Storicamente le tragedie tendono a ripetersi come farse, ma non sempre queste ultime finiscono allegramente in caciara – e in certe parodie il sangue scorre copioso (Sedan ne è una prova fra le tante).
Un’ottantina di anni fa si combatterono, nelle sconfinate pianure dell’est Europa, le battaglie più cruente della Seconda Guerra Mondiale: l’invasione nazista dell’URSS e poi la poderosa controffensiva sovietica disseminarono città e campagne di milioni di cadaveri. In Ucraina oggidì ci si fronteggia quasi come allora, anche se su scala ridotta: i droni fanno la loro parte, ma gli scontri sono decisi da assalti frontali, cannoneggiamenti e salve di razzi. Nel luglio del ’43, a Kursk, la Wehrmacht tedesca tentò di fermare l’avanzata russa schierando i migliori carri armati dell’epoca, che erano i Panther e i Tiger, ma neppure questo bastò e due anni più tardi i soldati con la stella rossa espugnavano una Berlino ridotta in macerie. Il ricordo di quella disfatta epocale e delle umiliazioni che seguirono resta vivo nei cuori dei tedeschi, ma questo non ha impedito al governo federale di annunciare l’invio dei carri Leopard 2 in soccorso al regime autoritario di Zelensky. Anche di questi mezzi, per quanto datati, si dicono mirabilie, ma l’opinione pubblica germanica è comprensibilmente inquieta: il prossimo confronto diretto con la Russia risuscita timori che la caduta trent’anni fa del muro di Berlino pareva aver sopito. La presenza di panzer tedeschi sul suolo dell’ex URSS, in località il cui nome è legato alla Grande Guerra Patriottica (e viene spesso citato in epopee letterarie come Stalingrado di V. Grossman), non può che rinfocolare nell’animo dei russi l’avversione per il secolare nemico e il sostegno a un governo che, piaccia o no agli occidentali, è maggiormente in sintonia con gli umori della popolazione rispetto a quelli di Gorbacëv o dell’infame Eltsin. Mai sottovalutare l’impatto dei simboli, specialmente se si tratta di croci nere! Oltretutto stavolta la Germania svolge un ruolo ancillare, simile a quello assunto durante l’Operazione Barbarossa da italiani, ungheresi e rumeni: le decisioni vengono prese a Washington, o tutt’al più a Londra. Per l’Italia invece non cambia pressoché nulla: subordinati eravamo allora, subordinati (e pressoché imbelli) siamo anche oggi. Invero una novità per noi c’è, e non mi pare positiva: la penisola ospita una gran quantità di armi atomiche altrui (dunque non soggette al controllo nazionale) che per una Russia alle strette costituirebbero inevitabilmente un bersaglio.
Tuttavia non è soltanto a causa della debolezza politica e militare che non siamo padroni del nostro destino: la classe politica nazionale e il circo mediatico sembrano compiacersi del loro totale asservimento agli interessi americani e ci espongono al disprezzo di un “nemico” che non ha fatto niente per divenire tale. L’invito sanremese a Zelensky è la goccia di piaggeria che fa traboccare il vaso, anche se il guitto in mimetica si troverà a suo agio fra innumerevoli colleghi. Ormai la storiella manichea dell’aggressore e dell’aggredito non incanta più nessuno, eccezion fatta per gli agitprop di stampa e tivù, gli opportunisti di ogni risma e schiere di beoti assuefatti alle panzane – chiunque abbia conservato un minimo di raziocinio ha ben chiaro che la guerra ucraina è crusca del sacco americano e che è stata Washington a renderla inevitabile, ponendo la Russia di Putin di fronte a un tragico dilemma: rinunciare a una posizione privilegiata nella gerarchia delle potenze e – in prospettiva – alla sua stessa indipendenza oppure reagire con la forza militare a un’interminabile (e inaudita) serie di provocazioni. L’élite moscovita ha scelto il “meno peggio” (per lo Stato, non per chi è morto o morirà sul campo!), ma non poteva certo illudersi che il duello si sarebbe deciso al primo sangue. “Combattere con una mano legata dietro la schiena” non ha impedito l’escalation ancora in corso, semplicemente perché gli Stati Uniti e i loro zerbini vogliono cogliere – dopo averla creata – l’occasione propizia per mettere definitivamente fuori gioco un fastidioso antagonista e magari impadronirsi delle materie prime di cui abbonda il suo sottosuolo.
Bisogna però distinguere fra la politica americana e quella attuata negli ultimi tempi dai clientes imprigionati nella ragnatela NATO-UE. Gli USA, pur in piena decadenza, cercano in ogni modo di preservare la loro leadership mondiale: perciò si prefiggono di ridurre all’impotenza Paesi che a torto o a ragione ritengono possano insidiarla. La Russia è la seconda potenza militare del pianeta, la Cina si avvia tra alti e bassi a diventare l’egemone economico: una guerra preventiva contro queste due nazioni può logicamente rientrare nei programmi di uno Stato-avventuriero che, sin dalle sue origini, ha sistematicamente tradito gli impegni presi e sopraffatto altre genti pur di inverare il proprio “destino manifesto”. Ingenuità, cinismo, fanatismo e aggressività spingono all’azione un popolo meticcio, ma cementato dall’incrollabile convinzione di essere sempre nel giusto. Vale la pena rischiare la sopravvivenza propria e dell’umanità intera pur di liberarsi di un potenziale contendente? Probabilmente sì, se si ragiona con la mentalità di un giocatore di poker abituato a bluffare fino all’ultimo giro. L’Europa è molto meno “giustificabile”, anche perché in mano ha risaputamente delle scartine. Tralasciamo gli inglesi, ridotti a provincia autonoma dell’impero a stelle e strisce con la vocazione dell’attaccabrighe, e pure polacchi e baltici che, in odio al secolare nemico russo, si appoggiano agli USA fantasticando di usarli (mentre è vero il contrario): parlo della c.d. Europa Occidentale, cioè anzitutto di Germania e Francia.
I francesi devono vedersela in Africa con l’intraprendenza russa, ma come mai in passato risultano appiattiti sulle posizioni statunitensi – Macron è d’altra parte un esponente di quell’oligarchia neoliberista apolide che comanda in Occidente, spesso (ma non nel suo caso) per interposta persona. Come ha osservato Nicolai Lilin le chiamate del presidente francese a Putin sono mere mosse propagandistiche: potremmo parlare di molestie telefoniche, visto che la linea dell’Eliseo non si discosta da quella dettata da Washington (la guerra deve concludersi con la vittoria ucraina e la riconquista della Crimea, cioè con una capitolazione) e che Parigi, dunque, nulla ha da offrire all’interlocutore. Chi milita in una delle due squadre in campo non può pretendere di arbitrare la partita: un mediatore deve essere necessariamente imparziale. Se la Francia è allineata, la Germania è addirittura succube: dopo anni di buon vicinato e proficui affari con la Russia ha subito senza protestare l’affronto della distruzione per mano “amica” di un’infrastruttura per lei strategica come il North Stream e adesso la massiccia presenza sul suo territorio di basi militari USA e la stessa collocazione geografica al centro del continente la rendono un obiettivo primario. In ogni caso il vagheggiamento di affrancarsi progressivamente dalla tutela statunitense e di assumere la leadership europea è destinato a rimanere tale: come già osservato questa crisi ha rafforzato anziché allentare il legame di sudditanza politica, economica e militare degli “alleati” nei confronti della potenza egemone.
Sull’Italia c’è poco da aggiungere, se non che all’esiguità dell’apporto in termini di risorse militari fa da contraltare una retorica bellicista che non è agevole riscontrare altrove. I sovranisti per conto terzi, ansiosi di acquisire meriti oltreoceano, continuano imperterriti a riempirsi la bocca di paroloni come democrazia e diritti (pur calpestando questi e quella nella pratica quotidiana) e i media di regime fanno loro da megafono: l’ineffabile Bocchino, qualche sera fa, proclamava a gran voce il sacro dovere di difendere con le armi un Paese democratico ingiustamente aggredito, forse dimentico del fatto che il partito di provenienza suo e della premier ha sempre guardato con “scetticismo” (diciamo così…) al principio di sovranità popolare. Questa narrazione è falsa al punto di rasentare l’indecenza: in primo luogo perché l’Ucraina, oltre a essere sin dalla sua nascita uno dei Paesi più corrotti d’Europa, non è affatto una democrazia anche solo “liberale”, come attestano la messa al bando – avvenuta ben prima dello scoppio delle ostilità “ufficiali” – di partiti politici con vasto seguito popolare, la metodica persecuzione delle minoranze, l’influenza di oscuri poteri economici sulla vita politica, l’attivismo e i crimini commessi da formazioni paramilitari che si richiamano all’ideologia nazista. Inoltre questo “dovere morale” d’intervento non è apparso a politicanti e propagandisti così cogente quando a subire invasioni armate (queste sì del tutto ingiustificabili) furono Stati assai più indifesi di quello ex sovietico, aggrediti però dall’Occidente a guida americana che si erge a supremo giudice del bene e del male. Facile che il politicume nostrano non conosca la Storia, neppure quella recente, ma per avere contezza della catena di eventi che, dal 2014 in poi, ha propiziato l’attuale guerra basta sfogliare i giornali online – invece no, ci si limita a ripetere pappagallescamente slogan preregistrati.
Attendersi un ripensamento da una classe politica insediatasi al governo del protettorato imperiale sull’onda di promesse “populiste” già spudoratamente disattese (quelle di stampo reazionario e classista verranno invece mantenute) non è realistico, anche perché – come spesso sottintende Caracciolo – la sua autonomia decisionale in materia di politica estera è pari a zero. Anni addietro a chi proponeva di adottare come inno nazionale il Va, pensiero in sostituzione dell’attuale fu obiettato che, a prescindere dal valore artistico, il coro verdiano dà voce a una nazione di schiavi: non mi pare una controindicazione, visto il nostro stato di palese asservimento a un potentato straniero.
Resta il fatto che, a onta degli incessanti sforzi della propaganda politico-mediatica, buona parte degli italiani è contraria all’invio di armi e paventa i rischi di un sempre più marcato coinvolgimento in un conflitto che in via di principio non dovrebbe riguardarci e che, allo stato dei fatti, può arrecare al nostro Paese solamente danni (potenzialmente irreparabili).
Sarebbe necessario passare dai mugugni ai fatti: urge cioè una forte e permanente mobilitazione popolare contro la guerra e chi la fomenta che solleciti attivamente i nostri governanti al rispetto della Costituzione, articolo 11 in primis, e trasmetta un segnale incontrovertibile a chi ci osserva da lontano (intendo: presunti amici e nemici non nostri, bensì delle cricche neoliberiste al potere nel fu Primo mondo).
Fonte foto: Dagospia (da Google)