“Siamo quelli che reclamano per la piena libertà del mondo, per l’uguaglianza dei popoli, per il rispetto alla sovranità delle nazioni. Si, ci chiamano estremisti, insorgiamo contro l’impero, insorgiamo contro il modello di dominazione”. Il 5 Marzo 2013 moriva l’ultimo rivoluzionario, e nessuno a sinistra sembra volergli dedicare una riga. Hugo Rafael Chavez Frias, l’ideatore di una formula originale di applicazione del Socialismo del XXI Secolo ai Paesi in via di sviluppo sotto giogo imperialistico, scompare per una malattia misteriosa, che lascerà una sequela di sospetti, rimanendo scolpito in lettere di fuoco nella storia.
Non certo un grande pensatore, ma un uomo di azione e di grande carisma, ex colonnello dei paracadutisti, costruisce un modello i cui capisaldi sono la sovranità nazionale, tutelata da qualsiasi ingerenza esterna (tanto che la rivoluzione si chiama “bolivarista”, richiamando El Libertador Simon Bolivar, il principale esponente della decolonizzazione sudamericana), il controllo statale delle principali risorse economiche del Paese, per liberarlo dal giogo imperialista, la partecipazione dal basso alla vita sociale e politica (con le famose Misiones per l’autogestione comunitaria dei servizi sociali, ma anche con il principio di “cittadinanza” inserito in Costituzione come potere autonomo insieme a legislativo, esecutivo e giudiziario), la giustizia redistributiva, la tutela dei popoli indigeni e dell’ambiente come principi fondamentali dell’organizzazione statuale.
In una singolare alleanza perversa, questo leader, il cui potente messaggio risveglierà l’intera America Latina dalla dipendenza neo-imperialista nei confronti degli USA, aprendo gli spazi ad una avanzata della sinistra in tutto il continente, viene attaccato, oltre che dai suoi nemici naturali, anche da larghi strati della sinistra. Accusato in modo insensato di essere un dittatore, quando in Venezuela le elezioni sono così libere da poter bocciare un suo progetto di revisione costituzionale nel 1999, ed il controllo dei media non ha niente di più pervasivo di quello che vige in qualsiasi “democrazia” occidentale, accusato di non aver fatto abbastanza per promuovere la partecipazione dal basso, quando i primi esperimenti in tal senso li ha fatti lui, certamente lascia un fardello per certi versi problematico ed incompiuto. La gestione bolivariana dell’economia nazionale non è stata lungimirante, non vi è stata la necessaria diversificazione produttiva oltre il petrolio, indispensabile per creare quell’industria di sostituzione delle importazioni necessaria per superare il vincolo esterno, e quindi potersi dire realmente indipendenti. Il sostegno alla domanda degli strati più poveri della popolazione ha generato, in assenza di un incremento dell’offerta, una iperinflazione, che ha finito alla lunga per indebolire il sostegno al bolivarismo da parte del neonato ceto medio, prodotto dalle stesse politiche di contrasto alla povertà messe in campo. La lotta alla criminalità, una delle piaghe urbane più gravi del Paese, ha risentito di una certa demagogia del più debole che ha frenato le politiche di sicurezza. E’ scorso sangue, certamente, ma una rivoluzione, perché di questo si è trattato, non è mai un pranzo di gala. C’è stato un leaderismo sfrenato, certamente, ma Chavez non ha avuto il tempo di costruire una classe dirigente (come si vede dalle difficoltà del suo successore Maduro) ed ha dovuto supplire con il suo presenzialismo debordante, che ha finito per sfiancarlo ed anticipare la sua morte.
Però ogni critica, storicamente, deve essere contestualizzata alla realtà di un Paese che, al momento della presa di potere di Chavez, non era uscito da una condizione neocoloniale, in cui la gestione del potere era in mano ad una borghesia compradora, essenzialmente composta da latifondisti agrari ed affaristi/grandi commercianti urbani, che traeva la sua linfa dal rapporto stretto con la potenza neocoloniale, gli USA. La componente “illuminata” di tale borghesia, rappresentata politicamente dal filone betancourista di Accion Democratica, aveva da molto tempo esaurito ogni tentativo serio di progressismo: il suo ultimo esponente politico, Carlos Andres Perez, aveva aderito al Washington Consensus del FMI ed aveva ordinato all’esercito di sparare sui dimostranti, durante il sanguinoso caracazo. L’assenza di un proletariato industriale diffuso, oltre l’aristocrazia operaia dell’azienda petrolifera PDVSA, un sottoproletariato urbano enorme, alimentato dalle migrazioni dalle zone rurali e da forme precarie di urbanizzazione e di inserimento lavorativo, la repressione dei popoli indigeni, tenuti fuori a qualsiasi processo i integrazione nella società, non consentivano alla sinistra tradizionale di poter esercitare una azione significativa con mezzi democratici ed istituzionali. La demolizione dei ceti medi susseguente alla gravissima crisi economica degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta polarizzava la società, impedendo di avere il substrato sociale per immaginare un compromesso sociale democratico.
In una simile situazione, solo una rivoluzione, che per definizione è un atto violento, poteva risvegliare il Paese dalla profonda crisi e dalle gigantesche iniquità, in cui l’incapacità della sua borghesia nazionale lo aveva precipitato. Chavez ha rappresentato questa rottura, insieme agli altri ufficiali dell’MBR2000. Oggi il Venezuela, con tutti i problemi economici e sociali, indotti anche dalla brutale politica di embargo che gli USA hanno imposto per strangolare il Governo di Maduro, è un Paese più giusto, più libero, con più dignità, anche nello scacchiere internazionale. Gli uomini non gli hanno dato troppo onore, ma la storia gli ha dato ragione.