In sintesi, le conclusioni del rapporto Mueller sono due. Primo: i russi hanno certamente cercato di “interferire”nelle elezioni presidenziali Usa, senza però alterarne l’esito. Secondo: una serie di personalità vicine a Trump hanno avuto contatti con i russi ma non ci sono prove per dimostrare che il candidato fosse a conoscenza di una qualche “operazione”e men che meno che l’avesse promossa.
Al primo argomento i nostri giornali e penso anche i media americani hanno dedicato pochissimo spazio. E non a caso. Perché, su quel tema, il rapporto Mueller smonta, anzi colpisce alla base il clima di isterismo, diffusosi anche in Europa, che attribuiva al “russo sotto il letto” qualsiasi evento negativo: dalla vittoria del populista di turno sino ai guasti nella rete. Restituendo all’interferenza quello che è nella parola stessa: una pratica universale di cui, per inciso, gli americani sono gli indiscussi maestri.
Veniamo, allora, al “poteva non sapere”. Formula assolutoria per insufficienza di prove che il Nostro ha brandito come una clava contro i democratici; ma che in realtà dà del leader un’immagine non precisamente brillante. Passi, ma è difficile da accettare, che il Cremlino, attraverso personaggi pubblici come l’ambasciatore a Washington, contatti personaggi di spicco del tuo entourage per organizzare assieme a loro la campagna anti Hillary, tenendoti all’oscuro della trama. Ma che sia il tuo stesso entourage a cercarli senza che tu ne sappia niente, questo non è proprio possibile.
In realtà, tutto è partito da Trump, in pieno accordo con Putin. Nel contesto di un disegno che potrà piacere o no; ma che è tutto politico. E che può vantare una serie di illustri precedenti. Lungo tutto l’arco del dopoguerra, con la sola eccezione di Eltsin ( non a caso, un disastro da ogni punto di vista), Mosca ha sempre preferito i repubblicani ai democratici e, dal suo punto di vista, con ragione. Perché, da Eisenhower a Nixon, da Reagan a Bush padre il Gop era il partito della realpolitik e degli accordi mentre i democratici, pervasi dall’internazionalismo interventista, di realpolitik non volevano proprio sentir parlare.
Ora Trump era chiamato a recitare lo stesso copione. Per temperamento da cow boy affarista. Perché totalmente estraneo allo schema Bene-Male. Ma soprattutto perché in una lista in cui i nemici da combattere erano, in ordine sparso, l’Iran e l’Islam, la Cina, la Germania e le istituzioni internazionali, non c’era proprio spazio per Putin.
Perciò è da lui che partirà la decisione di riprendere i contatti con Mosca. Ben sapendo che non potrà farlo, come sarebbe stato giusto, alla luce del sole: perché avrebbe contro tutto l’establishment repubblicano ( che ha totalmente rinnegato Kissinger); per tacere di quello clintoniano.
E non a caso sarà quest’ultimo a scatenare e ad alimentare di continuo il Russiagate; a partire dalla convinzione di Hillary che la sua sconfitta, del tutto inspiegabile, fosse dovuta ad interventi esterni dolosi.
Dopo quasi due anni di sforzi, questa battaglia si è scontrata con un limite insuperabile. Che non sta tanto nel rapporto Mueller ma in un elemento che avrebbe dovuto essere tenuto presente sin dall’inizio: il fatto che l’establishment repubblicano, su cui i democratici tanto contavano, si sarebbe invece stretto intorno a Trump nel momento decisivo. Ben sapendo di non potersi permettere alcuna spaccatura in materia; anche perché, nel bene e nel male, “The Donald” dovrà essere il loro candidato nel 2020.
Ma, in definitiva, “ex malo bonum”. Ci sono mille motivi veri a disposizione dei democratici nella loro battaglia contro l’attuale presidenza, mille “gates”da utilizzare; mentre quello russo, per parafrasare Berlinguer, ha oramai “perso la sua spinta propulsiva”.