedagogica, senza moralismo, i pericoli delle scorie del capitale. Il primo nemico da combattere è la lingua del capitale che avvelena le menti ed induce ogni essere umano ad autopercepirsi come un’azienda i cui obiettivi devono sempre prevedere un utile personale di cui bearsi nel mercato delle apparenze. György Lukács è, dunque, attualissimo, poiché la grande vittoria del capitale e del liberismo è nella sua capacità di assimilare ogni resistente, ogni rivoluzione deve implicare la capacità di vedere con gli occhi della mente “il nemico interiore” che logora la prassi e la teoria. La tragedia del tempo presente è l’assenza di luoghi ni quali operare l’autodiscernimento di sé, ciò malgrado nessun essere umano è riducibile alle sole condizioni materiali, pertanto ogni “singolo inizio”, se disponibile a condividere “la parola” può comportare effetti non prevedibili. Si deve rinunciare a ricercare esempi vissuti per avere il coraggio di trasformare se stessi in una parola di carne: il verbo si deve fare carne.
[1] György Lukács, Cultura e rivoluzione, Newton Compton Editori Roma 1975, pag 110
[2] Ibidem pag. 111
[3] Ibidem pp. 111 112