La proposta del M5S di istituire un reddito di cittadinanza non mi convince per una serie di ragioni che cercherò di spiegare in modo elementare ma forse efficace.
Ad una prima osservazione si potrebbe pensare che il reddito di cittadinanza sia una risposta democratica (nel senso proprio del termine, perché restituire ai cittadini una quota di ricchezza sociale prodotta significa, in linea teorica, restituirgli anche una quota di “potere” politico) alla crescente e sistematica espulsione dei lavoratori dal processo produttivo. Espulsione dovuta alla rivoluzione tecnologica ed ai conseguenti processi di automazione del lavoro che rendono sempre meno necessaria la “forza lavoro umana”.
Di per sé, questa “rivoluzione” potrebbe rappresentare una benedizione e non certo una maledizione. Ma potrebbe esserlo se la rivoluzione tecnologica fosse contestualmente accompagnata da una rivoluzione sociale e politica (ma anche culturale) che mettesse radicalmente in discussione i rapporti di produzione capitalistici fino al loro superamento.
Allo stato attuale delle cose, la rivoluzione tecnologica si presenta infatti più come una maledizione piuttosto che come una benedizione. La ragione di ciò è evidente: essere espulsi dal processo produttivo, cioè perdere il lavoro, significa non avere più di che vivere, trovarsi in una condizione di disperazione e non certo utilizzare il tempo liberato dal progresso tecnologico per attività creative, ludiche e culturali.
Nello stesso tempo, i proprietari dei mezzi di produzione (quelli che una volta avremmo chiamato “padroni”, senza che nessuno si scandalizzasse…), così come i possessori di grandi quantità di denaro (“padroni” anch’essi, e il più delle volte sovrapposti ai primi), continueranno invece ad accumulare ricchezza, come in effetti sta avvenendo, indipendentemente dal numero di lavoratori occupati, dal momento che il plusvalore (in questo caso relativo) può essere estorto da un numero minore o maggiore di lavoratori in base ad una serie di fattori che ora sarebbe troppo complesso indagare.
Istituire un reddito di cittadinanza, nell’attuale contesto sociale e storico, significa di fatto ufficializzare e sedimentare l’esistenza di una massa di popolazione marginale destinata a crescere in misura esponenziale proprio in virtù o meglio a causa di quel combinato disposto “rivoluzione tecnologica-rapporti di produzione capitalistici”. E’ questa equazione che trasforma un fattore (la rivoluzione tecnologica) di potenziale grande crescita complessiva, in termini di aumento esponenziale di benessere e di riappropriazione di tempo (libero dalla schiavitù del lavoro salariato) e quindi di qualità della vita, in una tragedia umana e sociale.
Il nemico, dunque (è bene dire le cose per come stanno…), non è il progresso tecnologico ma il capitale che utilizza e declina il suddetto progresso all’esclusivo fine della propria valorizzazione, cioè della sua infinita e illimitata riproduzione.
Temo che il reddito di cittadinanza (che, non illudiamoci, non potrà essere superiore a qualche centinaio di migliaia di euro), anche ammettendo le migliori intenzioni da parte dei promotori, si tradurrebbe in una sorta di sussidio di sussistenza la cui finalità oggettiva diventerebbe quella di “parcheggiare” in via definitiva, in una condizione di marginalità, passività e subalternità, masse sempre più crescenti di popolazione, oltre naturalmente a disinnescare il potenziale conflitto sociale. Il che è esattamente ciò che è avvenuto in quei paesi dove tale misura è stata applicata.
In parole ancora più semplici, ciò che voglio dire è che nel momento in cui non si mettono radicalmente in discussione i rapporti di produzione capitalistici con le loro contraddizioni strutturali, il reddito di cittadinanza rischia molto concretamente di diventare la modalità con cui si “parcheggia” in via definitiva una massa sempre più crescente di persone la cui condizione di marginalità sociale viene considerata come un dato fisiologico, ineluttabile e inevitabile. E allora meglio distribuire un “obolo” piuttosto che rischiare una esplosione sociale.
La proposta del M5S rischia, purtroppo e molto concretamente, di diventare questo. La strada, a mio parere, è un’altra. Ed è quella di lavorare (cioè di lottare) per una redistribuzione del lavoro, della ricchezza e del tempo libero, con l’obiettivo di superare la marginalità sociale non attraverso la costruzione di “ghetti salariali” “per chi non ce la può fare con le proprie forze” ma, al contrario, proprio attraverso la valorizzazione della creatività e delle capacità di ciascuno.
Lavorare tutti, lavorare meno, si diceva una volta, e lavorare tutti sempre di meno. Perché non è scritto su nessuna tavola della legge che la scienza e la tecnica debbano essere al servizio del capitalismo e dello sfruttamento.
Fonte foto: Mediacritica (da Google)