Il femminismo ha finalmente gettato la maschera. In realtà, per chi aveva occhi per vedere, l’aveva gettata già da tempo. Ma il bombardamento mediatico a reti unificate di questi giorni in seguito al tragico omicidio di Giulia Cecchettin, lo ha reso evidente a tutti. La vera finalità dell’ideologia femminista non è la liberazione delle donne (casomai dovremmo tutti e tutte liberarci dall’attuale dominio sociale…) ma la colpevolizzazione dell’intero genere maschile.
Del resto è stato detto a chiare lettere. Tutti gli uomini devono considerarsi colpevoli. Lo ha detto la sorella della vittima e lo hanno ripetuto le maggiori leader politiche femministe, a partire dalla segretaria del PD. Gli hanno fatto eco gli strilloni a stipendio che popolano la scena mediatica, giornalisti, influencer, esponenti politici, personaggi dello spettacolo, alcuni dei quali si sono prodotti in stucchevoli, tragicomiche quanto stomachevoli autoflagellazioni pubbliche all’insegna del “Sono maschio e quindi colpevole, per definizione”.
Il femminismo è l’architrave dell’ideologia neoliberale e politicamente corretta dominante che è composta anche da altre correnti e sottocorrenti. Ma non c’è dubbio che quella femminista sia la più potente perché è la sola che riesce a paralizzare tutti, a impedire ogni forma di dissenso. Diversi esponenti del mondo della cultura e in misura minore anche della politica sono infatti riusciti a trovare la forza per manifestare il proprio dissenso in occasione di altre questioni care all’ideologia dominante: la gestione politica della crisi pandemica, l’Unione Europea, gli USA, la NATO, la crisi russo-ucraina, la questione israelo-palestinese, anche se in quest’ultimo caso un po’, parecchio meno, perché c’è di mezzo un altro architrave dell’ideologia dominante, cioè Israele e la questione ebraica, del tutto artatamente sovrapposte.
Ma nessuno osa proferire una parola critica, sia pur timida, nei confronti della narrazione femminista. Si rischia troppo, anzi, si ha la certezza, a ragione, che si verrebbe fatti fuori, come si usa dire, in un nano secondo. Fatti fuori sta per uscire completamente di scena, essere epurati politicamente, mediaticamente, per un uomo o una donna del mondo dello spettacolo, della cultura, della politica e della comunicazione significa la chiusura di ogni spazio, l’emarginazione totale, non avere più uno straccio di contratto, la brusca fine della carriera e di ogni spazio professionale, la perdita del lavoro e della visibilità, tornare nell’anonimato ma con lo stigma del reietto o della reietta.
Del tutto ovvio che, in queste condizioni, tutti e tutte coloro che in qualche modo appartengono alla categoria dei vip, tacciano. Anzi, tacere non è sufficiente, perché verrebbe visto con sospetto, meglio esternare e farlo però con arguzia. Nello stesso tempo va detto che questi signori e queste signore non hanno ovviamente nessun interesse a criticare la narrazione femminista dal momento che, in quanto appartenenti alle elite dominanti, godono di tutti i vantaggi e i privilegi che tale condizione gli garantisce.
E’ un vero e proprio clima di terrore quello che è stato costruito che, sia chiaro, non riguarda soltanto i “vip” ma anche tante persone normali. Pensiamo ad esempio ad un insegnante o ad uno studente. Nelle scuole e nelle università osare criticare la narrazione femminista dominante significa essere emarginati e scomunicati. Un giovane ricercatore universitario che osasse criticare il femminismo non verrebbe più assunto neanche come bidello. Stessa identica sorte per un giovane giornalista praticante o per un aspirante politico o pubblico amministratore, per non parlare poi del mondo dello spettacolo. Nella vita privata, tale critica porta molto spesso se non quasi sempre a conseguenze devastanti dal punto di vista relazionale, affettivo, psicologico e umano.
Quello che sto descrivendo è di fatto un regime totalitario, dove ancora non si finisce in galera per le proprie opinioni ma si opera una censura, o meglio una autocensura preventiva. Ci si censura preventivamente per non incappare nelle sanzioni. E’ una sorta di olocausto psicologico quello a cui stiamo assistendo e che stiamo vivendo.
Dobbiamo chiamare le cose per quelle che sono, e questo stato di cose non può che essere definito in un solo modo: regime. E’ un regime totalitario molto sofisticato e pervasivo che agisce in profondità, nel foro interiore delle persone, paralizzandole psicologicamente. Vergogna, senso di colpa, paura dell’isolamento e della pubblica gogna insieme alla bassa autostima e consapevolezza di se che vengono scientemente instillate nelle persone. Sono queste le sue armi che, paradossalmente, incutono più paura del carcere o del confino.
E’ necessario un percorso lungo, profondo e anche doloroso di autocoscienza, per conquistare consapevolezza e vincere la paura. E’ solo in virtù di questo percorso che con le armi della critica lucida e razionale, della logica, della dialettica e del riferimento ai fatti, si potrà combattere questa sorta di idra, di piovra con tanti tentacoli che è l’attuale ideologia dominante.
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