In questi giorni ho letto molti articoli sulla vita e la storia di Pietro Ingrao (ne abbiamo pubblicato uno anche noi, come di dovere, a firma di Roberto Donini), storico dirigente del PCI e della Sinistra italiana, dagli anni della Resistenza fino alla sua dissoluzione, venuto a mancare pochi giorni fa. Sono stati espressi pareri molto diversi, come era normale che fosse, da parte di diversi commentatori.
A bocce ferme, come si suol dire, passato il primo momento emotivo, proverò anch’io, dal mio microscopico pulpito (per lo meno rispetto a quello di Ingrao lo è senz’altro) ad esprimere la mia opinione, in pochissime parole, come al solito in piena libertà e fuori da ogni liturgia.
Ho un mio personale parametro per valutare le persone e in particolare quelle che, per ragioni diverse, siano esse leader politici, filosofi, pensatori o anche letterati, hanno in qualche modo contribuito “a fare la storia”, come si suol dire, fino in alcuni casi ad esserne protagonisti o comunque a ricoprire un ruolo importante e prestigioso. Tale prestigio non sempre corrisponde al valore reale di quelle persone, ma questo è un altro discorso che ora non ci interessa.
I criteri che utilizzo ai fini di questa valutazione sono tre: la capacità di leggere il presente, la capacità di innovare e la capacità di pre-vedere.
Rimanendo in casa nostra (per non allargare troppo il campo), due (grandi) uomini della Sinistra italiana che possedevano queste tre (per me) fondamentali caratteristiche, sono stati Antonio Gramsci e Pier Paolo Pasolini.
Il pensiero di Gramsci ha rappresentato un fattore di innovazione e di arricchimento enorme del pensiero marxiano, dimostrando una capacità di lettura della realtà senza precedenti, per lo meno per quella che era ed è stata la tradizione del pensiero marxista (e non solo, a mio parere). Gramsci, in condizioni difficilissime se non disperate, cioè dal carcere fascista in cui era stato rinchiuso, in una fase storica in cui per i comunisti e per gli antifascisti non si vedeva luce, ha avuto il coraggio politico e personale di elaborare una teoria critica nei confronti del materialismo dialettico ufficiale sovietico, all’epoca dominante in tutti i partiti comunisti del mondo. Critica che gli costò – non è ormai un mistero, al di là delle celebrazioni e delle storiografie ufficiali – l’isolamento politico e anche umano da parte dei suoi stessi compagni e anche da parte del partito comunista sovietico e del Comintern. Che poi Gramsci e il suo pensiero siano stati completamente e successivamente recuperati ,in primis dal partito comunista italiano è altro discorso.
In un’epoca completamente diversa, Pasolini ha avuto la stessa capacità di leggere la realtà, di innovare il modo di pensare e di approcciare e, soprattutto, di prevedere il futuro. La società capitalistica assoluta in cui viviamo, quella della mercificazione totale di tutto, dei corpi come della anime degli individui, era stata ampiamente prevista dal grande poeta e intellettuale, così come il processo di “imborghesimento” o di “borghesizzazione” delle masse (nonchè di degenerazione del cosiddetto socialismo reale).
Con tutta l’umiltà di questo mondo, mi pare di poter dire che Ingrao, la cui statura ideale e morale è fuori discussione, non abbia però posseduto nessuna di queste tre caratteristiche che, dal mio punto di vista, rendono un uomo “grande” e ne fanno appunto un gigante della storia.
Ingrao è arrivato sempre in ritardo agli appuntamenti della storia. Celebrò l’invasione sovietica dell’Ungheria per poi tornare sui suoi passi molto tempo più tardi. Contribuì a costruire un’area di dissenso di sinistra all’interno del PCI ma poi, quando questo dissenso fu portato coerentemente alle estreme conseguenze (né poteva essere altrimenti…) e il gruppo del Manifesto fu espulso, Ingrao non solo non lo seguì ma addirittura votò, per disciplina di partito, in favore della sua espulsione.
Si oppose alla svolta di Occhetto ma restò nel PDS per poi uscirne solo dopo alcuni anni. Ma ormai la sua fuoriuscita aveva perso ogni carattere strategico, fu di fatto una scelta personale e tale rimase. In altre parole, anche in quell’occasione, Ingrao non volle assumersi la responsabilità di “spaccare”. La sua decisione postuma fu quindi frutto del suo sentimento personale ma non portò nessun valore aggiunto dal punto di vista politico. Se avesse scelto di uscire al momento opportuno, cioè al congresso della svolta, il PCI-PDS si sarebbe spaccato letteralmente in due tronconi e il partito che ne sarebbe scaturito, in dissenso da quello “occhettiano”, avrebbe avuto ben più forza e consistenza sia politica che numerica rispetto a quanta non ne abbia sviluppata in seguito (meglio non entrare nel merito, per carità di patria, delle successive “evoluzioni” di ciò che proviene dalla “diaspora”, diciamo così, di quel partito e dei tanti rivoli in cui si è gradualmente dissolto).
Per queste ragioni, pur ribadendo la straordinaria levatura ideale e morale dell’uomo, mi sento umilmente di dire che dal punto di vista politico, Pietro Ingrao non sia stato all’altezza del ruolo, dei compiti e delle responsabilità che competono a un grande leader, a quello che usiamo appunto definire un “gigante della storia”. Nondimeno lo saluto con grande affetto, con simpatia e anche con una certa tristezza, come si fa con un padre che ci ha lasciati in tarda età e che ci lascia nel mondo, in questo mondo, più soli.