La borghesia ‘’cosmopolita’’ e le sue derivazioni politiche attaccano il nazionalismo democratico considerandolo fratello gemello del populismo. Le cose sono diametralmente opposte; la sovranità è il terreno dove matura, dalla Rivoluzione francese in poi, la dialettica destra/sinistra. La de-globalizzazione del mondo non segna la fine dell’imperialismo, ma conferisce nuova attualità a quella relazione dialettica di cui sopra
In una recente conversazione, Noam Chomsky indica al presidente messicano Lopez Obrador qual è il nemico principale: il presidente nordamericano, Donald Trump. La sinistra nazionalista latino-americana ha inquadrato nei vertici USA l’avversario della propria sovranità, là dove la “sinistra bianca” europea scimmiotta il post-modernismo degli accademici anglosassoni. Leggiamo (dallo spagnolo) Chomsky:
“Trump es un gobernante habilidoso y demagogo que ha sabido conectar con los “medios legítimos” de una parte de su sociedad, “como antes lo hicieron Hitler o Mussolini” 1
La caratteristica di Trump è quella d’aver ‘’nazionalizzato’’ la demagogia populista, globalizzata fin dai tempi dell’amministrazione Reagan. Se la famiglia Bush ed i Clinton hanno mondializzato l’arroganza USA, Trump l’ha riportata entro i confini nazionali trasformando in neofascismo evangelico un piano di conquista pan-planetario.
In America Latina la ‘’politica del pendolo ‘’ sta ridando linfa alla sinistra nazionalista: il Venezuela resiste, Cuba continua a rappresentare un modello di giustizia sociale, i neo-peronisti vincono in Argentina. La de-globalizzazione, per le popolazioni latino-americane, si traduce in una linea decisamente nazional-popolare e semi-rivoluzionaria, non c’è spazio per il populismo anti-popolare e reazionario dei conservatori.
Il governo siriano ha respinto l’offensiva dello Stato profondo USA, dimostrando che una ideologia fortemente anti-occidentale (il baathismo panarabo) impedisce alle centrali di persuasione “post-moderniste” di corrompere i ceti popolari. Leggiamo cosa scrive il giornalista Thierry Meyssan:
‘’È quindi opportuno prendere molto seriamente il cambiamento avvenuto ad Ankara in occasione del terzo anniversario del tentativo di uccisione del presidente Erdoğan a Marmara e dell’aborto di colpo di Stato che ne è seguito. La via dei Fratelli Musulmani ha portato la Turchia in un vicolo cieco di orrore e violenza. Dopo essersi pensato “protettore” della Confraternita, l’AKP deve tornare alla separazione fra morale dei costumi e politica, nel solco di Atatürk. Non è una scelta, bensì una necessità vitale’’ 2
Fallito il piano imperialista neo-ottomano, Ankara s’è riproposta come nazione di confine fra Oriente ed Occidente; alterna militarismo ad antisionismo e, fra mille contraddizioni, rivendica tanto l’appartenenza alla Nato quanto il diritto di comprare armi da Mosca. Il ‘’modello’’ capitalista di Erdogan non è più il neoliberismo anglosassone, ma il capitalismo corporativo ed anticomunista islamico. In questo scenario, di abbandono del ‘’cosmopolitismo’’, il nazionalismo turco è radicalmente conservatore.
L’Iran post-rivoluzionario ospita il conflitto inter-establishment decisivo per le sorti mediorientali: la borghesia del bazar contende agli antimperialisti la guida del paese. Khamenei è un fine analista geopolitico, ma in politica interna ha commesso l’errore madornale d’isolare l’ex presidente Ahmadinejad consumando la frattura dei nazionalisti persiani con lo sciismo antimperialista; la fazione dei basij, da almeno cinque anni, è in rotta di collisione coi pasdaran. Rispetto alla Siria ed ai paesi sudamericani, Teheran non dà grandi margini di manovra ai socialisti (sharitiani) rimanendo organica al comunitarismo islamico semi-capitalista. Il nazionalismo iraniano rifiuta categorie come ‘’destra’’ e ‘’sinistra’’, ciononostante l’alleanza sciita con la sinistra (inter)classista sudamericana è strategica.
Il patriottismo post-rivoluzionario iraniano ha un nemico strategico: il nazionalismo conservatore di Erdogan. Negli stessi termini il populismo occidentale non ha nessun legame con le politiche nazional-popolari delle forze di centro-sinistra sudamericane. La demagogia ‘’trumpista’’, così come il ‘’sionismo laburista’’, è un prodotto mal digerito dell’establishment USA, l’ultimo espediente per fermare la transizione dal capitalismo globale a quello nazionale.
La guerra fra ‘’cosmopolitismo’’ (Clinton) e ‘’populismo’’ (Trump) non ha (ancora) indebolito lo Stato profondo, ciononostante spinge il nazionalismo democratico e semi-socialista (Obrador, Kirchner, Maduro e Khamenei) ad armarsi in vista della resa dei conti col ‘’nazionalismo’’ americanizzato e neofascista (Bolsonaro, Netanyahu, Duterte ed in parte Modi). L’imperialismo statunitense uscirà indebolito dalla riconquista della sovranità di molteplici paesi (Messico, Argentina e Turchia), mentre le organizzazioni socialiste e comuniste rilanceranno il conflitto capitale/lavoro. Il nazionalismo conservatore, nei prossimi anni, potrebbe diventare l’anello debole della piramide capitalista. Ha ragione l’analista messicano-libanese Alfredo Jalife-Rahme quando scrive: ‘’El verdadero nacionalismo soberanista del siglo XXI aspira a la universalidad, que no globalismo, de todos los seres vivientes de la creación y al reparto de los frutos de la Cuarta Revolución Industrial’’ 3. Patria, Stato sociale ed antimperialismo radicale (‘’universalismo’’ per dirla con Alfredo Jalife), soltanto così la de-globalizzazione diventerà vera alternativa.
https://www.jornada.com.mx/ultimas/politica/2019/08/12/amlo-el-politico-y-chomsky-el-academico-de-acuerdo-victor-flores-olea-7027.html
https://www.voltairenet.org/article207327.html
https://kenzocaspi.wordpress.com/2019/05/26/alfredo-jalife-rahme-26-5-19-el-nuevo-nacionalismo-segun-foreign-affairs-alfredo-jalife-rahme/
Fonte foto: FarodiRoma (da Google)