Se non mi sbaglio sull’ordine di qualche passaggio. Vediamo. Trump e Vance rifilano uno schiaffone a Zelenski. Al di là dell’aspetto estetico-mediatico, il significato politico è chiaro. Trump, espressione dell’imperialismo USA nudo e crudo dell’”America first”, non più bisognoso nemmeno della copertura ideologica, della dissimulazione della guerra nei nobili intenti tipica della comunicazione a stelle e strisce, accentua al massimo la presa di distanza dall’amministrazione Biden e da Zelensky (da non sottovalutare che Trump stia anche scoperchiando il vaso di Pandora della rete dell’agenza federale USAID). Dal suo punto di vista è logico. Capitalizza allo stesso tempo sia la guerra non vinta sul campo contro la Federazione russa sia la guerra vinta a mani basse contro l’Europa, trascinata in una guerra per procura per conto degli USA e ora ridotta ai minimi termini politicamente e prostrata anche economicamente, basti pensare al crollo industriale e alla crisi economica della Germania.
Il duro trattamento riservato a Zelensky in favore di telecamera, quindi, serve all’amministrazione Trump in primo luogo per accreditarsi come interlocutore diretto con la Russia. Questo non è soltanto logico dal punto di vista di Trump, è logico per gli Stati Uniti, visto che è stata, come era chiaro dal principio, una guerra tra Stati Uniti e Russia, avviata non da Trump ma da Biden, e quindi gli accordi li vogliono fare loro lasciando fuori i servi sciocchi.
Cosa vi aspettavate? Cosa si aspettava l’Europa, a proposito di servi sciocchi, dopo essersi fatta tirare dentro a una guerra per procura? L’accordo, ovviamente, non lo puoi fare dando a Putin del “macellaio”, come fece Biden; quello era ciò che serviva per farla, la guerra; ma per finirla dici a Zelensky: hai avuto anche troppo, adesso è arrivato il momento che ti fai da parte (eufemismo). Questo spiega anche perché i Dem abbiano schierato contro Trump una Kamala Harris versione esausta del politicamente corretto, miglior garanzia di perdere. I Dem non avevano il profilo per chiudere il conflitto ucraino, Trump sì. Per i Dem era preferibile perdere le elezioni, per gli Usa e per le sue classi dirigenti, anche. Così quella che è andata in onda dalla Stanza ovale è stata una dura riunione di affari, che fa stracciare le vesti a tanti che non hanno mai avuto, però, alcun problema fintanto che l’imperialismo USA è stato ammantato dell’ipocrita vestito della democrazia liberale; e nessun problema fintanto che la stessa impalcatura ideologica neoliberale, che ha promosso a valori assoluti l’Impresa e il merito, è stato abbracciato dalla sinistra di sistema.
Del resto sia Zelensky che Trump sono espressioni della risoluzione della sfera politica in quella estetica, e dietro a quest’ultima all’economica. Dopo il ceffone ricevuto a Washington, Zelensky vola dunque a Londra e incontra il primo ministro britannico laburista Starmer. Il giorno dopo arrivano a Londra anche i leader di 16 Paesi Ue, fra cui Giorgia Meloni, ed extra-Ue, oltre ai vertici dell’Unione e dell’Alleanza Atlantica. Infine, l’incontro tra il re Carlo III e Zelensky. Chiaro? Manco a dirlo, attenzione al protocollo e all’ordine dei colloqui: in casa degli inglesi, prima con Zelensky, e soltanto dopo con i leader europei. A questo è ridotta l’Europa politica. L’UK ha fatto la Brexit, ha spinto per la guerra contro la Russia giocandovi anche un ruolo strategico di primo piano, dopo di che riceve i leader europei soltanto dopo aver parlato con Zelensky. Certo bisogna intanto dire che nella guerra contro la Federazione russa combattuta in Ucraina il Regno Unito è sempre stato nella partita, anzi gli inglesi hanno gli scarponi sul terreno dall’inizio dell’ultima fase del conflitto avviata nel febbraio 2022 dall’invasione russa. Del resto il “Grande gioco” che contrappone Russia e Gran Bretagna è vecchio di secoli. Non soltanto dopo la Brexit, ma a maggior ragione dopo di essa, l’asse privilegiato del Regno Unito è con gli USA e con l’anglosfera. È quindi Londra il terminale di dialogo tra UE /Europa e USA, che deve garantire un assetto basato sul primato dell’anglosfera; che congeli per gli USA la perentoria condizione di colonialità dell’Europa, e allo stesso tempo consenta all’oligarchia europea di salvare nient’altro che l’apparenza e la faccia (solo perchè credono di averne ancora una), mentre si riposiziona nell’era del trumpismo. Altro non possono, non vogliono, né saprebbero fare.
Dal 1992 l’UE è accomodata in questa logica che costituisce il suo carattere originario. Quindi Zelensky va a Londra dopo i fatti della Stanza ovale con Trump. Abbraccio tra Zelensky e Starmer. Certo, perché gli inglesi giocano la loro partita e Zelensky deve in effetti capire quali margini reali ha (non molti, ma deve capire esattamente quali), quindi rimbalza sulle due sponde dell’anglosfera. USA e UK ovviamente si intendono bene, perciò l’apparente distanza della gestualità e del trattamento riservato al presidente ucraino da Trump e da Starmer si accorcia sul piano della sostanza politica. Verosimilmente l’UK entra in una doppia partita: dopo il nuovo assetto regionale del quadrante russo-ucraino, in primo luogo entra in gioco nel presidio militare dell’Ucraina occidentale (peacekeeping in neolingua), che potrà in futuro costituire una piattaforma per nuove provocazioni contro la Russia ampliata al bacino del Donbass, ovviamente secondo una soluzione “coreana” (sulla cui base, detto una volta ancora, il conflitto doveva e poteva essere evitato), i cui esatti confini non sono scontati. Ovviamente su questo piano gli anglo-americani dovranno affrontare i malumori russi, da gestire nel quadro di un sistema di reciproche rassicurazioni di non semplice definizione.
Il secondo piano, strategicamente centrale, è quello dell’intelligenza artificiale, che vede Londra in procinto di diventare il maggior punto di snodo nel continente europeo delle aziende statunitensi. Quindi Trump e Starmer si intendono senza problemi; il ceffone dell’uno e l’abbraccio dell’altro a Zelensky non sono gesti incompatibili, non sono neanche lontani, se dall’estetica ci si sposta sul piano della sostanza politica. Il ping pong anglo-americano con Zelensky si inscrive in fondo all’interno di una grammatica unitaria. Da una parte con le cattive, dall’altra addolcendo la pillola, dicono a Zelensky quali sono i limiti entro i quali può aspettarsi di muoversi.
E poi c’è l’Europa. O meglio, non c’è. Arriva a Londra dopo Zelensky, arriva ultima a ricevere la linea dall’UK che è uscita dall’UE. Se ancora a qualcuno fosse servita un’attestazione del nanismo politico dell’UE, credo possa bastare. Le agenzie di stampa sono al lavoro per dissimulare un’irrilevanza che è nei fatti, e che è impietosamente rivelata dai protocolli. Sull’Europa, in compenso, ricadono i costi più gravi del conflitto. Gli Stati Uniti, nella continuità delle ultime due amministrazioni, di fatto ne hanno accentuato e pienamente definito il ruolo di colonia, ricompattando per contro l’anglosfera in funzione della partita globale e dei suoi scenari. Trump si avvia alla ristrutturazione di un sistema finanziario globale nel quale il sistema capitalistico russo è pienamente integrabile. Gli Stati Uniti ottengono questo risultato dopo aver interrotto la cooperazione economica tra l’Europa e la Russia. Questo è il principale risultato messo a segno dagli Stati Uniti con una guerra contro la Russia che sul campo non poteva essere vinta. La vera guerra vinta dagli USA è contro l’Europa. In questo senso Biden ha scosso l’albero e Trump arriva a raccogliere i frutti. L’imperialismo statunitense è quanto mai duttile. “Fuck the UE”, non è una frase pronunciata da Trump ma da Victoria Nuland, all’epoca del colpo di Stato USA di Maidan, nel 2014 (era presidente Obama e vice-presidente Biden). Il risultato principale ottenuto dagli USA è aver drasticamente allontanato l’Europa dalla Russia. L’atto chiave della disarticolazione del vitale rapporto commerciale, economico ed energetico tra Europa e Russia è stato il sabotaggio del gasdotto North stream 2, che era sotto l’operatività della Germania, ora in ginocchio. Rimane un’Europa defilata rispetto alla partita globale, politicamente irrilevante, in via di deindustrializzazione, energeticamente dipendente dall’esterno, e con un abisso di diffidenza scavato con la Russia. Di più, con una persistente pulsione bellicista che attraversa la sua intellighenzia progressista ormai prigioniera della propria cattiva coscienza, prodotta dal legame ultra-trentennale con le sue oligarchie di riferimento.
Fonte foto: Corriere della Sera (da Google)