Il nodo del Caucaso e l’Eurasia in bilico

La coppia Biden-Harris potrebbe rendersi protagonista di una revisione della strategia euroasiatica degli Stati Uniti: ciò, almeno potenzialmente, potrebbe tradursi in una maggiore aggressività antirussa e anticinese. Se così fosse, le ricadute sui fragili equilibri caucasici e dello spazio continentale potrebbero essere tutt’altro che auspicabili.

Duemila militari russi si interpongono tra le forze armene dell’Artsakh e le forze azere: queste ultime hanno riconquistato porzioni consistenti del territorio del Karabakh, rivendicato sin dallo sgretolamento dell’Unione Sovietica (Figura 1). Privi del deterrente della forza d’interposizione russa o di un’alternativa altrettanto consistente, i precedenti accordi mediati tra le parti non erano riusciti in alcun modo a fermare i combattimenti tra le due fazioni, protrattisi per circa un mese e mezzo, al prezzo di oltre cinquemila morti.

I presupposti ideologici della guerra del Karabakh (Figura 2) collimano con i presupposti che hanno innescato – pur avendo ognuna di queste guerre delle specifiche peculiarità – le guerre cecene, la guerra tagica, le guerre d’Abcasia e d’Ossezia, la guerra di Transnistria e la guerra d’Ucraina. Sarebbe infatti assai difficile immaginare ognuna di queste guerre senza l’esasperazione ideologica ed identitaria che ne ha reso possibile la detonazione. Tra le conseguenze del crollo dell’Unione Sovietica si annovera la condizione di incertezza e di conflittualità permanente che interessa gran parte dei confini dell’odierna Federazione Russa e la sua instabile sfera d’influenza post-sovietica (Figura 3).
In Armenia la firma dell’accordo di pace del novembre 2020 viene considerata un tradimento del primo ministro Nikol Pashinian – che si è assunto la piena responsabilità delle implicazioni dell’accordo mediato dalla Federazione Russa – e la ratifica di una disfatta. L’opposizione chiede compatta le dimissioni del governo – da cui si sono già dimessi alcuni ministri -, alcuni invocano addirittura un governo di militari.

Posando forme e misure del proprio intervento, Mosca non ha mancato di fare i propri calcoli, non disdegnando l’indebolimento politico del filo-occidentale Pashinian : tuttavia, senza accordo e senza militari russi nel Karabakh, per l’Armenia la disfatta sarebbe stata verosimilmente totale. Militarmente, la superiorità azera è stata netta, resa tale soprattutto dai sistemi di puntamento elettronico e dai droni di fabbricazione turca e israeliana. Questi ultimi sono stati abbattuti in varie circostanze dai sistemi antidrone della Federazione Russa impiegati a ridosso del confine armeno-turco ma non nel territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian.
Oltre a quelle tra Federazione Russa e Turchia, nel conflitto del Karabakh si sono inserite anche le crescenti tensioni tra quest’ultima e la Francia: in ragione di ciò quella dell’Eliseo è apparsa la diplomazia più propensa a dare sostegno, anche militare, all’Armenia. Nella contrapposizione ormai frontale con Parigi il presidente turco Erdogan si è addirittura appellato a tutto il mondo islamico chiedendo di boicottare i prodotti francesi.

Il nuovo congelamento del conflitto del Karabakh ha per il momento scongiurato una guerra caucasica di proporzioni più ampie. Rispetto a questa possibilità il presidente iraniano Hassan Rouhani si è espresso in modo molto netto, sostenendo la necessità di “prestare attenzione a che la guerra tra Armenia e Azerbaigian non si trasformi in una guerra regionale”. In generale, il posizionamento dei paesi ex sovietici orientati all’Alleanza Atlantica è apparso volto al sostegno dell’Azerbaijan ed in sintonia con la politica turca. Malgrado ciò che potrebbe suggerire il retaggio religioso, la Georgia – guardando con sospetto la comunità armena che vive all’interno dei suoi confini – ha espresso una posizione di sostegno all’Azerbaijan, mentre l’Iran – innervosito dalle intese tra Baku e Tel Aviv – seppur con un tentativo di equidistanza tra le parti è apparso come da tempo più vicino a Erevan.

Teheran certamente non apprezza il fatto che Israele abbia un rapporto stretto con un paese confinante, a cui oltretutto l’Iran è legato dal retaggio sciita e da circa venti milioni di cittadini iraniani turcofoni di etnia azera localizzati in gran parte nell’area settentrionale del paese.

L’Azerbaijan è un paese-cerniera tra il Caucaso e l’Asia Centrale: tra i sogni nel cassetto di Baku e di Ankara c’è il ricongiungimento del territorio azero sia con la porzione di Karabakh ancora formalmente armena – russa nella sostanza – sia con l’exclave azera del Nakhcivan – stretta tra Armenia, Turchia ed Iran – che Ankara conta di poter a breve rifornire di gas turco, alternativo, almeno in parte, a quello iraniano.
Ricongiungere il proprio territorio con quello azero, senza l’ostacolo armeno, ma soprattutto senza quello russo, metterebbe la Turchia nella condizione di proiettarsi direttamente sul Caspio e di poter egemonizzare con più facilità il centro-Asia postsovietico. Come confermato dall’ambasciatore turkmeno ad Ankara già da tempo esistono progetti per sviluppare corridoi di trasporto volti a facilitare i collegamenti tra la Turchia e l’Asia Centrale, escludendo almeno in parte le rotte che attraversano l’Iran. Turchia e Iran si trovano infatti contrapposte da un’importante competizione commerciale per i mercati dell’area in questione, una regione che Ankara considera prioritaria nella propria strategia. Una strategia ben poco compatibile con il ruolo di Mosca nello spazio post-sovietico meridionale.
Quello del Karabakh è solo l’ultimo dei fronti aperti dalla Turchia. Ankara si trova infatti coinvolta militarmente in numerosi fronti caldi o aree altamente instabili: Mar Egeo (Cipro e isole greche), Libia, Sudan, Siria settentrionale (Figura 4), Iraq settentrionale, Somalia. L’ipertrofia militare del proprio interventismo (Figura 5) potrebbe procurare alla Turchia consistenti problemi sul fronte politico interno. Benché sostenuta economicamente dall’estero – in particolare dal Qatar – la Turchia si trova a fare i conti con una seria crisi economica – per giunta aggravata dagli effetti della pandemia in corso – che ha costretto Ankara a svalutare notevolmente la lira turca e far crescere le proprie riserve di valuta estera e di oro.
Il mito di una Grande Turchia – egemone dall’Adriatico ai deserti della Cina occidentale e padrona del Corno d’Africa – è certamente la narrazione con cui le autorità turche intendono dissimulare il calo del consenso interno e le incertezze che si scorgono all’orizzonte (Figura 6).

Insieme a Grecia e Cipro, la Francia appare il paese dell’Unione Europea più favorevole ad imporre sanzioni alla Turchia. Sostanzialmente simile, sostenuta dalla cancelliera Angela Merkel, la posizione della Germania. Conscio di questo rischio – aggravato dalla vulnerabilità dell’economia turca – Erdogan ha cercato di stemperare gli animi, evocando la chimera di una Turchia membro dell’Unione Europea e sospendendo le esplorazioni geologiche in acque greche alla vigilia del Consiglio d’Europa.
Una possibile affermazione dell’egemonia turca sul Mediterraneo orientale, su larghi settori del Vicino Oriente, del Caucaso e dell’Asia Centrale, assumerebbe un significato antitetico agli interessi cinesi, russi, iraniani: ma contrapposto anche agli interessi dell’Europa mediterranea. Non a caso Zbigniew Brzezinski, mente raffinata della politica estera statunitense, attribuiva una grande importanza al ruolo turco nel Vicino Oriente cosi come nel Caucaso e nell’Asia Centrale postsovietici, definendo gli interessi di Ankara “coerenti” con quelli degli Stati Uniti.
Analoga sembra essere la concezione della Turchia da parte della Gran Bretagna post-Brexit: a pochi giorni dall’annuncio di un consistente aumento delle proprie spese militari, la Gran Bretagna ha organizzato insieme ad Ankara le prime esercitazioni aeree congiunte della propria storia ed è prossima a rendere operativo un regime doganale di libero scambio con quest’ultima. Appena qualche giorno prima, il neodirettore dell’MI6 Richard Moore – già ambasciatore britannico ad Ankara – aveva fatto visita al consigliere di Erdogan İbrahim Kalin “per sviluppare la cooperazione tra Gran Bretagna e Turchia”. In sostanza anche Londra sembra guardare ad Ankara come un valido strumento in chiave antirussa e anticinese.

Se Cina e Turchia sono certamente legate da importanti accordi economici, è altrettanto vero che la proiezione dei rispettivi interessi nell’area centroasiatica appare difficilmente conciliabile. Qualcosa di analogo si può dire anche a proposito del rapporto tra la Federazione Russa e la Turchia, legate da importanti vincoli economici ed energetici, ma già ai ferri corti in Libia, in Siria, nel Mediterraneo orientale e nel Caucaso. Nonostante i legami economici, Mosca rappresenta per la Turchia il principale antagonista della propria strategia militare, praticamente in tutti gli scenari che questa contempla.
La presenza – accertata – di centinaia di combattenti jihadisti sul lato azero del fronte del Karabakh – insieme a quella di un certo numero di forze speciali dell’esercito turco – è valsa alla Turchia le accuse da parte dell’Armenia, della stessa Siria e l’irritazione della Federazione Russa. A rappresentare una minaccia per Mosca è anzitutto l’ideologia delle formazioni jihadiste, tanto più a pochi chilometri dalle proprie frontiere. “Non possiamo non essere preoccupati del fatto che il Caucaso meridionale possa diventare una nuova rampa di lancio per le organizzazioni terroristiche internazionali. [Dal Karabakh] i terroristi potrebbero muoversi in secondo momento nei paesi limitrofi ad Armenia ed Azerbaijan, incluso la Federazione Russa.” ha commentato il direttore dell’intelligence russa per l’estero (SVR) Sergej Naryshkin,

Nel frattempo si attende che Joe Biden riveli al mondo le nuove mosse degli Stati Uniti verso l’Eurasia. Intervistato lo scorso gennaio 2020 dal New York Times, Joe Biden definiva Erdogan “un autocrate”, affermando la necessità di sostenere l’opposizione turca-curda e di “un approccio molto diverso” che faccia “pagare un prezzo” ad Erdogan. Nel 2014, allora vicepresidente degli Stati Uniti, si era scusato telefonicamente proprio con Erdogan, per aver affermato nel corso di una conferenza che la Turchia avesse sostenuto Daesh o altri gruppi di ispirazione jihadista coinvolti nella guerra di Siria.
La coppia Biden-Harris potrebbe rendersi protagonista di una revisione della strategia euroasiatica degli Stati Uniti: ciò, almeno potenzialmente, potrebbe tradursi in una maggiore aggressività antirussa e anticinese. Se così fosse, le ricadute sui fragili equilibri caucasici e dello spazio continentale potrebbero essere tutt’altro che auspicabili.

Fonte articolo: https://www.quadrantefuturo.it/paesi/il-nodo-del-caucaso-e-l-eurasia-in-bilico.html

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