a identificare nel ristorante il luogo dove meglio emerge, e meglio viene esibito, lo ”status sociale” nel capitalismo post-moderno.
Si andava al ristorante banalmente per mangiare, ma ora tra cuochi che non sono più cuochi bensì ”chef”, tra piatti che non sono più piatti ma opere di arte moderna impossibilitate a riempire lo stomaco perchè miserrime nel contenuto e nelle dimensioni, diventa chiaro che tra il fine (mangiare, possibilmente bene) e il mezzo (il ristorante, guai a chiamarlo trattoria perchè troppo evocatoria di bifolchi camionisti con la camicia a quadretti) si sono inseriti una serie di sgradevoli ostentazioni di ”skill sociali” che contribuiscono a farmi guardare all’ambiente degli ”chef” e dei ristoranti ”blasonati” con una sorta di imponderabile disgusto.
L’avevamo già visto con il mercato del vino, dove per ”ribrandizzare” un buon Barbera erano arrivate orde di buffoni chiamati ”sommelier” a sentire retrogusti improbabili di tabacco e di cumino a questo e quell’altro vino; era necessario trasformare la bevanda popolare per eccellenza, il vino, in uno skill sociale da esibire per dimostrare il proprio status.
Tale disgusto si amplifica a dismisura quando accendo la televisione e osservo per alcuni minuti (limite massimo di tolleranza) una puntata di “masterchef”. Questa spiacevo sensazione (appunto di disgusto) non è tuttavia del tutto infruttuosa, perchè ha un effetto pedagogico e mostra chiaramente che l’equazione ”ristorante=ostentazione della differenza di classe sociale” non è solo frutto della mia immaginazione ma una realtà oggettiva e conclamata.
Del resto non si tratta solo di un paradigma sociale che ci ricorda – per chi l’avesse dimenticato – che viviamo ancora in una società divisa in classi, ma anche del paradigma del capolinea di una nazione, la nostra, che ormai si è ridotta come un paese del terzo mondo a vendere solo cibo e turismo.
Se penso all’expo del 2015 dedicato al cibo (si ricordi che per esempio la Tour Eiffel fu costruita appunto nell’expo del 1889, e si raffronti con la miserrima sagra del tartufo nostrana a cui l’abbiamo ridotta nel 2015) mi rendo conto che per un giovane in questo paese non c’è più speranza. L’unica prospettiva che gli offre questo paese è scegliere tra una carriera come cameriere o come cuoco, magari con la segreta speranza un giorno di diventare ”chef” e rifarsi delle umiliazioni subite dal cliente che per definizione ”ha sempre ragione”,e di quelle subite dal padrone che, per definizione, ha ancora più ragione del cliente.
Diventa così magicamente spiegabile,per noi outsider del mondo della cucina, tutto l’assurdo interesse sado-masochista,che in questa infelice nazione milioni di persone riversano in questa sarabanda di maleducazione e arroganza chiamata ”masterchef”:
Frotte di cuochi e camerieri vedono in masterchef una sorta di rievocazione della loro triste, alienante e frustrante vita quotidiana.
Ma c’è di più, masterchef è il momento pedagogico in cui bisogna insegnare a milioni di giovani italiani come ci si comporta nei confronti dei superiori, come subire i peggiori insulti senza fiatare; del resto è questo che offre il mercato del lavoro al giovane italian. Se l’industria è morta, finisce la possibilità anche solo teorica di fare una carriera ”tecnica” in cui il lavoro sia scisso dal suo aspetto servile di ”sudditanza al cliente” (e al padrone).
Ma l’industria è morta e all’expo si parlerà di cibo, cibo solo cibo e nient’altro che cibo…
Riflesso di ciò che l’Italia è diventata: un paese con una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri che possono lavorare solo e soltanto in una serie di lavori servili che gratifichino i padroni, perchè è questa la traduzione vera della parola arcana ”terziarizzazione” dietro la quale si cercano di nascondere le tremende condizioni della società capitalistica postindustriale.
Credevamo che la fabbrica fosse l’apice dello sfruttamento, e invece è arrivata l’era del ristorante, degli chef e dei masterchef: