La Nuova Crociata Occidentale contro la Libia ovvero la demolizione programmata di un ex Stato sovrano
La CIA è la nonna dell’ISIS ( Frei Betto )
La Libia, conclusa l’esperienza dello “Stato delle masse” – così veniva definita la Jamahiriyya popolare – si è trasformata da nazione indipendente e sovrana a “Stato fallito”. La possibilità di un intervento occidentale nella polveriera libica e l’intervento già in corso dell’Egitto meritano delle riflessioni che, almeno in parte, chiariscano la questione.
Cercherò di essere quanto più possibile sintetico mettendo a fuoco la posta in gioco di una nuova, possibile, aggressione imperialista.
La natura sociale della Libia gheddafiana
Il quarantennale governo di Gheddafi ha avuto una genesi storica alquanto complessa; pensare che la Libia popolare dal ’69 al 2011 abbia presentato, sempre e comunque, le stesse caratteristiche, è errato. La natura sociale dei governi muta e con essa cambiano i rapporti fra le classi.
Quando Gheddafi andò al potere nel 1969 rovesciando la monarchia filo britannica di Re Idris ereditò uno Stato vassallo dell’occidente ed in particolare dell’imperialismo britannico. Gheddafi aveva quindi il problema di restituire alla Libia sovranità ed indipendenza nazionale, e per fare questo chiuse le basi militari inglesi e nazionalizzò i settori strategici industriali di quel paese ( sostanzialmente l’industria petrolifera ). Nonostante il giovane ufficiale nasseriano fosse ideologicamente anticomunista riposizionò quello che viene chiamato lo Stato delle masse – definizione data nel Libro Verde – fra gli Stati non allineati vicini all’Unione Sovietica.
Gheddafi non si limitò a rendere la Libia uno Stato nazionale forte ed indipendente ma abbracciò la causa di alcune importanti lotte antimperialiste: sostenne la lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese, osteggiò Israele e l’imperialismo sionista, appoggiò in Europa il popolo basco e quello irlandese contro le potenze coloniali di Spagna e Inghilterra. Meriti indiscussi che non possono essere cancellati dal revisionismo della sinistra occidentale. Dall’altra parte è innegabile che l’antimperialismo di Gheddafi presentò evidenti contraddizioni: non ci fu mai – a differenza di Cuba ed Algeria – la socializzazione dell’economia, le forze comuniste erano messe al bando e anche rispetto alla stessa Resistenza antisionista islamica il leader libico aveva delle titubanze. Nel 1978, Musa Al Sadr fondatore del Movimento dei diseredati libanese, sparisce in Libia, e dietro la sua morte pare che ci sia stata la mano di Gheddafi; un fatto (criminoso) che il mondo sciita non gli ha mai perdonato.
Il governo di Gheddafi era indubbiamente popolare e, nel contesto nord-africano, era un baluardo dell’anti-razzismo. Dopo il 1991, caduta l’Urss, il leader libico abbandona il discorso antimperialista in nome dell’edificazione di un mondo multipolare, quindi la sua prassi politica si sposta decisamente – ed erroneamente – verso destra. L’ormai ex nasseriano si riconcilia con l’occidente ma non rinuncia a costruire l’Unione Africana, un progetto importante che avrebbe emancipato il continente dagli aguzzini del Fondo Monetario Internazionale di cui Gheddafi fu – merito suo – fiero avversario. Il socialismo islamico esposto nel Libro Verde viene messo da parte e la Libia diventa un paese capitalistico sia pure con una forte presenza dello Stato nell’economia. I diritti sociali sono estesi ai lavoratori migranti che trovano nello Stato delle masse un rifugio sicuro dal razzismo colonialista dei governi centro africani. Possiamo allora definire la Libia come uno Stato borghese ma inclusivo, certamente individuato come punto di riferimento, in quanto a giustizia sociale, dai popoli africani.
L’ultimo Gheddafi non è più un antimperialista ma il suo governo mantiene caratteri progressisti, rifiuta il neoliberismo e garantisce alcuni effettivi spazi di democrazia dal basso. Utilizzando delle categorie interpretative a noi più vicine, potremmo dire che lo “Stato delle masse” era guidato da un governo di centro sinistra e interclassista pronto però a radicalizzarsi qualora l’imperialismo avesse ripreso a farsi sentire.
Alla fine è proprio questo che è avvenuto e il fondatore dello Stato delle masse ha saputo morire armi in pugno contro i predoni occidentali. Chi scrive, pur essendo culturalmente lontano dai vari nazionalismi anche radicali, glielo ha sempre riconosciuto e gliene rende merito.
Rivoluzione popolare o controrivoluzione colonialista ?
La guerra civile del 2011 fu tutt’altro che una mobilitazione popolare interna al così detto risveglio islamico ( mi riferisco principalmente alla Tunisia ed all’Egitto ), certo la Libia aveva una sua classe borghese e antiproletaria ma un processo rivoluzionario anticapitalistico presenta ben altre caratteristiche. Nel tentativo – purtroppo riuscito – di stroncare l’importante progetto dell’Unione Africana, gli imperialismi di Inghilterra e Francia spalleggiati da Usa ed Israele contrapposero la monarchica Cirenaica al governo progressista e laico di Tripoli.
La caduta di Gheddafi per mano di bande mercenarie provenienti principalmente dal Qatar, ha segnato la fine della Libia in quanto Stato sovrano. Si è trattato di un processo controrivoluzionario fatto in nome dell’imperialismo e con alta la bandiera della monarchia di Re Idris. E’ doveroso aggiungere che la sinistra occidentale non comprese la natura politica di questo processo dando prova di scarsa lungimiranza; simili errori difficilmente si perdonano.
La situazione attuale è figlia di questa controrivoluzione neoliberista. Chiarite queste due questioni cruciali – (1) la natura sociale del gheddafismo e (2) la natura sociale e politica della “rivolta” che l’ha rovesciato – si può parlare del disastro recente facendo un piccolo, ma significativo, passo in avanti.
L’ultima carta dell’occidente: Khalifa Haftar
Nei paesi coloniali gli eserciti il più delle volte costituiscono un vero e proprio “partito unico delle classi dominanti”. Credo che tutti sappiano come, nei momenti più difficili, le potenze imperialiste, per stabilizzare paesi in rivolta, abbiano fatto ricorso a quei settori più felloni e mercenari interni al potere militare. Detto, fatto: la Libia è una polveriera e, nel 2014, Khalifa Haftar prende con la forza il potere. Un articolo comparso su L’Espresso – gruppo editoriale decisamente ambiguo – ci dà delle notizie che trovano riscontro anche altrove. Leggiamo:
“Ma chi è, esattamente, Khalifa Haftar? Nato nel 1943 nell’est della Libia, come militare prende parte al colpo di Stato che porta al potere Gheddafi nel 1969. È ottimo il rapporto con il Colonnello, che un giorno ha detto di lui: «Era un figlio per me. E io ero il suo padre spirituale». Gheddafi gli fa fare carriera e gli dà le chiavi della guerra con il Chad. Che però si rivela un disastro. Haftar viene fatto prigioniero in Chad nel 1987, e il rapporto con Gheddafi si tramuta in aperta inimicizia. Nel 1990 viene rilasciato grazie a un accordo con gli Stati Uniti, e così se ne vola in America, dove prende la cittadinanza e rimane quasi 20 anni, mentre in patria viene condannato a morte.
Gli Stati Uniti lo portano nei sobborghi del nord della Virginia, non lontano da Washington, ma soprattutto vicino a Langley e dunque alla sede della Cia, con cui infatti in tutti questi anni collabora.
Nel 2011 Haftar è di nuovo in Libia, per prendere parte alla rivolta anti-Gheddafi. Torna poi in Virginia «a godersi i nipotini», ma poi rieccolo appunto in patria nel 2014, perché i suoi amici, ha raccontato, continuavano a ripetergli di avere bisogno di «un salvatore». Nel parlamento libico intanto avviene una specie di ribaltone. Le forze filo-islamiche si impongono e vogliono un nuovo premier. Per Haftar arriva l’ora delle decisioni irrevocabili. Il 14 febbraio appare in un messaggio televisivo in cui dichiara unilateralmente dissolto il parlamento. Ma non è in grado di imporsi con la forza, e infatti il primo ministro Ali Zeidan definisce «ridicolo» il suo tentativo’
http://espresso.repubblica.it/internazionale/2015/02/18/news/haftar-il-nuovo-gheddafi-amico-della-cia-1.200079
Insomma, se lo dicono loro che il signor Haftar è in odor di CIA possiamo dire che è un indizio non da poco… Del resto – e credo che questo sia difficilmente smentibile – le stesse cose vengono diffuse da vari siti di controinformazione. Nulla da eccepire, le prove sono moltissime: Haftar è un uomo degli USA, per molti aspetti molto simile al generale egiziano, il golpista El Sisi, di cui abbiamo già parlato in altri articoli.
Allo stato attuale la Libia si trova divisa in questo modo: il gruppo di Al Bayda e Tobruk unisce le forze anti-islamiche ed il generale Haftar. La coalizione di Tripoli, invece, è legata alla Fratellanza Musulmana e prende il nome di Alba Libica. L’ISIS pare essersi inserita all’interno di questo conflitto tra forze chiaramente di destra ed antipopolari.
Che dire ? Uno scenario molto più che complesso e – come il lettore attento avrà capito – c’è un grande assente: il movimento popolare ed antimperialista libico.
L’Egitto interviene ma chi c’è dietro ?
In altri articoli ho spiegato l’orientamento filoisraeliano del governo illegittimo di El Sisi, un governo che fino ad ora è stato custode degli interessi della grande borghesia sionista, per questo, se dopo l’esecuzione di 21 copti egiziani, i militari di El Cairo si lanciano in un’operazione militare è bene farci la domanda: cui prodest ?
Alcune riviste di geopolitica – in realtà molto ambigue – come ad esempio “Socialismo Patriottico”, sostengono, sbagliando in modo clamoroso, il carattere progressista di questo intervento militare che – a loro dire – consolida il ruolo di potenza regionale dell’Egitto. Ma cosa rimuovono questi analisti? Semplice, non prendono in esame la natura di classe – borghese – del governo di El Sisi ripiegando su analisi superficiali. Facciamo un esempio: l’Argentina è sempre stata una potenza regionale sudamericana ma, se dal ’76 all’ ’83, avesse invaso un altro paese dell’area tutti ci saremo fatti la domanda “I generali agiscono con il consenso di Washington?”.
Nello stesso modo, oggi noi dobbiamo chiederci:”El Sisi ha avuto il lasciapassare di Tel Aviv e d Washington?”
Un analista esperto – e un po’ meno superficiale dei geopoliticisti nostrani – avrebbe subito notato che l’Egitto è uno degli sbocchi dell’industria bellica di Israele. La retorica dei militari israeliani a seguito dell’aggressione contro il popolo di Gaza – aggressione a cui hanno coraggiosamente resistito i combattenti di Hamas – mirava, fra le altre cose, proprio a dare vigore alle multinazionali sioniste che smerciano armi facendo entrare Israele nella ‘top ten’ dei produttori mondiali di materiale bellico.
Il marxista internazionalista Charles – Andrè Udry ha notato che:
“A suo modo, questa retorica, segue le tracce dei “successi militari” della cosiddetta operazione “Margine protettivo” della vantata “Cupola di ferro” (Iron dome: sistema d’arma mobile per la difesa antimissile, ndr) che ha neutralizzato la quasi totalità di missili di Hamas. Questo “Dome” è esportabile, per lo meno in parte, verso diversi paesi. Tra l’altro nel quadro della lotta del dittatore Abdel Fattah al-Sisi contro i Fratelli musulmani, gli omaggi che gli rende il governo Netanhyau non poggiano solamente sulla riconoscenza per la distruzione dei “tunnel” cosiddetti di Hamas sulla frontiera egiziana e per i suoi sforzi diplomatici che vengono presentati in opposizione a quelli di Kerry. La potenza economica dei militari egiziani costituisce uno sbocco in crescita per le armi israeliane. La camera di commercio Franco-israeliana (Ccfi) indicava, nel giugno 2014, che le consegne di materiale elettronico erano state stabilite dal 2010. Con Sisi possono riprendere”.
Di certo gli affari sono ripresi bene dato che negli ultimi cinque anni Israele ha esportato materiale di sicurezza verso il Pakistan, l’Egitto, l’Algeria, gli Emirati Arabi Uniti ed il Marocco. Il quotidiano Haaretz ci dice che il governo sionista ha chiesto nel 2010 il permesso di fornire all’Egitto e al Marocco dei sistemi di ‘guerra elettronici’.
Che cosa deduciamo da tutto ciò? Direi tre cose: (1) l’Egitto più che una potenza regionale è – dalla morte di Nasser in poi – uno Stato coloniale e dipendente, (2) il vincolo Egitto – Israele non è stato rotto da Morsi ed El Sisi lo ha ora intensificato, (3) la borghesia sionista è stata abile a creare una serie di Stati vassalli arabi.
Gli affari per le multinazionali israeliane andranno bene? Aspettiamo prima di dare una risposta ma è chiaro a tutti che il capitalismo occidentale ha bisogno di conflitti come questo per superare le sue crisi sistemiche. Israele non è forse parte integrante del blocco capitalista occidentale e della NATO ? Certo che sì, e l’ISIS si trova nel posto giusto al momento giusto.
Molti quando parlano di Israele sottovalutano la penetrazione dei capitali ebraici, eppure, in virtù di ciò, l’imperialismo sionista tiene sotto scacco molti paesi europei (come ad esempio la Francia e anche l’Italia) e ha consolidato un suo vecchio progetto: la penetrazione in Africa.
Scusate, ma la Libia popolare non era la chiave per l’emancipazione del continente africano? E con chi si scontrerebbe l’imperialismo israeliano in Africa? Ovvio, con la Cina, avversaria non solo di Tel Aviv ma anche e soprattutto degli Usa, quella stessa Cina che in Africa, anche e soprattutto attraverso la collaborazione con Gheddafi, aveva iniziato una graduale penetrazione economica e commerciale.
Ecco che si spiegano molte cose. La confusione sotto il cielo è tanta ma la situazione – contraddicendo le celebri parole di Mao – non è eccellente ma disastrosa.