Non molto tempo fa mi è capitato di parlare con un uomo, un gay, a proposito dei Gay Pride.
Gli dicevo che mi auguro che l’omosessualità diventi quanto prima un fatto talmente normale (nel senso di essere pienamente accettata come un fatto naturale né più e né meno dell’eterosessualità) da non avere più necessità di continuare con quelle che per me sono delle “carnevalate” gratuite, decisamente forzate nelle loro modalità espressive fino a diventare stucchevoli, sgradevoli, anche e soprattutto dal punto di vista estetico (mi riferisco, appunto, ai Gay Pride). Ma la forma è sostanza, aggiungo io, e non credo ci sia bisogno di sfilare seminudi sculettando con un perizoma infilato tra le natiche e le piume di uccello in testa per rivendicare il proprio diritto a vivere pienamente e liberamente la propria sessualità.
Alle sue obiezioni – sostanzialmente che c’è ancora necessità di questo genere di provocazioni (che a mio parere ottengono invece l’effetto contrario) – rispondevo che avrei provato e proverei lo stesso identico senso di fastidio se vedessi dei cortei dell’ “orgoglio maschile eterosessuale” con dei maschi muscolosi, “palestrati” che sfilano col petto villoso scoperto, il “pacco” in risalto e bene in vista con pantaloni attillati e pose da machos (atteggiamenti che, peraltro, assumono anche molti gay). Pagliacciate i primi e pagliacciate i secondi (se ci fossero e fortunatamente non ci sono), per come la vedo io.
Al che lui mi ha risposto che la mia è una sorta di celebrazione della sobrietà come valore in sè.
Gli ho risposto che sì, in effetti è vero, considero la sobrietà un valore. Infatti, avere idee radicali non comporta il fatto di conciarsi in modo pagliaccesco. Si può essere dei rivoluzionari e vestirsi con giacca e cravatta, oppure vestirsi semplicemente come a ciascuno aggrada, senza seguire dei clichè; al contrario, credo che più si seguano dei clichè e meno si è dei rivoluzionari.
Si confonde la critica, anche radicale, all’esistente, con una sorta di estremismo estetico e comportamentale. A distanza di più 50 anni dal ’68 c’è ancora gente che crede che essere rivoluzionari o comunque critici nei confronti del sistema significhi riempirsi di orecchini, borchie e piercing dappertutto, acconciarsi i capelli in questo o quel modo, strafarsi di canne e/o altro, e girare perennemente con una lattina di birra in mano.
In un determinato contesto storico e culturale ancora dominati da un’etica e da un’estetica vetero borghese e bacchettona, assumere determinati atteggiamenti estetici e comportamentali, poteva avere un senso. Oggi, in un contesto completamente mutato da questo punto di vista, è semplicemente farsesco.
Marx, Lukacs, Gramsci (ma anche Pasolini, a suo modo) e tanti altri erano dei rivoluzionari ma, certamente, non avevano necessità di conciarsi in questo o in quel modo per portare avanti le loro idee di radicale trasformazione radicale della realtà.
Lo stesso discorso vale anche e soprattutto per il modo di esprimersi e comunicare. Tempo fa decisi di uscire da un gruppo di discussione su FB dichiaratamente ispirato ad una formazione politica di estrema sinistra degli anni ’70 perché era di fatto impossibile portare avanti un dibattito degno di questo nome (sia chiaro, succede in tantissimi altri gruppi…) senza essere insultati o presi metaforicamente a colpi di sampietrino (i sampietrini sono quelli utilizzati a Roma per lastricare le strade e venivano disselciati durante gli scontri di piazza per tirarli contro la polizia). E infatti ho ironicamente soprannominato i membri di quel gruppo (non tutti, ovviamente, ce ne sono anche di ragionevoli) “sampietrinari”. Perché il loro atteggiamento e il loro modo di porsi non è cambiato in nulla da 40 anni a questa parte.
Ottusità? Sì, certo, in parte senz’altro. Ma anche una forma mentis. Anche questi credono che avere idee radicali o addirittura rivoluzionarie significhi fare a gara a chi urla e insulta di più, insomma a chi tira metaforicamente più sampietrini.
In questo modo di essere e di porsi c’è fondamentalmente una grande componente di infantilismo, che è tipico, come infatti spiegava un “tale”, dell’estremismo. Lo si può comprendere (e giustificare) quando si ha vent’anni ma non quando se ne hanno cinquanta o sessanta.