E’ di qualche giorno fa la notizia che Linda Sabbadini, direttrice del dipartimento delle statistiche sociali dell’ISTAT, lascerà il suo incarico per essere assegnata altrove, a quanto pare anche per un accorpamento tra dipartimenti. Naturalmente non si sa nulla delle motivazioni, ma è da presumere che si tratti di avvicendamenti interni, che come si sa in contesti fortemente burocratizzati procedono per anzianità di servizio (ne sapeva qualcosa Giovanni Falcone) e riorganizzazioni forse dovute anche a tagli di spesa. In rete si è espresso un certo malumore per questo avvicendamento che si è espresso anche in qualche tentativo di raccolta firme su i soliti siti per petizioni. Malumore che si è espresso soprattutto nell’area che si definisce di “sinistra”, ma che ha trovato sponde anche a destra come in Mara Carfagna che sull’Huffington Post ha espresso anche lei le sue rimostranze per quanto annunciato.
Il nome di Linda Sabbadini è legato da molti anni alle ricerche sulle cosiddette “statistiche di genere” (anche se non solo di donne si è occupato il suo dipartimento) e ultimamente alle indagini dell’ISTAT sulla violenza sulle donne, in particolare alla prima analisi del 2006, quella maggiormente citata, nella quale aggregando tutti i dati si giungeva alla conclusione
che una donna su tre aveva subito violenza nel corso della propria vita. Sintomatico il tweet di Lorella Zanardo, che ha twittato: «#LindaLauraSabbadini #istat maggiore coscienza #donne #violenza aumentata. Ma #femminicidi restano alti».
Non conosco gli altri lavori della Sabbadini (e del suo gruppo di lavoro), ma certamente conosco abbastanza bene le indagini sulla violenza sulle donne, se non altro per averle spulciate abbastanza anche in vista di altre indagini di cui mi sono occupato insieme ad altri.
Sui risultati delle indagini dirò poco, mi interessa di più parlare del contesto generale in cui nascono. Giusto due appunti. Il primo è relativo alla piccola indagine sulla violenza sugli uomini, progetto al quale ho partecipato volentieri qualche annetto fa. La definisco “piccola” perché essa non ha, nè può avere, la velleità di un’indagine come la potrebbe fare l’ISTAT, quindi con un campione bilanciato e numericamente grande in modo da rappresentare efficacemente la popolazione italiana nel suo complesso. Ma l’abbiamo svolta su un campione tutto sommato non proprio nullo, circa 1000 casi, e i risultati dicono quel che sapevamo, ovvero che questo tipo di indagini tendono a dare sempre dei numeri rilevanti dell’ordine dei “milioni di casi”. Infatti una proiezione su una popolazione generale di alcune decine di milioni di individui, anche se le sue percentuali fossero piccole troverebbe sempre un grande numero di individui che subiscono violenza, dell’ordine dei milioni. Un secondo appunto è sul tipo di misura di un fenomeno. L’idea di raccogliere dei dati “integrali”, ovvero su un periodo di tempo molto lungo, aumenta significativamente le percentuali di casi positivi. Quella che l’ISTAT raccoglie è una somma
totale su un periodo di circa mezzo secolo (visto che i dati sono raccolti nelle classi di età tra 16 e 70 anni). Se vi dicessero che negli ultimi 50 anni ogni anno solo il 6×1000 delle donne ha subito una qualche forma di violenza sareste altrettanto preoccupati?(1)
Si può anche essere d’accordo su questo metodo, ma solo pensando che ad esso dovrebbe essere affiancato almeno qualcosa che visualizzi l’evoluzione nel tempo del fenomeno (è successo lo scorso anno o lo scorso decennio, o ancora prima?). L’indagine si limita al solo ultimo anno dal quale non è possibile evidentemente tracciare un andamento temporale significativo. Inoltre un’altro difetto generale a mio parere è la mancata misura dell’intensità della violenza: è una violenza ripetuta? Quanto ripetuta? O si tratta di un unico episodio accaduto nell’anno 1960, o 1979, o 1986? Dallo stesso individuo o da più individui?
Non ripeterò qui le critiche generali all’impostazione dei questionari dell’ISTAT e al modo di presentazione dei dati che mescola come sappiamo diverse forme di violenza (tanto da indurre molti giornali a parlare di una donna su tre che avrebbe subito violenza sessuale!) perché sono riportate altrove in molte eccellenti analisi tra tutte quella che dobbiamo a Fabio Nestola che studia questi fenomeni (sessualità-violenza-relazioni e anche sessualità-violenza-relazioni ) almeno da quando li studia Laura Sabbadini senza avere certamente i mezzi di cui dispone l’ISTAT. Mi limito a notare solo un’altra cosa che mi lascia perplesso: perché come in ogni analisi statistica che abbia un senso non si è mai confrontato il dato di genere col dato nella popolazione generale? (Popolazione generale che ovviamente include anche la violenza tra uomini o tra donne oltre a quella delle donne sugli uomini, sempre che vogliamo limitarci a considerare solo due generi).
Non so quanta parte ha avuto Linda Sabbadini nel definire i parametri di queste indagini e quanto ha influito il contorno. Certamente come direttore del dipartimento è lei la responsabile finale delle scelte che sono state fatte. Peraltro il suo riconosciuto e citato ruolo internazionale nella definizione dei parametri di questo tipo di indagini mi induce a pensare che la sua influenza sull’ideazione delle procedure sia stata non certo trascurabile.
Ma io ritengo che le ragioni per cui questo tipo di indagini sono state fatte nel modo criticabile sotto diversi aspetti al quale ho accennato sopra, sono a mio parere ideologiche. Sarebbe troppo lungo in un breve editoriale trattare il tema complesso dell’interazione tra scienza e ideologia, appare però evidente che vi sia stata una tendenza a omettere certe analisi e a presentare i risultati in modo tale da portarli all’attenzione dei media con il considerevole impatto che poi hanno avuto.
E’ Il clima generale di questo periodo storico che induce ad una devalutazione del maschile e all’affermazione della superiorità femminile. Al maschile è attribuita la violenza, la crudeltà, la guerra e chi più ne ha ne metta, tutto il male del mondo. Si sprecano teorie e teoriche femministe (e non solo, anche qualche maschietto, basti pensare alla teoria di Vittorino Andreoli, certo non un femminista, che sostiene che anche la donna è violenta ma lo è perché assume un ruolo maschile) alla ricerca di un fondamento a queste idee che ovviamente non hanno nessuna solida base scientifica, ma fanno parte di narrazioni intricate, a volte tanto che finiscono poi per essere contraddittorie. In questo clima anche il ricercatore più in buona fede è capace di trovare correlazioni che sono solo apparentemente reali, ma che in realtà nascondono sotto dinamiche più complesse della semplice teoria de “la violenza è maschile”. Tuttavia è sulla base di queste “narrazioni” che lo stato italiano ha fatto passare leggi e provvedimenti come ad esempio la legge sugli atti persecutori o “stalking”. Al che oggi dobbiamo assistere a centinaia di procedimenti per stalking che affollano i nostri tribunali da parte di donne separate che accusano gli ex mariti di stalkizzarle semplicemente perché vogliono parlare con i figli al telefono. In generale i tribunali dopo un iter lungo e tormentato assolvono in molti casi, ma questo “rumore” ovviamente affligge e copre in molti casi quello delle vere vittime le quali spesso restano inascoltate.
Ma a parte far passare leggi e leggiuncole (ricordo anche il decreto sul femminicidio la cui reale efficacia è molto discutibile) che apparentemente dovrebbero difendere le donne e non favorire “guerricciole” avvocatesche al genere maschile, questa, ed altre analisi, hanno veramente mostrato una via, hanno aumentato la coscienza del fenomeno, come dice la Zanardo? Hanno aiutato le donne a percepire davvero il pericolo di un rapporto violento? Sulla base dei fatti di cronaca non direi, visto che indagini tanto generali e ripeto “integrali” non sono in grado di analizzare i fattori di rischio, non misurano l’intensità del conflitto e la sua evoluzione temporale se non molto parzialmente. Non misurano nulla di autenticamente “sociale” in quanto nel vasto ed indistinto “integrale” i fattori sociologici e psicologici all’origine della violenza non sono deducibili a meno di non credere alla narrazione che la “violenza è maschile”, affermazione che non spiega nulla ne è spiegata da nulla. Peraltro si deve anche osservare come i dati statistici possono solo definire un quadro che una teoria di successo dovrebbe spiegare; la dinamica alla base della “meccanica della violenza” resta oscura. Se poi l’analisi statistica è anche carente è conseguenza ovvia che su di essa si possono solo costruire teorie pseudoscientifiche. Ragionando una sera con una mia amica criminologa concludemmo che forse lungi dall’essere nascosto nella teoria femminista della “violenza è maschile” o nella simile teoria di Andreoli, uno dei motivi di base dei femminicidi era in molti casi semplicemente la patologia psichiatrica. Ma se questa probabilmente rappresenta quel rumore di fondo ineliminabile, c’è qualche altra spiegazione che possiamo dare della c.d. violenza di genere?
Stamane leggevo Saviano, il quale una volta tanto secondo me ci ha azzeccato, sebbene con i buoni input di Oliver Roy e David van Reybrouck, eccellenti studiosi dell’Islam e dei fenomeni coloniali. Dobbiamo constatare, riassumo in breve Saviano, come il fenomeno del terrorismo islamico in Francia e Belgio sia strettamente legato all’emarginazione e alla piccola criminalità violenta delle periferie e molto meno all’Islam. Abbiamo abbandonato l’idea di cambiare queste banlieu e le abbiamo abbandonate a loro stesse, perché abbiamo rinunciato alla “lotta di classe”. Lo stesso si potrebbe dire della violenza di genere, dove correttamente dovremmo intendere “tra i generi” (ovvero uomo vs donna ma anche donna vs uomo), perché questa è certamente acuita dalla mancanza di prospettive, dall’abbandono del territorio da parte di quello che era lo stato sociale, dall’emarginazione e dall’esclusione sociale. La violenza la si apprende fin da piccoli vivendo in ambienti violenti, dove per poter sbarcare il lunario si deve lottare con tutte le proprie forze. La “narrazione” che vorrebbe che la “violenza è maschile” suppone una violenza equidistribuita in tutte le classi, ma non è così, basta dare un sguardo alle cronache per osservare che è molto più raro un “femminicidio” da parte di un laureato che da parte di un operaio o un disoccupato, per non parlare delle persone legate alla microcriminalità. La stessa maggiore frequenza si ritrova nei gruppi degli immigrati, non solo perché costoro sono provenienti da culture ancora “patriarcali” (peraltro in molti casi la provenienza è dall’est-europa), ma soprattutto perché essi confluiscono nelle classi sociali meno affluenti e più discriminate socialmente. Un’amica che mi diceva che sarebbe stato strano che i fatti di Colonia fossero accaduti a generi invertiti, mi ha fatto riflettere che sarebbe stato altrettanto strano che fossero accaduti a classi sociali invertite: ovvero se fosse stata una banda di tedeschi a seminare il panico invece che una banda di immigrati. Ultima riflessione prima di concludere: “la violenza è maschile” è anche improbabile dal punto di vista della specie poiché mette a rischio la prole in una difesa a oltranza da parte di un gruppo ostile, prova ne sia che nelle lotte di liberazione popolare le donne sono disposte a imbracciare il fucile molto più facilmente che in altre situazioni (in cui conviene delegare all’uomo l’esercizio ma anche i rischi che comporta l’uso sistematico della violenza).
Certamente la violenza emerge più facilmente laddove in una società come la nostra fondata sul culto del denaro e del possesso di cose e di individui (si parla di neoschiavismo, anche se si tratta più precisamente di un ritorno ad una servitù pre-fordista). Ridurre la violenza di genere, implica ridurre anche la violenza generale, ridurre la povertà, ridurre l’emarginazione e l’esclusione. Ridurre anche la paura del crollo individuale e sociale che tanta parte ha nel nostro immaginario attuale, dominati dalla paura di fallire rischiamo di diventare una particella impazzita. Ma per far questo occorre lottare per una società giusta ed equa in primo luogo, non evadere la domanda cercando spiegazioni divisive che fanno semplicemente il gioco del potere il quale ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo creando spaccature artificiali interclassiste. Chi si batte davvero per una società giusta ed equa non si preoccupa di queste barriere. Finché non otterremo questo eliminare la violenza in generale e di genere in particolare per mezzo di norme e leggi, e seguire la via dei diritti nel mondo del lasseiz faire è illusorio.
La violenza di genere è un fenomeno complesso e coinvolge anche terzi come i minori: alle volte si agisce violenza per i figli, o per non avere i figli, o i figli non c’entrano nulla, o si fa violenza anche sui figli. Al limite si uccide: figli, partner, anche parenti, spesso per motivi apparentemente futili, che denotano una crisi valoriale profonda. Come presidente di un’associazione che si occupa a livello nazionale di tutela dei minori la preoccupazione per la violenza esperita dai figli minori dovrebbe anche questa essere tra le prime, eppure di questi “invisibili” non si parla quasi mai, nemmeno si conosce esattamente il numero dei minori accolti nelle case-famiglia sul territorio, se siano vittime di maltrattamenti o se siano semplicemente minori che le famiglie non possono mantenere. Sarà perché come diceva qualche bravo operatore “i bambini non interessano a nessuno” (certo non votano, non hanno una lobby o un partito). Sarà perché, quarda caso, fino a otto anni di vita il maggior pericolo per il figlio viene dalle madri e non dai padri?
(1) Affermazione equivalente a quella che una donna su tre ha subito una qualche forma di violenza (nel corso degli ultimi 50 anni).