Preambolo
Quando nel 1876 si formò nell’Italia post-unitaria il governo della sinistra risorgimentale, sotto la guida di Agostino Depretis, in sostituzione della destra, che aveva retto fino a quel momento le sorti del Paese, nacque la piaga del trasformismo parlamentare che è ancora oggi pesantemente praticato. Il trasformismo fu possibile poiché il leader della destra storica, Marco Minghetti, ne condivideva l’esercizio. Si fondava sulla presa d’atto che definirsi di destra o di sinistra non aveva più molto senso e che pertanto l’azione di governo doveva prescindere dagli schieramenti, ma basarsi sulle necessarie scelte da fare. Occorre rammentare che il diritto di voto era esercitato tramite il censo e riservato solo agli uomini. Si dovette attendere il Governo di Giovanni Giolitti per avere il suffragio elettorale universale che tuttavia escludeva ancora le donne.
Con il suffragio universale si formarono i grandi partiti di massa, il Partito socialista, il Partito popolare e più tardi, utilizzando diffusamente e violentemente lo squadrismo, il Partito fascista, mentre i diversi circoli liberali, monarchici o repubblicani, moderati o radicali o socialdemocratici revisionisti (guidati da Leonida Bissolati) si polverizzarono in diverse formazioni politiche, ognuna delle quali minoritaria rispetto ai grandi partiti di massa. Per questa ragione prima gli agrari e poi gli industriali decisero di sostenere Mussolini e il suo movimento fascista.
Anche per questa ragione dopo la caduta del fascismo, la nascita della Repubblica e l’approvazione della Carta costituzionale, il sistema politico italiano, basato sui grandi partiti popolari e di massa, la Dc, il Psi, il Pci, utilizzò molto poco i termini destra o sinistra, che rammentavano i governi post-unitari che avevano le loro radici nel trasformismo. D’altronde anche nella storia del movimento operaio, negli anni successivi al 1848, i suoi partiti si definivano socialisti o socialdemocratici e successivamente, con Lenin, comunisti, in quanto questi ultimi dovevano distinguersi nettamente dalla II Internazionale socialista, che aveva votato nel 1914 i crediti di guerra. Lenin, insomma, riesumò il termine comunista che dopo la pubblicazione de “Il Manifesto” Marx ed Engels avevano abbandonato.
Nelle elezioni del 1948 il Pci e il Psi diedero vita al Fronte popolare che aveva come simbolo Giuseppe Garibaldi, definito dagli avversari fronte socialcomunista. E la Dc con il Pli, il Pri e il Psdi diede vita a governi centristi e solo con l’ingresso nel governo del Psi si iniziò a parlare di centro-sinistra, usato come termine lessicale in sostituzione di quadripartito e poi di pentapartito, con il coinvolgimento del Pli. I termini destra e sinistra (e la sottigliezza tutta politicistica di definire i due competitori elettorali uno di centrodestra e l’altro di centrosinistra) si affermano nel lessico politico italiano con la nascita della seconda Repubblica, attraverso il maggioritario e il bipolarismo con il conseguente smantellamento dei partiti di massa.
Dare un nome a tutte le cose
Ho deciso di far precedere l’articolo da questo preambolo per sostenere la tesi che chi intende impegnarsi e lavorare per una trasformazione in senso socialista in Italia deve assolutamente abolire dal suo lessico politico i termini destra e sinistra. Sono due termini contenitori in cui dentro vi è tutto e il suo contrario. Generano confusione in quanto sono espressione dell’ideologia del capitale finanziario, che ha basato la realizzazione del suo sistema politico proprio sull’alternanza tra destra e sinistra. Un sistema politico e istituzionale a-democratico i cui centri di potere sono le ristrette oligarchie finanziarie e in cui i tre fondamentali poteri su cui si basavano i sistemi liberali, giudiziario (magistratura), legislativo (parlamentare) ed esecutivo (Governo), sono divenuti dei simulacri, delle ancelle totalmente al servizio appunto del capitale finanziario.
Non esiste oggi la minaccia del fascismo in Italia in quanto già vi è stata una torsione illiberale con il passaggio a un sistema a-democratico (non più liberale). Un sistema massificato che esalta però uno sfrenato individualismo e spinte rivendicative corporative. Il capitale finanziario non ha bisogno del totalitarismo violento fascista per imporre le sue scelte. Il manganello è l’ultima cosa a cui ricorre. Non ha il timore di essere minacciato. In questo contesto la contrapposizione fascismo/antifascismo assume un significato sempre più retorico e senza contenuti, ma è sostanzialmente proposto per giustificare la formale dialettica fra destra e sinistra. Si fa infatti un uso smodato del termine fascismo, per cui molte delle posizioni di destra sono etichettate appunto come fasciste o ispirate a questa cultura, mentre le posizioni di sinistra sono ovviamente antifasciste. Il processo storico della nascita e dell’avvento del fascismo è rimosso, rimangono solo delle formule vuote valide per alimentare la polemica, adottate soltanto allo scopo di rimarcare che c’è una destra condizionata da una cultura post-fascista e una sinistra. Si abusa così tanto del termine fascista che quando avviene un episodio veramente riconducibile al fascismo la polemica dura lo spazio di un mattino, anche perché il fenomeno non coinvolge mai grandi masse.
Vi è stata in Occidente, a partire dagli anni ’70, una mutazione del capitale, da sistema capitalistico monopolistico di Stato a un nuovo sistema dominato in termini più invasivi dal capitale finanziario. In diversi articoli e saggi ho ricostruito tale processo di mutazione avvenuto attraverso i seguenti passaggi: la messa in discussione degli accordi di Bretton Woods con la fine della convertibilità del dollaro in oro e la nascita del petrodollaro; i processi di finanziarizzazione e terziarizzazione (prevalentemente in Occidente) dell’economia; la delocalizzazione delle industrie nel Sud del mondo; la moneta divenuta da mezzo di scambio, merce essa stessa, fino a determinare delle gigantesche bolle finanziarie e speculative, non più legate agli investimenti e alla produzione. In Italia l’ascesa del capitale finanziario può essere riassunta fondamentalmente nelle seguenti tappe: autonomia della Banca d’Italia dalla politica; smantellamento dell’Iri e delle partecipazione statali tramite privatizzazioni selvagge; soppressione della Cassa del Mezzogiorno (che sarà stato pure un carrozzone clientelare della Dc ma era l’unica istituzione che faceva investimenti nel meridione d’Italia); privatizzazione della Cassa Depositi Prestiti che erogava agli enti locali capitali a tassi di interesse bassi per realizzare infrastrutture locali o per l’estensione dei servizi sociali; una evocata ma mai attuata riforma fiscale (a iniziare dalla tassazione delle rendite) per un sistema fiscale veramente progressivo e più equo (che siano i dipendenti e i pensionati a garantire allo Stato il maggiore gettito di entrate è oramai un dato storico acquisito). Insomma, vi è stato il totale smantellamento del sistema a capitalismo monopolistico di Stato realizzato nel dopo guerra dalla Dc, che aveva portato al boom economico degli anni ’60 e aveva determinato la trasformazione del Paese da sistema prevalentemente agricolo a sistema industriale, fino a far diventare il Paese una grande potenza economica dell’Occidente.
Come sempre avviene in questi processi strutturali, una volta conquistato il potere economico e finanziario occorreva ridisegnare le istituzioni e il sistema politico: lo si è fatto a suon di sentenze giudiziarie e con l’introduzione del maggioritario e del bipolarismo. Sulla vicenda “mani pulite” vorrei essere chiaro e non correre il rischio di essere frainteso. Che in Italia vi fosse una grande “questione morale”, come denunciava Enrico Berlinguer, era un dato incontrovertibile, ma il Pci, nella lotta per la moralizzazione del Paese non si affidava a una “via giudiziaria”, ma conduceva una grande battaglia politica tesa, come nel caso della sanità, a introdurre regole e vincoli che rendessero la politica molto meno invasiva nella gestione dei servizi pubblici. Come è del tutto evidente che il sistema di potere costruito dalla Dc, per esempio tra industria pubblica (Cefis) e industria privata (Fiat-Agnelli) richiedeva delle indubbie doti di mediazione politica. Tali capacità di negoziazione erano necessarie anche per comporre le distanze tra le esigenze della borghesia industriale dominante nel Nord e gli agrari dominanti nel Sud (e con loro le organizzazioni mafiose), o tra capitale industriale produttivo e le grandi rendite fondiarie che dettavano legge in città come Roma, Napoli o Palermo. E infine la mediazione si proponeva anche tra il composito mondo cattolico (di estrazione prevalentemente popolare) e una borghesia sempre più attraversata da culture non confessionali, laica e proiettata verso la modernità. Il capitalismo monopolistico di Stato era tutto ciò, con i suoi aspetti strutturali e sovrastrutturali radicati nella storia italiana, i quali, come ci rammenta Antonio Gramsci, possono condizionare anche pesantemente la struttura economica di una società.
Dunque, non è stato Berlinguer a intraprendere la “via giudiziaria”, ma il Pds di Achille Occhetto, che intendeva proprio attraverso il maggioritario e il bipolarismo “sbloccare il sistema politico italiano”, con l’alternanza, per “non morire democristiani”. Nel massimo sviluppo del capitalismo monopolistico di Stato, grazie soprattutto al ruolo del Pci, si realizzarono grandi conquiste civili e sociali, come il divorzio, l’aborto, lo Statuto dei lavoratori, la soppressione delle gabbie salariali, la scolarizzazione di massa, i consultori, l’equo canone, un servizio sanitario pubblico (con tutti i suoi limiti), ecc. ecc. Conquiste molte delle quali, non a caso, oggi messe in discussione. Le radici della crisi irreversibile in Italia e un po’ in tutta l’Europa, che ha travolto anche le socialdemocrazie, affondano in questo processo. Poiché è evidente che in un sistema dominato dal capitale finanziario non sono possibili politiche neokeynesiane.
È palese che l’ideologia dominante, quella del capitale finanziario, anche se non appare mai direttamente nel dibattito politico e culturale, ha teso a semplificare la politica in una falsa competizione tra destra e sinistra (o per stare alle puntualizzazioni degli opinionisti del mainstream e di molti politici, tra centrodestra e centrosinistra). Così non ha nessuna importanza se nel primo schieramento ci sono liberaldemocratici o più semplicemente liberali, borghesi illuminati e non confessionali (soprattutto ex socialisti) e borghesi bigotti (uniti dal motto Dio, Patria e Famiglia), cattolici moderati teorizzatori del centro, conservatori, reazionari con residualità fasciste. Come non importa che nel secondo schieramento ci siano liberaldemocratici, radicali, cattolici moderati o democratici, post-comunisti più o meno pentiti, socialdemocratici, radicali, ambientalisti variegati e pacifisti di tutti i colori dell’Arcobaleno e di “genere”, politici espressione delle culture della “nuova sinistra” sessantottina, libertari di ogni tipo e persino antagonisti malinconicamente nostalgici della critica al capitalismo. Intanto, come al tempo di Depretis e di Minghetti, pezzi importanti dei due schieramenti sono intercambiabili, possono passare dall’opposizione alla maggioranza o viceversa tramite il vecchio vizio del trasformismo, in quanto i partiti sono tutti estremamente liquidi, non hanno né consistenza né identità.
In ultima istanza ciò che conta è la difesa del sistema basato sul potere sempre più aggressivo delle élite finanziarie. Lo si è visto bene con il governo Meloni che ha appaltato la politica estera agli Usa e alla Nato e la politica economica ai falchi liberisti di Bruxelles che rispondono in tutto e per tutto alle strategie della ristrettissima cerchia ai vertici del capitale finanziario. Altro che sovranismo! Dall’altro canto il centrosinistra, al di là di piccole scaramucce su questioni non decisive, quale opposizione conduce sugli aspetti strategici della politica estera e della politica economica? Nulla! È del tutto inconsistente, forse sarebbe meglio dire acquiescente. E in termini politici quali sono le differenze di fondo tra questo governo Meloni e il governo di Mario Draghi?
La competizione elettorale tra destra e sinistra è quindi un grande imbroglio, non produce nessuna politica di cambiamento e nello stesso tempo annega in una brodaglia indistinta l’insieme delle culture politiche e culturali di cui era estremamente ricca la società italiana, quella della prima Repubblica, caratterizzata dalla dialettica e dal confronto tra pensieri forti, con diverse visioni del mondo. E tutto ciò è stato spazzato via in nome prima della moralità (ma con Berlusconi è durata poco), poi della necessità di una sempre maggiore stabilità dell’esecutivo per modernizzare – si diceva – il Paese e tramite questo processo anche per imporre, da parte della borghesia finanziaria emergente, l’ideologia del laicismo (cosa assai diversa dalla laicità dello Stato). Ma dietro a tante chiacchiere senza spessore alla fin fine c’era l’accettazione supina del Trattato di Maastricht, ratificato da tutto il Parlamento italiano ad eccezione del Prc. Con questo trattato si è legato il Paese, mani e piedi, all’UE che nei fatti si è dimostrata essere una creatura del capitale finanziario capace di mettere in discussione ciò che restava della nostra sovranità, cioè battere moneta. Pertanto, oggi la Bce, che politicamente non risponde a nessuno, può alzare il tasso di interessi sui capitali al 4,5 %, con tutte le drammatiche conseguenze che ciò comporta per centinaia di milioni di europei, in una situazione di pesante inflazione e recessione.
Chi intende ricostruire in Italia un partito che mantenga aperta la prospettiva del superamento del capitalismo fa di certo cosa giusta se decide di non usare l’inflazionata idea di dar vita a un nuovo soggetto della sinistra. Dovrebbe coniare un nome della cosa che ben sintetizzi l’obiettivo strategico della sua costituzione, lasciando la parola sinistra al Pd, che si definisce tale ed è così percepito da chi lo vota, ma anche da chi lo contrasta e lo contesta (anche se poi lo stesso Pd ha attenuato il vocabolo sinistra con quello democratico). Il termine sinistra è anche usato da chi ha una visione più critica della società rispetto al Pd e quindi intende differenziarsi da esso. Il nome di un nuovo partito di trasformazione (rivoluzionario) non può quindi neppure essere la vetusta riproposizione di ideologie novecentesche o di fine Ottocento, espressione di partiti nati per opporsi al sistema capitalistico. Occorre prendere atto, soprattutto in Occidente, delle trasformazioni del capitale avvenute negli ultimi cinquant’anni, da capitalismo monopolistico di Stato a capitale finanziario. Pertanto, anche le modeste formazioni neocomuniste o che scimmiottano termini populisti pentastellati, come Potere al popolo, sono del tutto inadeguate, fuori fase storica. Il loro consenso e i dati elettorali d’altronde lo confermano.
Attenzione, non sostengo che la funzione dei partiti comunisti sia esaurita nel mondo. Se hanno la possibilità storica di svilupparsi giocano un ruolo strategico ancora oggi decisivo. Due situazioni diverse, ma ugualmente significative, possono esemplificare questa affermazione. La prima riguarda i paesi in via di sviluppo o a capitalismo monopolistico di Stato (ma in questi paesi sono anche possibili politiche riformiste di natura socialdemocratica); la seconda riguarda quei paesi in cui i partiti comunisti hanno svolto o svolgono tutt’ora una funzione di direzione del paese, sia dal governo, come in Cina, in Vietnam o a Cuba, sia dall’opposizione come il Partito Comunista della Federazione russa. Ma nessuna di queste esperienze può essere esportata, poiché, in entrambi i casi, i partiti comunisti hanno avuto l’intelligenza politica e teorica di adattarsi alle caratteristiche storiche, culturali, economiche e sociali del paese di cui sono espressione. Continuano dunque a svolgere una funzione strategica in quanto partiti prevalentemente legati agli interessi nazionali appunto del paese, pur se sono interessi che coincidono con una visione socialista. Non a caso la loro definizione più ricorrente è quella di definirsi marxisti, senza aggiungere altro per definire la loro ispirazione teorica. In altre parti del mondo, in particolare nell’Occidente, non c’è invece spazio per partiti comunisti, politicamente sono stati spazzati via e con loro spesso sono state spazzate via anche le formazioni di natura socialdemocratica.
Anche sul populismo ci sarebbe molto da dire. Storicamente sappiamo che nasce nell’Ottocento nella Russia zarista. È stato un movimento politico e culturale molto influente e che ha annoverato tra le sue fila grandi personalità, come quella di Lev Tolstoj. Dal populismo si formerà poi uno dei più importanti partiti della Russia nella fase rivoluzionaria, il Partito socialista rivoluzionario. L’idea di fondo del populismo era quella di recepire le istanze del popolo, ma nelle Russia prerivoluzionaria era evidente che con il termine “popolo” ci si riferiva alle masse contadine che costituivano la stragrande maggioranza del paese. Le aree industriali erano scarse e concentrate in pochissime grandi città, come del resto la nascente borghesia. La contrapposizione era soprattutto quindi tra aristocrazia e contadini, sia pur servi della gleba o piccoli proprietari di terra. Questa idea di populismo però è molto lontana da quella che si forma in Italia alla fine del secolo scorso. In una società complessa come quella italiana il concetto di popolo abbraccia inevitabilmente l’intera collettività. Il popolo pertanto è composto da ricchi e da poveri, da sfruttati e da sfruttatori, da ceti medi e dal mondo operaio o del proletariato urbano e agricolo (braccianti soprattutto), da una media borghesia che aspira a una ulteriore scalata sociale e da una piccola borghesia che rischia la sua proletarizzazione. È dunque difficile usare il concetto di populismo per riferirsi al popolo, poteva farlo un partito interclassista e di massa come la Dc, ma questa sua natura era unica in Italia e forse in Europa.
Emerge allora chiaramente che in Italia vi sono almeno due forme di populismo che hanno preso piede e hanno caratterizzato la politica. La prima è una forma di populismo che cattura settori borghesi e fasce consistenti di ceti sociali popolari per ricondurli, pur attraverso un percorso non sempre lineare, nell’alveo del capitale finanziario. L’obiettivo è creare consenso, tramite una massa di manovra culturalmente arretrata e per molti versi pure confessionale, a un sistema dominato appunto dal capitale finanziario. A ben vedere questa operazione politica non è poi tanto lontana dalla critica marxiana del sottoproletariato e dei disoccupati e precari come esercito di riserva per indebolire il lavoro dipendente, molto più sindacalizzato e politicizzato. Ovviamente in questo blocco, tramite il bipolarismo, vi sono anche settori della borghesia industriale che resiste (la piccola e media impresa produttiva del Nord), ma non ha la forza per condurre una sua politica e deve pertanto sottostare e schierarsi su questo versante, che è pur sempre una articolazione del dominio del capitale finanziario.
La seconda forma di populismo si realizza attraverso la creazione di un blocco sociale costituito da settori importanti del mondo del lavoro, fasce di popolazione in miseria assoluta, ceti medi a rischio di impoverimento o di intellettualità diffusa (studenti universitari e giovani laureati in cerca di lavoro) per la costruzione di un polo politico non riconducibile alla destra e neppure alla sinistra, dove il Pd, in quanto espressione prevalente di una parte consistente della borghesia finanziaria (quella strettamente legata alle attività finanziarie), è l’altra faccia della medaglia del blocco costruito dal capitale finanziario. Quindi questo secondo populismo è portatore, tra tanti limiti e contraddizioni, di istanze di cambiamento della società italiana, anche se non sempre si convertono in politiche di trasformazione. Questo è stato il Movimento 5 Stelle e lo è tutt’oggi, ma purgato di quei consensi non riconducibili a politiche di rinnovamento della società italiana o sapientemente catturati da un populismo di natura reazionaria e conservativa. Ovviamente il Movimento 5 Stelle, proprio per le sue caratteristiche di stampo populista, presenta limiti politici e culturali che un marxista con grande difficoltà riesce ad accettare. Ma l’idea della costruzione di un blocco sociale alternativo al bipolarismo, dove sia la destra sia la sinistra sono espressione comunque del capitale finanziario, lo si rintraccia in diverse azioni e battaglie dei 5 Stelle. Certo sarebbe meglio chiamare le cose con il loro nome e non essere costretti a tirare fuori i contenuti utilizzando, a seconda delle circostanze, pinzette o tenaglie. Inoltre, la serie di stupidaggini, dettate appunto da un populismo parolaio e pure qualunquista, non favoriscono la comprensione del fenomeno politico. Pare che una parte di questi errori grossolani siano stati superati o siano in via di superamento con la direzione di Giuseppe Conte. Ecco perché il Movimento 5 Stelle in questa fase politica va sostenuto e aiutato. Ad esso oggi non c’è alternativa.
Abbuffarsi di tante cose che non hanno un nome proprio
Un prodotto dell’ideologia del capitale finanziario è quello di aver introdotto nel lessico politico poche parole per definire concetti tra loro molto diversi, addirittura opposti. Per correttezza devo affermare che le piccole formazioni neocomuniste solo in parte si sono fatte coinvolgere da una indistinta abbuffata di cose diverse chiamate però con lo stesso nome. Questa loro resistenza, questa impermeabilità all’ideologia dominante è dovuta alla loro concezione del mondo. Fanno analisi sul capitale come se fossimo al tempo delle macchine a vapore, alla nascente industria, nel pieno sviluppo del capitalismo in Occidente. Per questa ragione coerentemente continuano a definirsi comunisti e spesso precisano queste loro scelta ideologica rimarcando di essere marxisti-leninisti. Devo dire che, nonostante la malinconica tristezza che mi prende nel confrontarmi con loro in quanto portatori di un’antica, ma superata, ideologia di cui con orgoglio rivendicano l’appartenenza, queste formazioni mi sono molto più simpatiche rispetto a quelle che abusano del termine sinistra. Queste ultime hanno una concezione della politica del tutto subalterna al sistema dominante. D’altro canto, i neocomunisti sono altrettanto subalterni, ma nel loro caso lo sono poiché sono ininfluenti in quanto portatori di visioni totalmente superate. Credono di condurre, in termini gramsciani, una guerra di trincea, di posizione, ma sono solo dei sopravvissuti di una grande e gloriosa ideologia diffusasi in Occidente nella prima metà del Novecento. Ritengo tutto sommato però più facile dialogare con loro, anche se questo non è il mio principale obiettivo, che con quell’altra “fazione” che definisco “i sinistrati”, con i quali non ho nessun legame, neppure quello di essere stati entrambi parte di quel lontano mondo che era l’ideologia comunista italiana. Per questa ragione apprezzo la passione e la determinazione di chi, come fa Fausto Sorini in un lungo saggio uscito su “Marx 21”, ripropone la questione comunista in Italia, ma purtroppo trovo questo suo impegno sterile, non porta da nessuna parte.
Dunque, una grande abbuffata di cose senza dare loro il giusto nome, mentre ritengo che la corrispondenza tra le cose e il loro nome sia fondamentale non solo per i significati che include ma perché l’atto di denominare e descrivere un processo culturale e intellettuale di primaria importanza. Inizio quindi da un concetto che mi pare sia fondamentale. Nell’attuale lessico politico si rivendica la superiorità del modello liberale rispetto ad altri sistemi politici. E con modello liberale si sottintende il concetto di democrazia. Come è noto democrazia è un termine di origine greca composto da due sostantivi, kratos (potere) e demos (popolo). In realtà però, neppure nell’antica Atene, il potere è mai appartenuto al popolo, perché chi lo avrebbe dovuto rappresentare si limitava a rappresentare un copione dettato dai ceti sociali ricchi e dominanti. E tutto ciò vale pure per il modello liberale (rammento che votavano solo i cittadini di sesso maschile che superavano un certo reddito), espressione istituzionale e politica del sistema dominante nell’Ottocento: quello della borghesia e del sistema capitalistico. Insomma, come spesso ci ricorda Luciano Canfora, la democrazia nella storia dell’umanità non è mai esistita, è una ideologia, dunque una aspirazione per molti, al pari del comunismo (neppure il Pcus ha definito l’Unione Sovietica società comunista). È ovvio che il modello liberale nel corso di più di due secoli ha subito profonde trasformazioni ma non si è trasformato mai in modello democratico in quanto il potere non appartiene al popolo e oggi è esercitato dalle oligarchie finanziarie. Quello, pertanto, che è in crisi in Occidente non è il modello democratico (una cosa mai esistita non può entrare in crisi, ma solo la sua idea può essere messa in crisi), ma il modello liberale, proprio perché il capitale finanziario può oggi anche formalmente fare a meno del sostantivo demos e rafforzare invece il sostantivo kratos.
Diverse esperienze storiche comuniste in Occidente, come il Pci, avevano sviluppato la teoria del nesso tra socialismo e democrazia. Ma questo nesso non partiva dal riconoscimento di un sistema democratico compiuto, sostanziale. Partiva dalla necessità di conquistare una democrazia reale che per la prima volta nella storia dell’umanità coniugasse il sostantivo kratos con il sostantivo demos. Il progetto della democrazia progressiva di Palmiro Togliatti era pertanto una strategia che aveva come obiettivo, una volta attuate le condizioni, scelta Repubblicana e Carta costituzionale, la democrazia reale. Questa visione togliattiana si è trasformata successivamente a sinistra nel riconoscimento di un sistema democratico compiuto fino a confondere un modello liberale italiano, pur se estremamente avanzato, con il concetto di democrazia, forma di governo tutta ancora da conquistare. La conferma di questa analisi sta nel fatto che la Costituzione, un atto formale assolutamente democratico nei suoi principi, non è mai stata attuata, anzi è spesso disattesa e persino tradita. La dialettica tra Dc e Pci nella prima Repubblica si basava in primo luogo su questo confronto, spesso anche aspro, relativo all’attuazione dei dettati istituzionali tramite anche le riforme di struttura.
Un ragionamento simile si può fare anche con il concetto “lotta di classe”, espresso tra l’altro non solo da Marx ma anche da molti socialisti utopistici. Ora, non è questa la sede, si può discutere per ore e ore sulla validità o meno di alcune categorie marxiane. È comunque innegabile che la contraddizione fondamentala capitale-lavoro (e, attenzione, non classe operaia come molti intendono sostenere), nonostante le trasformazioni del capitale in Occidente negli ultimi 50 anni, sia ancora valida. Pertanto, non si comprende come mai le oligarchie finanziarie, in silenzio, pratichino una durissima “lotta di classe”, mentre nel sistema politico dell’alternanza il concetto sia stato soppresso. Addirittura, anche il più temperato concetto “conflitto sociale” stenta ad avere spazio nel lessico politico. Meglio attestarsi allora sul termine competizione elettorale tra destra e sinistra, molto più adatto per interpretare la modernità. Per cui con il termine competizione si intendono contemporaneamente, a mio parere, tre concetti: uno impronunciabile, cioè “lotta di classe”, un altro, “conflitto sociale”, da riprendere solo in determinate circostanze, ammorbidito spesso nella forma “questione sociale”, poiché il termine conflitto può indurre a pericolose situazioni, ed infine il concetto di “competizione elettorale”, ridotto però a pura esercitazione elettoralistica e anche per questo un costante crescente numero di elettori non vanno a votare.
Potrei continuare con altri esempi, come la differenza sostanziale tra progresso e sviluppo. Differenza mirabilmente introdotta da Pier Paolo Pasolini, mentre oggi i due termini sono spesso considerati simili. O chi fa caso oggi alla distinzione tra movimento pacifista e movimento per la pace? Il primo indica un richiamo pur giusto alla pace, mentre il secondo implica la necessità di indicare pure le responsabilità di chi vuole la guerra e sottintende, senza dichiararlo, esplicitamente la natura guerrafondaia dell’imperialismo. Oppure chi sottolinea la differenza tra la laicità dello Stato e l’ideologia laicista, entrambe considerate alla stessa stregua. Infine, il termine ecologia, in cui si confonde la necessità di politiche – che non si fanno o si fanno poco – di salvaguardia dell’ambiente con il fondamentalismo ideologico ecologista su cui molto ha investito il capitale finanziario. Non intendo farla troppo lunga perché, nel proseguire il mio intervento, mi preme evidenziare, un aspetto estremamente rilevante. Però credo che sia doveroso mettere l’accento sull’importanza ontologica della lingua e sulla fondamentale necessità di denominare le cose del mondo in cui viviamo allo scopo di identificarle, riconoscerle, condividerne sostanza e senso per porre le migliori basi per la loro comprensione.
Con l’operazione militare russa in Ucraina siamo a un tornante della storia. Uno di quegli snodi che si propongono dopo molti ma molti decenni. La guerra ha impresso una formidabile accelerazione al processo di costruzione di un nuovo mondo multipolare. Ho già affrontato questo argomento in altri scritti, ma qui mi interessa porre all’attenzione un aspetto molto poco discusso e approfondito di questo cambiamento epocale. La battaglia per un nuovo ordine mondiale sta in Occidente sconquassando il lessico politico dell’ideologia del capitale finanziario. Il raggruppamento dei Brics+, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, il Gruppo dei 77 + la Cina (che in realtà sono oggi divenuti 134 paesi del Sud del mondo come si è visto nell’assemblea che di recente hanno tenuto all’Avana) e lo stesso G20 ci confermano che il mondo sta cambiando e sta decisamente prendendo la strada del multipolarismo.
L’Iran come repubblica islamica è di destra o di sinistra? Il ragionamento è ancora più evidente e problematico per l’Arabia Saudita, entrata recentemente a far parte dei Brics+: come si valuta l’aver posto fine alla guerra nello Yemen o di aver interrotto il processo di riappacificazione con Israele? E soprattutto come si deve giudicare l’aver messo in discussione il sistema del petrodollaro, accordo che aveva con gli Usa dagli anni ’70. O per altri versi come considerare l’Egitto governato dai militari? E cosa è l’Ungheria di Orban, paese della UE e della Nato, che oggi però svolge una politica estera di forte distinzione dall’ Occidente collettivo? E cosa dire della Serbia? E si potrebbe andare avanti prendendo in esame l’India di Narendra Modi, un moderato, o il tanto chiacchierato Tayyip Erdogan. Per non parlare dei curdi che per anni hanno attirato le simpatie della sinistra con la lotta per l’autodeterminazione e il riconoscimento della propria identità ma che ora sono alleati degli Usa in Siria e rappresentano il loro braccio armato nel depredare una parte del territorio siriano ricco di petrolio: sono di destra o di sinistra? Se non si esce da questo schema non comprendiamo il mondo.
Infine, se si confronta un sistema capitalistico monopolistico di Stato come quello russo, in cui le imprese strategiche, quelle energetiche e l’industria militare sono direttamente sotto il controllo dello Stato, e quello cinese, basato sul mercato misto ma governato dallo Stato e dal Pcc (un sistema economico che rammenta per molti aspetti la politica della Nep di Nikolaj Ivanovic Bucharin), è legittimo chiedersi, dove sono i confini? Quali sono le differenze sostanziali? È possibile che di queste cose non si discuta mai? È possibile un approfondimento non ingabbiato in sterili ideologismi o giudizi aprioristici? In Occidente spesso con alcune paroline si definisce tutto: capitalismo, autocrazie o dittature, come se non vi fosse in questa parte del mondo la dittatura del capitale finanziario pur in presenza di diverse e significative sfumature politiche.
Ho letto recentemente che in Florida vi è stato un grande raduno di neonazisti. Hanno pubblicamente dichiarato di essere schierati con l’Ucraina nazista del governo di Kiev e per questa ragione sosteranno Joe Biden alle elezioni presidenziali. Dove sbatte quindi la narrazione di un Donald Trump che liscia il pelo al suprematismo bianco e di un Biden democratico? Sono in corso negli Usa, nelle zone industriali, grandi scioperi promossi dai sindacati che chiedono aumenti salariali. La maggioranza di quegli operai vota per il partito democratico di Biden o non vota invece per il partito repubblicano di Trump? E la new economy in California, roccaforte del partito democratico, modello avanzatissimo del capitale finanziario, cosa è? Di destra o di sinistra?
Per tornare in Italia la posizione sulla guerra di Marco Travaglio, che ha sempre dichiarato di essere un liberale, come può essere considerata? E Berlusconi che criticava il governo di Kiev e sosteneva le ragioni della Russia di Putin come deve essere valutato? E con lui settori leghisti legati agli imprenditori del Nord che facevano affari d’oro con le esportazioni di prodotti italiani in Russia. Come considerarli? E Giulio Tremonti che ammonisce l’Ue ad essere più autonoma dagli Usa e dalla Nato in quanto il suo nemico non è la Russia ma la Cina? Anzi, secondo Tremonti, l’Europa dovrebbe costruire con la Russia un polo economico forte, euro-russo, capace di contrapporsi alla Cina ma anche di distinguersi dagli Usa. Infine, il primo governo Conte, sostenuto dai 5 Stelle e dalla Lega, che firmò il protocollo della via della seta e mostrò una certa autonomia dagli Usa, era più a destra di quelli che si sono succeduti dopo, con la presenza in posti di comando del Pd? Mi riferisco chiaramente al Conte bis e soprattutto al governo di Mario Draghi.
Ecco con la guerra tutti questi interrogativi escono dalla pubblicistica di ristrette élite di intellettuali per essere catapultati pesantemente nel dibattito politico. Ci mostrano come certe semplificazioni alla prova dura dei fatti non reggono, non perché qualcuno ha sostenuto il contrario, ma per palese evidenza. Non possono più essere nascoste sotto il tappeto tessuto dal capitale finanziario. Che il mondo neonazista si si spaccato e che vi sia un certo integralismo cattolico che guarda con simpatia a Putin sono il rovescio della medaglia dei molti che a sinistra in Europa sostengono un imperialismo Usa spacciandolo come lotta per la democrazia contro tutti gli autoritarismi. Come se in questa parte del mondo ci fossero i campioni della libertà e dei diritti civili. Evito di fare un lungo elenco su questo punto, però devo constatare che dalla “sinistra imperialista” non si è levata una sola voce a sostegno della giunta rivoluzionaria nata in Niger per liberare il paese dall’odioso colonialismo francese. Ma la stessa versa lacrima di coccodrillo sulle continue tragedie che avvengono nel Mediterraneo nel tentativo di rifarsi una verginità politica che dimostri i suoi valori fondanti di sinistra. Ma è una sinistra che ha scavato un solco profondo con tutte le forze rivoluzionarie – e molte di matrice marxista – che nel mondo lottano per una società più giusta, che può affermarsi pienamente solo con un ordine mondiale multipolare. Mentre nuovamente constato che gran parte della sinistra italiana ed europea è totalmente appiattita sull’unipolarismo Usa.
L’ideologia dominante però non demorde. Per questo il mainstream si è inventato i “rosso bruni”, questo strano pasticcio tra destra e sinistra estreme, magari condito con la denuncia della cultura del complottismo e della presenza di tanti novax. Per cui ripercorre la strada della semplificazione dando a cose diverse lo stesso nome. Nazionalisti e fascisti sono accomunati con i difensori della sovranità nazionale. Sono tutti indistintamente antieuropeisti. E uno dei cardini del sistema, insieme con quello atlantista, è appunto l’europeismo. Il “Manifesto di Ventotene” di Altiero Spinelli dove si parlava della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, dai Pirenei agli Urali, è sbattuto in soffitta. Il sogno di Spinelli degli Stati Uniti d’Europa, che doveva avere una costituzione, una sovranità federale, una politica estera comune, nonché economica e monetaria, delle istituzioni elettive rappresentative e democratiche, è stato ridotto a un europeismo funzionale agli interessi del capitale finanziario, che ha negato le sovranità nazionali senza per altro costruirne una europea. Quello di Spinelli era solo un sogno? Forse. Resta comunque il fatto, al di là di come la si pensi, che questa Ue non è quella per cui Spinelli si è speso e ha lottato. È un centro esecutivo di decisioni prese dalle oligarchie finanziarie in altre sedi, opache, non visibili. Ma si continua a chiamare tutto ciò europeismo!
Anche all’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia, che è stata una sorta di prova generale di tutto ciò che è avvenuto in Occidente con la guerra, è stata data la stessa impostazione su citata. Gli unici vaccini “buoni”, accettati in Italia dalla Afi, sono il Pfizer e il Moderna, imposti dalle multinazionali statunitensi all’Ue, mentre gli altri, quelli cubani, cinesi o russi, sono da considerarsi poco affidabili, anche se meno costosi e spesso meno invasivi. Si è detto che la scelta veniva fatta sulla base dell’efficacia, ma nel corso del tempo, si è visto che è stata necessaria la somministrazione di 4 o 5 dosi per ottenere un’adeguata copertura dal virus. E ci possono essere ulteriori soprese nei prossimi mesi… Ma chi osa mettere in dubbio queste nefande scelte chiedendo un confronto più trasparente è subito tacciato di negazionismo, viene accusato di non riconoscere il ruolo della scienza e della ricerca. Inoltre, a piè sospinto si denuncia l’autoritarismo della società cinese ma da noi si è introdotto un sistema restrittivo come il green pass che ha penalizzato duramente il mondo de lavoro. In questo clima politico il passo successivo risulta abbastanza scontato. Tutti quelli che contestano le scelte sanitarie o il modo in cui è stata gestita la pandemia dal Governo sono stati indicati come dei complottasti, ridicolizzati e associati ai terrapiattisti e a coloro che credono agli Ufo. Di conseguenza il termine complottista, liberato da ogni vincolo concettuale del significato della parola (ma i servizi segreti, per esempio, non sono complottisti?) può essere usato oggi impunemente per discriminare tutti coloro che conducono una battaglia per una diversa gestione della pandemia, a iniziare dalla scelta delle cure. Ma non è stato posto nessun argine per differenziare i creduloni che si abbeverano alle più diverse fandonie, e che anche nel caso del Covid hanno proposto soluzioni fantasiose quando non pericolose per la salute, da chi invece conduce una battaglia politica per fare chiarezza sulla gestione della pandemia. Tutti indifferentemente sono stati messi alla gogna, ridicolizzati! Tutti messi in un unico calderone in nome del progresso e del libero Occidente!
Ho sentito in questi mesi opinionisti in Tv che, facendo associazioni spericolate, si sono chiesti come mai i negazionisti siano tutti putiniani. E intanto la produzione di fake news sulla guerra in Ucraina nel mainstream dilaga e siamo molto oltre la cosiddetta propaganda di guerra, siamo arrivati alla “narrazione” di una realtà che non esiste. Pertanto, che vi siano nel mondo piccoli gruppi neonazisti, primatisti bianchi, nazionalisti di vario genere, cattolici integralisti convinti che la Russia sia il loro paese ideale, mi pare che siano fatti loro. Fanno parte, purtroppo, di quelle miserie umane che forse non scompariranno mai. Ma è innegabile che la Russia sia in prima linea nella costruzione di un mondo multipolare e che da sempre sia connessa, come in passato l’Unione Sovietica, alle aspirazioni dei movimenti anticoloniali e antimperialisti del Sud del mondo, che lottano per una propria reale sovranità. I due piani non dovrebbero essere sovrapposti nonostante la volontà delle mortifere culture neoliberiste di confondere le idee mischiando le carte.
Sappiamo da anni che i gruppi neonazisti si sono sempre divisi tra filoisraeliani e antisraeliani. Non è una novità! Perché allora far finta di meravigliarsi se si dividono sulla guerra in Ucraina? Ciò che conta è il giudizio su Israele: uno Stato canaglia che pratica l’apartheid contro i palestinesi. Ne occupa insomma le terre e pratica la segregazione razziale. Questo è il giudizio, se poi qualche antisemita nazista si scaglia contro Israele lo fa sulla base di una visione criminale. Ma il giudizio sullo Stato israeliano non cambia, neppure se decide di non fornire armi a Kiev. Ecco, denunciare i “rosso bruni” è un modo per tacciare di complottismo e di negazionismo il dissenso. I “rosso bruni” sono una dell’ultime invenzioni del mainstream al soldo delle oligarchie finanziarie, rappresentano il tentativo disperato di convincere che lo schema della contrapposizione tra destra e sinistra è l’unica interpretazione di un mondo possibile, del bel – mica tanto poi – giardino europeo. Quando Josep Borrell si avventura a parlare del giardino europeo forse non si rende conto che alla base di questo misero concetto vi è proprio la pratica della segregazione. Una pratica inventata dall’Occidente coloniale e razzista e non dal nazismo, anche se ne ha fatto un uso abominevole, criminale di massa. Voglio pensare che Borrell non sia un politico allo sbaraglio, allora dovrebbe evitare di scivolare su un terreno così melmoso da primatista bianco, un po’ “sinistro-bruno”.
Occorre dunque dare il giusto nome a tutte le cose. È il primo passo per ricostruire in Italia e in Europa una forza rivoluzionaria di ispirazione marxista. Riproporre come fece Gramsci, dopo la sconfitta, la questione della rivoluzione in Occidente. Per questo si impegnò in un lavoro teso al rinnovamento teorico del marxismo, pur operando nella terribile condizione del carcere. Con le sue analisi e riflessioni diede un nome a tutte le cose, entrando nel merito delle questioni, curandone persino i dettagli, e soprattutto senza semplificazioni e ideologismi. Certo, per dare il giusto nome alle cose occorre una ricerca teorica collettiva, ma già sarebbe importante prendere atto che i vecchi schemi non funzionano più, ad iniziare dal termine sinistra, oggi espressione in Europa dell’ideologia dominante. Questo lavoro di ricostruzione di una forza rivoluzionaria è un lavoro di lunga lena, le scorciatoie o le operazioni elettoralistiche, più o meno presentate come tentativi di riaggregazione della sinistra, non portano da nessuna parte. Rischiano di diventare anche dannose. Meglio impegnarsi nel lavoro di costruzione di una rete di quadri che sviluppi la ricerca teorica e nello stesso tempo ognuno faccia politica nelle condizioni date, per ciò che è possibile fare, sostenendo quello che di meglio c’è in campo.
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