Osservatorio internazionale: Israele, Turchia/UE, Arabia Saudita, Russia, GB

ISRAELE

Elezioni e dopo elezioni

Le elezioni israeliane dei primi di marzo – le terze nello spazio di un anno – hanno registrato spostamenti minimi: due/tre seggi in più per Netanyahu, due seggi in meno per Gantz. Un ulteriore calo di seggi per la coalizione socialista ( maggioranza assoluta vent’anni fa; oggi al 5 %). Il tutto compensato, almeno parzialmente, da un guadagno di tre seggi per la lista araba ( frutto di una partecipazione elettorale  in forte crescita: 65/70% degli aventi diritto; livelli solo di poco inferiori a quello dei votanti ebrei).

Per gli osservatori superficiali, la vittoria definitiva di Netanyahu contro un avversario da cui lo separavano solo questioni personali. Certo, non aveva raggiunto la maggioranza assoluta ma l’avrebbe comunque ottenuta: attirando a sé qualche deputato della lista Blu e bianco, o in altri modi più spicciativi.

E, invece, tutto è fermo. In uno scontro dai toni sempre più violenti. Gantz, oggi sotto scorta per le violenze minacciate e anche fisicamente subite, che accusa Netanyahu – richiamandosi espressamente alla vicenda di Rabin – di “preparare una guerra civile per fini personali”. E BIbi replica, parlando di “un complotto ordito contro il popolo e contro la democrazia”.

Non siamo alla lite tra compari e su questioni di potere. Siamo ad un confronto sulla natura stessa della società israeliana. E, guarda caso, in questo scontro, viene coinvolta,  a sostegno di tutti e due gli schieramenti, la lista araba, anche se ufficialmente considerata fuori dall’arco costituzionale.

E’ contando sul suo appoggio che Gantz ha presentato alla Knesset una legge in nome della quale chi è rinviato a giudizio per reati gravi non può fare il primo ministro; e  può rivendicare la candidatura alla guida del paese in nome della maggioranza di cui può disporre in parlamento. Ed è per impedire questa alleanza che lo stesso Netanyahu ha addirittura negoziato con esponenti della lista, promettendo in cambio sostanziosi interventi economici a vantaggio delle zone a maggioranza araba del paese.

Episodi ? Aperture tattiche di un gioco politico tutto interno alla comunità ebraica ? Nelle intenzioni delle destre certamente sì: per loro Israele è lo stato degli ebrei e per gli ebrei dove gli arabi sono una minoranza aliena e tollerata. Ed è anche lo stato dove l’ortodossia religiosa ha sostituito il sionismo come principio identitario.

Ma  è proprio su questo punto – sull’identità stessa dello stato ebraico – che si sta giocando oggi la partita. Su cui, attenzione, è impegnata, senza riserve, la comunità araba. Non a caso il suo leader, Ayman Odeh, ha chiuso la sua campagna elettorale non a Nazareth ma a Tel Aviv, raccogliendo un certo numero di consensi nel vecchio elettorato laburista.

Un segnale per i palestinesi dei territori occupati e di Gaza, senza stato, senza classi dirigenti degne di questo nome e senza diritti ? Apparentemente no. Siamo in due mondi diversi e separati. Ma in prospettiva sì; perché questi due mondi sono popolati da milioni e milioni di persone. E questo, o prima o poi, conta.

TURCHIA/UE

Un non negoziato rivelatore

Il negoziato tra Ue e Turchia si è chiuso, com’era prevedibile, con un nulla di fatto. Erdogan voleva due cose. Da una parte l’appoggio dell’Europa ( aveva già chiesto quello della Nato; ma da lì solo parole di simpatia) nello scontro con la Russia o quanto meno un suo impegno diretto nella mediazione. Richieste rifiutate; ma nel contempo superate dalla tregua concordata con Putin. Dall’altra, e soprattutto, il rinnovo dell’accordo raggiunto con la Merkel nel 2015: sostanzialmente più soldi e una maggiore apertura in tema di visti. Come strumento di pressione, la minaccia e l’avvio di una nuova Apocalisse: “apriamo le frontiere e vi inonderemo di profughi”.

Chiedeva poco e minacciava molto. Ma non ha ottenuto nulla. La Merkel sarebbe stata disposta a dare qualche centinaio di milioni in più  o direttamente al governo turco o, in subordine, ai profughi ( quelli rimasti in Turchia, naturalmente ). Ma è stata subito zittita: “sarebbe una cosa immorale”, gli hanno detto in coro. Una reazione ammirevole ? Mica tanto. Perché questa improvvisa esplosione di moralità è dovuta al fatto che la bomba atomica minacciata da Erdogan si è rivelata, di fatto, una bomba carta. Magari non per la Grecia; ma sicuramente per tutti gli altri paesi europei.

E si è rivelata una bomba carta perché nessuno, dico nessuno dei profughi che si ammassano davanti ai reticolati greci entrerà in Europa. Perché non c’è nessuna foto di bambino morto a crearci squisite emozioni; solo migliaia di persone senza identità. Perché non so bene  quale illustre rappresentante delle istituzioni europee ( ma uno vale l’altro) ha dichiarato che la frontiera greca è la linea del Piave a difesa dell’Europa. Perché dall’altra parte del reticolato ci sono una serie di uomini armati in cui è difficile distinguere i  militari del Frontex, i poliziotti e i militari e i paramilitari di Alba dorata; chi spara e chi si limita all’uso dei lacrimogeni. E, infine, perché, in tutta Europa, il corridoio sinora semiaperto all’entrata dei “rifugiati”si sta inesorabilmente chiudendo; in linea di fatto ma anche di diritto.

Non sprecate, a questo punto, inutili indignazioni. Questa è la situazione. Meglio che questa appaia così com’è e senza coperture ipocrite. A suo tempo, ci avevano raccontato che i pattugliamenti , respingimenti, accordi con tagliagole statuali e tribali servivano a salvaguardare gli immigrati dalle grinfie degli scafisti, mercanti di carne umana e via discorrendo. Ma da oggi in poi, come dice la pubblicità del Prostamol, “non ci sono più scuse”.

ARABIA SAUDITA, RUSSIA E ALTRI

L’intossicatura da petrolio e i suoi effetti collaterali

Gli Stati Uniti hanno raggiunto negli ultimi anni la piena indipendenza energetica: petrolio più gas. Il che ha eliminato la loro vecchia dipendenza dai paesi del Golfo e li ha portati ad usare ogni mezzo per sottrarre alla Russia quel mercato europeo per lei essenziale.

Una minaccia esistenziale-politica per l’Arabia saudita ed economica per la Russia; il che le ha portate – magari temporaneamente l’una contro l’altra armate – ad aprire i tubi e a inondare il mondo di petrolio. Con il risultato di portare in un battibaleno il prezzo al barile da 60 a 30 dollari.

L’obiettivo è di bloccare lo sviluppo dell’industria petrolifera americana ( a 30 dollari a barile saltano un’infinità di piccoli e medi produttori; e con ciò la convenienza ad investire) per poi sedersi e trattare.

Nel mondo di oggi, tutto questo si chiama brinkmanship: tutti sull’orlo del precipizio; tutti obbligati a fermarsi, guardarsi intorno e discutere. Ma nel mondo dell’altro ieri tutto questo si chiamava ”muoia Sansone con tutti i filistei”. Un esercizio che non dovremmo permetterci; anche perché molti personaggi che non appartengono a nessuna delle due categorie, subiranno in pieno gli effetti collaterali dello scontro.

Pagheranno i contendenti: a 30 dollari al barile, l’Arabia saudita e i suoi sodali dovranno rinunciare ai loro progetti faraonici e ad elargizioni pubbliche necessarie per il mantenimento del consenso interno. In quanto alla Russia, i suoi stessi dirigenti dichiarano di non potere resistere agli impatti negativi sulla loro economia per più di 5/6 anni.  In America i titoli petroliferi sono crollati  e si sono fermati gli investimenti; anche se Trump è contento perché sono scesi i prezzi della benzina.

Fuori, il cielo è uniformemente scuro. Per una serie di paesi produttori tutti del cosiddetto terzo mondo: Iran, Venezuela, Libia, Nigeria non sono in grado di vendere il loro petrolio al di sotto del limite dei 45/50 dollari; per loro, una catastrofe. Gli altri produttori di materie prime assistono, da tempo, a un calo dei loro prezzi; per loro una crisi seria e non di breve periodo.

Un vantaggio allora per i consumatori e per l’Europa ? in tempi normali sì. Ma non oggi, Non in un contesto di recessione mondiale in cui il consumo di petrolio è, e rimarrà stagnante. E in cui il suo basso prezzo avrà il solo effetto di bloccare lo sviluppo delle energie alternative e la stessa azione a favore del cambiamento climatico.

C’è solo da sperare, allora, che la guerra finisca presto. Per il ripensamento dei contendenti. O magari per la scomparsa politica di uno di loro; il cui nome comincia con la T…

REGNO UNITO

Follie da Coronavirus.

Boris Johnson ha chiuso le porte agli italiani. Prima ai camerieri e agli aspiranti pizzaioli. Dopo perché portatori di contagio. Nel contempo però ha dichiarato che il coronavirus è una semplice influenza. E che non c’è da preoccuparsi. Ragion per cui la partita Liverpool/Atletico Madrid si  è svolta con lo stadio pieno e con la presenza festante e abbracciante di 5000 tifosi madrileni ( leggi provenienti da un’area già colpita dal contagio.

Perché ?

CAZZEGGIO ( E ANCHE VOLGARE…)

L’Economist è il sancta santorum dell’ordoliberismo; e come tale è obbligato a essere serioso; e anche un tantino dogmatico. Ma è anche un giornale inglese; e propria di quel popolo è la necessità di combinare la seriosità con la stravaganza e la buffoneria.

In quanto tale ospita le statistiche più esaurienti assieme a quelle bizzarre e  più inutili. Una di queste riguardava ( cito a memoria) le caratteristiche delle varie nazioni: cognome più usato, sport preferito, roba così. Ne cito due: perché affrontano, su fronti opposti, due interrogativi che, su fronti radicalmente diversi, sono radicati al fondo della nostra psiche di europei.

La prima è: quale è la nazione  con il pene mediamente più lungo ? E qui la risposta è, nell’ordine: Venezuela, Colombia, Bolivia.

La seconda è; quale è la nazione con il più alto quoziente d’intelligenza ? E qui la risposta è, sempre nell’ordine: Cina, Norvegia, Giappone.

Se c’è qualcuno tra voi in grado di smentire l’Economist, lo faccia qui e ora. Se no taccia per sempre; magari per meditarci sopra.

Risultato immagini per Boris Johnson  e Netanyahu immagini

Fonte foto: New Europe (da Google)

 

 

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