Domenica scorsa, rientrando a Trieste in auto, ho ascoltato un’intervista concessa da Antonio Scurati a RAI Radio3 in diretta dal Salone del Libro di Torino.
Non sono un grande fan dell’autore di “M”, ma devo dire che stavolta le sue parole mi sono piaciute e mi hanno fatto riflettere: vi si coglieva una genuina angoscia e un’onestà intellettuale che, di questi tempi, è merce rara in Italia e in Occidente. Dopo aver rievocato le atrocità commesse in Iraq dalla NATO (Italia compresa) nel 1991 e poi nel 2003 ed essersi soffermato sull’inganno propagandistico che “legittimò” il secondo attacco a un Paese ormai inoffensivo, lo scrittore – e questa è stata la parte più interessante del denso intervento – ha ricordato gli stretti rapporti intercorsi fra guerra e letteratura europea fin dall’alba dei tempi, per poi concludere che nell’immaginario occidentale il conflitto tende a presentarsi come un duello (fra campioni), mentre le mischie sanguinose restano sullo sfondo, invisibili o quasi. Tale visione distorta, edulcorata e in definitiva eroica della guerra ce la renderebbe tollerabile, conferendo addirittura alle imprese belliche un sinistro fascino – questa, se ho ben compreso, la tesi di Scurati, certo più ampiamente sviluppata in un saggio che ho intenzione di comperare.
Il conflitto come canto corale da cui emergono, nei momenti topici, le voci potenti e inconfondibili dei protagonisti. Che questo elemento di personificazione dei popoli in lotta sia presente nell’epica è innegabile: lo ritroviamo nell’Iliade omerica, che culmina nella “singolar tenzone” fra l’acheo Achille e il troiano Ettore e fornisce un modello seguito dalla produzione successiva.
In verità anche prima e in altri contesti culturali (Egitto, Mesopotamia ecc.) la figura e le gesta del sovrano-eroe monopolizzavano la narrazione, ma poca attenzione veniva riservata al nemico e ai suoi capi, che invariabilmente comparivano come supplici o prigionieri. Il greco Omero è (forse) il primo cantore ad assegnare un ruolo centrale all’antagonista che, benché destinato alla sconfitta e alla morte cruenta, merita grazie alla sua magnanimità l’ammirazione e finanche l’affetto del pubblico “di casa”: non per caso il poema troiano si conclude con la celebrazione dei solenni funerali del principe caduto nella polvere. Non minore rispetto dimostra Virgilio nei confronti di Turno, e più in generale osserviamo nei cronisti greci e romani lo sforzo di comprendere le ragioni dell’avversario e, in taluni casi, persino la tendenza a nobilitarlo. Erodoto non dileggia affatto Serse, decantandone la pur effimera potenza, e Tacito fa pronunciare al condottiero britanno Calgaco la più appassionata, vibrante e sincera condanna dell’imperialismo romano: “dove fanno il deserto lo chiamano pace”. Vercingetorige e Decebalo sono ovunque descritti come comandanti pieni di risorse, e persino a temuti (e odiati) arcinemici come Mitridate e soprattutto Annibale gli storici riconoscono qualità fuori dall’ordinario. Certo, il Barcide è oggetto di una campagna denigratoria incentrata sulla sua (presunta) perfidia plus quam punica e – buffo, ma vero! – viene evocato in veste di babau per spaventare i bimbi capricciosi, ma i successi militari del cartaginese non sono affatto sminuiti e nessun annalista si sarebbe mai sognato di dargli del “pazzo” o del “criminale assassino”.
Insomma, lo schema propostoci da Scurati sembra reggere: in antico la guerra viene effettivamente rappresentata come un “duello” fra due (o più) grandi personalità che si fronteggiano, trascinando con sé moltitudini senza nome. Il fatto che i romani si reputino investiti di una missione civilizzatrice (riassunta nel celebre verso parcere subiectis debellare superbos) non comporta l’esclusione del nemico – ancorché spesso “barbaro” – dal consesso umano: al contrario, la sua non infrequente esaltazione serve ad accrescere la gloria del vincitore.
Con l’avvento del cristianesimo muta il punto di vista, sebbene il messaggio originario sia di pace. Aggravando le accuse di Tacito e Svetonio gli scrittori cristiani demonizzano letteralmente Nerone, scorgendo in lui addirittura l’Anticristo; un odio feroce si riverserà in seguito sull’imperatore Giuliano, marchiato per l’eternità come “apostata”, mentre la scienziata e filosofa alessandrina Ipazia sarà orrendamente fatta a pezzi dai parabalani sotto lo sguardo compiaciuto del potente vescovo Cirillo (poi santificato, perlomeno in terra). Sconosciuto al mondo greco-romano, il fanatismo dei primi credenti genera una sorda intolleranza verso qualsiasi oppositore, che essendo asservito al “maligno” viene trattato di conseguenza. La disumanizzazione di uno dei contendenti contraddice la logica del duello, basata sul riconoscimento reciproco di uno status e, per l’effetto, su regole accettate da ambo le parti: eretici e infedeli vanno semplicemente annientati, chi li guida deve incontrare una morte infamante per essere poi consegnato all’oblio. Dante, uomo del medioevo, onora il conterraneo Farinata perché ne condivide in fondo i valori, mentre schernisce l’alieno Maometto, collocato fra i seminatori di discordie, e lo equipara all’eretico Dolcino, sovvertitore dell’ordine costituito.
Ettore e Decebalo non hanno alcuna colpa, se non quella di stare “dall’altra parte”; eresiarchi e maomettani ne hanno invece di imperdonabili, e non possono perciò aspettarsi misericordia, ma solo la giusta punizione – magari divina – per i crimini commessi, una punizione che va estesa a chiunque sia sospettato di sostenerli o non li combatta attivamente: “Dio si prenderà i suoi”, commenta il legato papale quando le milizie cattoliche, sopraffatte le difese catare, entrano a Tolosa e iniziano a menare strage della popolazione.
Tengo a precisare che questo cambio di registro attiene al modo in cui la guerra viene raccontata, non alla sua conduzione: la strage di civili ordinata (o permessa) da Cesare ad Avarico non è meno biasimevole di quella perpetrata dai crociati dopo la caduta di Gerusalemme nel 1099, anche se la reazione esultante della comunità cristiana alla “santa mattanza” (Deus vult!) non ha precedenti nel mondo antico – si consideri che Catone propose persino di incriminare il proconsole per quelli che oggi chiameremmo crimini di guerra.
La riscoperta al principio dell’età moderna del patrimonio letterario e filosofico classico riporta in auge la disfida cavalleresca e la figura dell’eroe nemico “meritevole della vittoria” per quanto destinato a perdere scontro e vita. Ariosto, Tasso e altri sulla loro scia restituiscono l’onore e l’umanità all’avversario, e paiono a volte parteggiare per lui nonostante stia “oggettivamente” dalla parte del torto: questa eredità sarà raccolta nell’Ottocento da romanzieri come Walter Scott, che non esita a presentarci il “feroce” Saladino in una luce positiva.
La stagione neoclassica e quella del romanticismo hanno breve durata: sembrano un colpo di coda del più remoto passato in una società che, sotto la spinta dell’industrializzazione, evolve rapidamente. Bulimico per natura, il Capitale non concepisce né tollera lo stato di quiete: sua condizione d’esistenza è un vorticoso moto perpetuo, che nasconde l’assenza di valore intrinseco del “bene” denaro.
Alla libertà formalmente concessa – per la prima volta nella Storia – a tutti gli individui, posti su un piano di uguaglianza astratta, fa concreto riscontro l’asservimento di un proletariato senza risorse proprie alla classe imprenditoriale, che assume il controllo della società scalzando o alleandosi con la vecchia élite nobiliare. La nuova parola d’ordine è concorrenza, cioè competizione, sia fra imprese che fra Stati sovrani: in quest’ottica la guerra va intesa come un’opportunità – giacché consente di impadronirsi di mercati, braccia e materie prime altrui, nonché di mettere in ginocchio le potenze rivali – che talvolta assurge a necessità, quando tocca superare le crisi che ciclicamente si ripresentano. Assistiamo a un ulteriore imbarbarimento dei conflitti, dovuto non soltanto allo sviluppo di armi sempre più micidiali: per convincere milioni di poveracci a combattere e morire a vantaggio di chi sta in alto si forgiano i miti della nazione e della superiorità razziale. Intendiamoci, non si tratta di meri escamotage: il mercato è una giungla “legalizzata” in cui ciascun produttore lotta per sopravvivere e affermarsi a spese altrui, non lesinando colpi bassi – mors tua vita mea. Inoltre il liberismo, al pari del cristianesimo fattosi Chiesa, è un’ideologia totalitaria, che non sopporta opposizioni sostanziali, dissensi e deviazionismi: per i perdenti (siano essi poveri, falliti, popolazioni arretrate o paesi invasi) non c’è remissione. I lumi si spengono e l’ipocrisia risposa il fanatismo: il rivale torna a essere nemico, paria, monstrum, reprobo da punire. Odio razziale e nazionalismi sfrenati insanguinano l’Europa come mai prima: le azioni inaudite e terribili del regime hitleriano richiedono la punizione di un popolo intero a opera degli Alleati, che radono al suolo città bimillenarie e poi processano e condannano a morte o alla prigione gli sconfitti – in nome della Giustizia e del Bene. Da una parte la luce, dall’altra la barbarie da estinguere: con le loro odiose condotte i nazisti si prestano alla semplificazione, ma l’etichetta di “Male assoluto” sarà appiccicata addosso, nei decenni successivi, a chiunque ostacoli i piani egemonici dell’Occidente virtuoso, “libero e democratico”, faro e depositario della civiltà. Con il trascorrere del tempo il tasso di intolleranza aumenta anziché diminuire: qualsiasi leader avversario viene ormai descritto come un “nuovo Hitler”, un pazzo criminale da togliere di mezzo a ogni costo. L’esecrabile Saddam viene impiccato, Gheddafi va incontro a un’orribile e oltraggiosa fine, il generale Soleimani è ucciso a tradimento da un drone USA – e i “buoni” esultano, perché il nemico spossessato di nome e identità è una canaglia su cui è lecito infierire. Il fiele mediatico insozza popolazioni intere: se Vladimir Putin è Sauron, i suoi soldati e perfino i connazionali sono orchi da colpire, vessare e ostracizzare – anche quando l’unica “arma” che impugnano è un violino.
Prendiamo doveroso atto di questo stato di cose, senza chiederci oziosamente dove stia la supremazia morale vantata dall’Occidente nei confronti degli antagonisti: risiede e si esaurisce nello strapotere militare degli Stati Uniti d’America, un Paese dove l’industria delle armi incentiva periodiche stragi di innocenti commesse da ragazzini disadattati, l’assistenza sanitaria è prerogativa dei ricchi e larghi strati della popolazione vivono nell’abbrutimento e nella miseria nutrendosi di cheeseburger e propaganda – un Paese che, nel dopoguerra, ha fatto dell’organizzazione di golpe e rivoluzioni-arlecchino e dell’aggressione armata a Stati sovrani “scomodi” altrettante regole di condotta. D’altro canto, ci piaccia o meno, gli USA sono i padroni dell’Italia e dell’Europa, e l’ossequioso zelo con cui la nostra classe politica esegue i loro ordini lo certifica.
In sintesi: la metafora del duello non è più attuale e va nuovamente sostituita con quella del “giusto” castigo. Certo, se questo è il Bene allora da un pezzo Lucifero ha espugnato il Paradiso…