E’ oggettivamente molto difficile tracciare in poche righe un profilo filosofico e politico (oltre che personale) di un (grande) pensatore come Mario Tronti, scomparso oggi all’età di 92 anni, che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere, anche relativamente bene, di persona.
Cominciamo col dire che ci sono “diversi Mario Tronti”, anche molto se non completamente differenti fra loro, che si distribuiscono nell’arco della sua vita.
Il primo Tronti è quello del cosiddetto “operaismo” di cui è stato di fatto fondatore e padre spirituale, se così si può dire, nel senso che l’operaismo è senz’altro un parto suo e di Raniero Panzieri e della sua (di Panzieri) rivista “Quaderni Rossi”. Erano gli anni ’60 e primi ’70, quelli della “centralità operaia”, come veniva definita allora, e gli “operaisti” individuavano o pensavano di individuare nella classe operaia di fabbrica e in particolare nelle sue avanguardie più politicizzate delle grandi concentrazioni industriali, il motore e la guida di una possibile più ampia e generalizzata rivolta di classe in grado di mettere in crisi il sistema capitalista. In realtà erano già in ritardo sui tempi perché il sistema capitalista stava già iniziando il suo ennesimo processo di ristrutturazione che porterà ad una ridefinizione sia del lavoro (dall’automazione al lavoro sempre più parcellizzato e frammentato fino all’attuale capitalismo digitale) che della società nel suo complesso, e naturalmente ad una trasformazione radicale della “classe” che oggi non esiste più nei termini in cui esisteva prima, ai tempi in cui Tronti, Panzieri e poi anche Negri teorizzavano l’operaismo. Un errore analitico, valutativo, a mio parere abbastanza grave per degli intellettuali di quel calibro. Ciò che fa la differenza in un pensatore rispetto ad un “comune mortale” è infatti a mio parere la capacità di analizzare e interpretare correttamente la realtà in cui si trova a vivere e possibilmente di riuscire a guardare anche un po’ più in là del presente. Da questo punto di vista il Tronti operaista è mancato, anche se molto peggio di lui ha fatto Toni Negri che porta su di sé responsabilità sicuramente maggiori. Tronti ha avuto per lo meno il merito di capire l’errore e di fare un passo indietro, al contrario di Negri che, con teorie stravaganti e una prassi estremista e avventurista, ha contribuito a portare al disastro una generazione di giovani militanti.
Al contrario di altri intellettuali ed esponenti della sinistra cosiddetta rivoluzionaria Tronti non uscì mai dal PCI perché per lui era fondamentale – come ripeteva sempre – stare nella maggioranza, o comunque nel partito che rappresentava la maggioranza del ceto operaio e popolare, rifuggendo sempre da tentazioni minoritarie o da fuoriuscite verso questo o quel gruppo della galassia delle organizzazioni e dei vari partitini della sinistra extraparlamentare che ha sempre considerato, non a torto, velleitari e sostanzialmente inutili. Il problema – e qui arriviamo a quello che è più di un punto dolente – è che è sempre rimasto in quel partito e nella sua successiva evoluzione/degenerazione metamorfica che lo ha visto trasformarsi in PDS prima, in DS poi e infine nell’attuale PD. Il che è quanto meno un comportamento schizofrenico per uno con le sue idee, e non mi riferisco in questo caso alle tesi operaiste, abbandonate ormai decenni prima ma a quello che è stato il suo fondamentale pensiero filosofico-politico degli ultimi trent’anni che ha a che vedere con la cultura politica del PD quanto un pinguino con la savana africana.
Abbandonata la fase operaista ha avviato una serie di riflessioni anche spregiudicate, in un certo senso, per un uomo di formazione marxista come lui, ma sicuramente fondate, su una serie di temi quali “Il Politico” e “l’Autonomia del Politico”, in particolare soffermandosi su autori molto diversi fra loro come Lenin (Tronti era indubitabilmente un leninista, sia metodologicamente che politicamente), Machiavelli e Carl Schmitt, con l’intento di trovare quegli elementi che caratterizzano inevitabilmente “il Politico e l’Autonomia del Politico”.
Ma la sua riflessione è andata anche oltre e lo ha visto affrontare il tema del rapporto fra Politica e Spiritualità, la necessità di recuperare un’idea forte che contrastasse le derive relativiste del post-moderno. E infatti fu tra i firmatari del “Manifesto” (siamo nel 2012, se non erro) – insieme a Giuseppe Vacca, Paolo Sorbi e Pietro Barcellona – dal titolo “Emergenza antropologica. Per una nuova alleanza fra credenti e non credenti” dove il tema era, cito testualmente l’incipit “La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica. Pertanto riteniamo degne di attenzione e meritevoli di speranza le novità che nel nostro Paese si annunciano in campo religioso e civile”.
Questo documento varrà a lui e agli altri il titolo o l’epiteto (dipende dai punti di vista) di “marxisti ratzingeriani” con cui verranno bollati, soprattutto e ovviamente, dalla “sinistra” liberal e radical.
Ha scritto moltissimo e pubblicato molti libri. Per quanto mi riguarda il suo capolavoro assoluto è “Dello spirito libero” che è un po’ la sintesi della sua elaborazione teorica degli ultimi decenni, anche se pubblicato nell’ormai relativamente lontano 2015. Cito testualmente la sinossi pubblicata sul suo libro:” Solo il Novecento ci fa capire il dopo; solo chi lo ha attraversato e sofferto può interpretare il presente con strumenti affilati. Mario Tronti, che il XX secolo lo ha vissuto da protagonista intellettuale, da marxista eretico, e ne è uscito sconfitto, non ha rinunciato all’esigenza e al dovere di capire…Oggi il capitale ha conquistato tutto il mondo e così è arrivato a conquistare anche tutto l’uomo. “Dello spirito libero” è anche e soprattutto un capolavoro di resistenza. Tronti richiama e contempla tragicamente i grandi temi della storia e dell’uomo: il Moderno occupato dal capitalismo, la Rivoluzione d’Ottobre e l’errore del Socialismo subìto, il crollo del Comunismo e la fine della storia, la memoria, le classi, il feticcio della merce, la critica della democrazia, l’autonomia della Politica. Nelle riflessioni su libertà, destino e profezia risuonano le parole di Marx, Tocqueville, Smith, Montaigne, Hegel, Kafka, Benjamin. Ma anche San Paolo, I Vangeli, la “Bhagavadgita”; essere dentro il proprio tempo senza appartenere al proprio tempo è possibile solo riscoprendo la dimensione spirituale del vivere, nella convinzione che contrapporre due orizzonti grandemente umani come Cristianesimo e Comunismo è stata una sciagura per la modernità”.
Potrei definire Tronti un “comunista tragico”, consapevole della sconfitta ma mai arresosi. Resta il suo grande pensiero insieme alle sue altrettanto grandi contraddizioni politiche. In ogni caso se ne va un gigante, filosoficamente parlando, del Novecento. Lo salutiamo con il rispetto che merita.
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