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Provate ad immaginare uno che scrive un libro facendo l’elenco di tutte le azioni militari e di tutti gli attentati commessi dai palestinesi nei confronti degli israeliani dal 1967 ad oggi, senza aggiungere altro.
La reazione di un lettore poco informato non potrebbe essere che questa:“Accidenti, questi palestinesi sono proprio dei gran “cattivoni” e soprattutto intrisi di antisemitismo e di odio razzista nei confronti degli israeliani”.
Ecco, mutatis mutandis, scusandomi per l’esempio banale e volutamente iperbolico (ma il sottoscritto non è un “filosofo” né tanto meno un accademico ma solo un umile manovale del pensiero, un uomo come tanti, un “uomo beta”, che ha la presunzione di dire la sua sui fatti del mondo) il libro di Paolo Ercolani dal titolo “Contro le donne” già recensito dal nostro amico Rino Della Vecchia Contro gli uomini http://www.uominibeta.org/articoli/contro-gli-uomini/ è un’operazione in tutto e per tutto simile a quella di cui sopra.
Ercolani fa un elenco del pensiero misogino (che il sottoscritto non nega affatto e non ha ragione di negare che sia esistito; è esistito anche l’amor cortese, se è per questo) dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri e ne trae la conseguenza che l’oppressione millenaria a cui le donne sarebbero state sottoposte fin da quando i primi umanoidi sono scesi dagli alberi è il risultato di quel pensiero sedimentatosi nei millenni. Da un punto di vista filosofico, potremmo dire che la sua è un’operazione di tipo “idealistico”, appunto perché parte dal pensiero, dall’idea, come si suol dire, e non dalla prassi, cioè dalla realtà concreta, e ne deduce che è quella l’origine del male. L’origine di quella oppressione sarebbe cioè da ricondurre ad un sentimento misogino profondamente radicato nella mente e nel cuore dei maschi, a prescindere o per definizione. Per un marxista niente male; una sorta di riorientamento, anzi, un capovolgimento gestaltico della dialettica marxiana.
Ma questi sono aspetti tutto sommato secondari, chiacchiere per accademici e per “intellettuali”. Noi, che non scendiamo dalle stelle, preferiamo rimestare nelle stalle, cioè la realtà vera vissuta dagli uomini (e dalle donne) di tutti i tempi. E a forza di rimestare ci siamo fatti un’idea un tantino diversa e io direi anche un po’ più complessa e meno manichea rispetto a quella di Ercolani (e di tutti i femminismi). Prima di andare avanti però, debbo raccontarvi una storia. Quella di mio nonno e di mia nonna, vissuti a cavallo tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo (per la verità mia nonna ha avuto una vita molto più lunga di mio nonno, essendo scomparsa all’inizio degli anni ’70, ormai novantenne), quindi in piena era di dominio patriarcale e maschilista (e naturalmente intrisa di pregiudizio misogino).
Mio nonno faceva il fuochista ferroviere, faceva turni di 10 o 12 ore al giorno, dandosi il cambio con il suo collega, dando da “mangiare” alla locomotiva, cioè spalando carbone, sotto la grandine, la pioggia, il vento, il sole battente. La sera tornava a casa e siccome era troppo stanco non aveva neanche la forza di prendere a botte mia nonna, diritto, sia pure non scritto, che gli era naturalmente concesso in quanto maschio dalla società maschilista e patriarcale in cui aveva avuto il privilegio e la fortuna di nascere. Posava quei quattro soldi della paga sul tavolo, mia nonna li prendeva e gli lasciava un soldo sì da potersi comprare un vecchio sigaro toscano e bersi un bicchiere di vino allo spaccio della Lega (non quella di Salvini ma quella socialista). Questo era il suo unico svago, naturalmente quando non crollava direttamente sul letto, cercando di recuperare le forze per il giorno successivo, come ogni giorno, per tutti i giorni della sua vita.
La quale ha conosciuto un paio di intervalli, anche molto lunghi, ma non proprio due ricreazioni: la guerra coloniale di Libia del 1911 e la prima guerra mondiale, dove si beccò una scheggia di shrapnel in un polmone che contribuì ad accorciargli di parecchio la vita, insieme ai veleni respirati in 35 anni di locomotiva e all’acqua presa in tanti anni di lavoro (forzato…). Ha lasciato tre figli e una moglie che per altri 30 anni ha continuato ad usufruire della sua pensione, seppur magra.
Secondo la rivisitazione femminista (che è anche quella di Ercolani) della storia, mio nonno era in una posizione di privilegio e di dominio nei confronti di mia nonna la quale, oltre a dover subire il pesante fardello del pregiudizio misogino, faceva la casalinga e cresceva i figli (che non appena raggiunta l’età minima cominciarono a lavorare anch’essi…), quindi non disponeva dell’autonomia e dell’indipendenza economica di cui – sempre secondo la suddetta narrazione – “godeva” invece mio nonno (sai che godimento…). Mi chiedo da tempo, diciamo da quando mi sono “risvegliato”, se mio nonno avesse preferito essere un “oppresso e un discriminato” piuttosto che “un privilegiato e un oppressore”. Lui, purtroppo, non potrà mai darmi una risposta. La darò io per lui, anche se arbitrariamente. Per quanto mi riguarda, anche se tutti gli uomini, nessuno escluso, fossero dei bruti che tutte le sere usano violenza di ogni genere nei confronti delle donne, non avrei dubbi, sceglierei di reincarnarmi in mia nonna, perché io a spalare carbone dodici ore al giorno con ogni clima e ad ogni temperatura e a mangiare pane raffermo, brodaglia (quando va bene) e merda in una trincea in attesa di essere sbudellato da una granata o da una baionetta, non ci vado. Forse Ercolani si, che in quanto maschio sente di essere un privilegiato, ma il sottoscritto, sicuramente no.
Con questo non voglio dire che mia nonna andasse a fare shopping o a farsi la manicure mentre mio nonno sboccava sangue in trincea e sulle rotaie per portare un tozzo di pane a casa per la propria famiglia. Né penso che mia nonna vivesse una condizione di particolare privilegio (rispetto a mio nonno, sicuramente…), diciamo che cercava di arrabattarsi anch’ella per cercare di far quadrare i conti e per crescere i figli. Sostenere però che mio nonno fosse in una condizione di privilegio, in quanto maschio, nei suoi confronti, mi sembra, oltre che privo di ogni fondamento, uno sfregio alla sua memoria, anche di pessimo gusto. Uno sfregio rivolto non solo alla sua persona ma a miliardi di uomini (ho detto miliardi, non milioni), la grande maggioranza, che nel corso della storia e dei vari contesti sociali e culturali hanno vissuto più o meno nelle stesse condizioni e molto spesso anche peggio.
Mio nonno e mia nonna non erano dei marziani, al contrario erano la rappresentazione di quella divisione sessuale (oltre che sociale) del lavoro, data da condizioni oggettive, quindi fisiche, biologiche e ambientali in conseguenza delle quali i maschi sono stati da sempre adibiti ai lavori (forzati) e le femmine ai lavori di cura e domestici. Per lo meno fino alla rivoluzione tecnologica – peraltro realizzata dagli uomini (visto che sono responsabili di ogni male, saranno anche, vado a logica, responsabili del bene…) – avvenuta da circa un secolo a questa parte che ha trasformato gran parte del lavoro da materiale a “immateriale” e ha consentito l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Fermo restando che a tutt’oggi ad essere impiegati nei lavori più pesanti e rischiosi sono gli uomini che mantengono il “privilegio” di creparci pressochè in esclusiva. Un’ecatombe di classe e di genere (maschile) che solo in Italia da quando sono nato ha causato circa 140.000 morti e qualche milione di infortunati; un particolare da niente di cui ovviamente Ercolani, intento a raccontare la nefasta storia del pensiero misogino, non fa neanche menzione. Ergo, nella società dominata dalla cultura patriarcale e maschilista, a crepare sul lavoro non sarebbero gli oppressi, in questo caso le oppresse, ma gli oppressori. La logica è stringente ma i conti non mi tornano. Forse che a crepare nelle piantagioni di cotone dell’Alabama o del Mississippi erano i proprietari terrieri bianchi e non gli schiavi neri? Sembrerebbe di sì, se scegliessimo di seguire il paradigma di Ercolani e delle sue sorelle. La questione resta senza risposta, o meglio, Ercolani non ne parla proprio. Accenna qua e là alla divisione sessuale del lavoro, confermando che questa è dovuta alla differenza biologica e fisica fra maschi e femmine che lui stesso riconosce, ma ovviamente per ripetere che questa divisione del lavoro ha collocato i maschi in una posizione di privilegio fin dalla notte dei tempi.
Quindi, se il postulato è valido, erano da considerarsi e si dovevano considerare dei privilegiati gli schiavi (rigorosamente maschi) incatenati al remo di una galera (dove la durata media della vita oscillava dai tre ai sei mesi) oppure gettati nell’oscurità abissale di una miniera o di una cava oppure ancora mandati a scannarsi in un’arena per il sollazzo del pubblico pagante. Devono considerarsi dei fortunati quegli uomini che venivano rastrellati nei bassifondi e imbarcati su qualche vascello dove morivano di scorbuto, annegati, di frustate o durante la caccia alla balena. Devono considerarsi fortunati quei contadini che venivano arruolati con la forza e mandati al macello per difendere gli interessi di questo o quel principe, di questo o quel re o regina, imperatore o imperatrice, di questa o di quella potenza imperialista. Ercolani non offre risposte a tali quesiti semplicemente perchè non se li pone. Come è possibile, direte voi? Questa domanda rimanda a un altro discorso che faremo in altra sede. Per ora, diamo per scontata la sua buona fede, ma in tal caso anche la sua scarsa attenzione, o meglio, un notevole strabismo, nel leggere la realtà e la storia. C’è da dire che non è certo il solo, anzi, è in grandissima compagnia. Anche i “migliori”, infatti, di fronte alla narrazione femminista, cedono. Ne riparleremo.
Per ora, è importante ricordare che nessuna donna, fino ad un secolo fa, prima cioè del passaggio epocale dal lavoro materiale a quello “immateriale” che ha in gran parte ridisegnato la divisione sessuale del lavoro, ha fatto battaglie per la propria “indipendenza economica”, cioè per poter essere sfruttata in una miniera o in una fonderia, in una cava di marmo o su un peschereccio. Le donne che lavoravano (come operaie tessili, mondine, braccianti, lavandaie ecc.) non lo facevano certo per scelta bensì per una dolorosa necessità, quella cioè di sopravvivere, alla quale, se avessero potuto, avrebbero volentieri rinunciato (e ne avrebbero avuto ben donde), cosa che in effetti moltissime hanno fatto, optando per il matrimonio. Gli uomini, al contrario, non hanno mai avuto questa opzione. Il lavoro (forzato) per gli uomini era (ed è, ricchi a parte) appunto un obbligo, dal momento che nessuno e soprattutto nessuna avrebbe mai provveduto per loro, oltre al fatto che se si fossero chiamati fuori da quello che era considerato un obbligo morale oltre che sociale, sarebbero stati ricoperti di ignominia, espulsi dal consesso “civile” con il marchio della vergogna. E anche qui c’è un’altra grande omissione da parte di Ercolani, il quale osserva solo i condizionamenti culturali a cui sono state sottoposte le donne ma non quelli a cui da sempre sono stati sottoposti gli uomini. Non vede, ad esempio, che sposarsi un uomo più o meno ricco e fare la vita delle “signore”, come si diceva una volta, era (ed è tuttora) considerato normale e in fondo anche giusto per una donna. A parte invertite, a tutt’oggi un uomo sarebbe considerato uno spregevole parassita, o alla meglio un cinico e opportunista avventuriero senza scrupoli. Gli esempi di condizionamento culturale e sociale di cui gli uomini sono stati vittime potrebbero essere infiniti, in primis l’obbligo all’affermazione sociale, ma per ora mi limito a questo. Questi condizionamenti, e questa è un’altra delle tante imbarazzanti amnesie di Ercolani, non erano e non sono alimentati solo dagli uomini bensì in primis dalle donne. Il modello del maschio “dominante”, socialmente affermato, di successo, non è forse un archetipo da sempre radicato nella psiche femminile e tramandato da madre in figlia? Si potrebbe obiettare che anche questo è un condizionamento di cui le donne sono vittime, ma non sono forse gli uomini a pagarne concretamente il fio? Quale madre insegna alla figlia a portarsi in casa un muratore anziché un avvocato o un chirurgo?
Siamo nell’era del capitalismo assoluto, quindi della mercificazione assoluta di ogni aspetto dell’agire umano e addirittura della vita stessa, in primis della sessualità; parlo, naturalmente, da un punto di vista concettuale, psicologico e culturale prima ancora che pratico. Ebbene, chi è che ha interesse ad alimentare un simile processo di mercificazione? Non certo la grande maggioranza degli uomini, e non per una questione etica (sempre ammesso che tutti i maschi siano dei bruti privi di ogni etica…) ma economica, oggettiva. Chi pagherebbe infatti per ciò che, se potesse, preferirebbe di gran lunga avere gratis? Solo uno sciocco oppure un uomo ricchissimo, al punto tale da scegliere di comprare, perché in questo modo gode nel vivere e nel manifestare il suo potere. Chi trae vantaggi da una sessualità mercificata? Una minoranza di uomini, appunto i ricchi, i potenti e i socialmente affermati, e un gran numero di donne che avendo interiorizzato quel messaggio, cioè le logiche e le dinamiche della società capitalista, vivono e concepiscono, più o meno a livello conscio o inconscio (a seconda dei casi) la loro sessualità come una merce, come una proprietà. E noi sappiamo che una proprietà non la si dona ma la si investe o la si aliena per trarne un profitto. Si obietterà:”Ma quelle donne sono delle alienate!” Giusto, ma cosa c’entra questo? Perché, la società capitalista non si fonda forse sul concetto di alienazione? E in siffatta società – come ha spiegato a suo tempo l’economista Claudio Napoleoni (concetto in realtà affrontato anche da Lukacs) – più o meno tutti sono alienati ma solo alcuni sono sfruttati.
Ma qual è quella componente, diciamo così, di natura ontologica e biologica, che ha reso possibile questo “capolavoro” del sistema capitalistico? E qui arriviamo ad una vera e propria chicca del libro di Ercolani. A pag. 241, il nostro scrive:”Nei maschi, si riscontra che i centri cerebrali correlati al sesso sono quasi due volte più grandi di quelli delle donne, cosa che spiega perché l’85% di essi, in un’età compresa fra i venti e i trent’anni, pensa al sesso ogni cinquantadue secondi (52), mentre alle femmine accade una sola volta al giorno o poco più nei momenti di fertilità (Brizedine 2006: 91). A voler essere obiettivi, insomma, se è vero che l’instabilità emotiva può creare effetti sulla vita sociale delle donne,, anche questo pensiero fisso e ricorrente degli uomini per il sesso ha le sue belle implicazioni che incidono sui rapporti inter-personali e in generale sulla resa dei maschi nelle varie attività pubbliche e private”.
Avete capito? Ercolani liquida in quattro righe una delle grandi questioni (l’altra è quella della divisione sessuale del lavoro) che da sempre hanno caratterizzato la relazione fra i sessi e che rimandano a quella diversità biologica che lui stesso riconosce. E cioè la asimmetria di bisogni e di pulsioni sessuali fra maschi e femmine che Ercolani arriva a calcolare o a dare per buona (e tutto sommato, anche io con lui) nell’ordine di un rapporto di 1400 a 1. I maschi penserebbero al sesso millequattrocento volte al giorno e le femmine una o poco più nei momenti di fertilità. Io non sono in grado di dare per certo quei numeri ma sono assolutamente convinto del fatto che il desiderio e il bisogno di sesso fra uomini e donne sia caratterizzato da una relazione assolutamente asimmetrica che pone gli uni nella condizione di dover chiedere e le altre nella condizione di poter scegliere. Chi è il soggetto debole e chi quello forte in questa relazione oggettivamente dominata dalla logica della offerta e della domanda? Chi è in una condizione di oggettiva dipendenza dall’altro? Chi pensa al sesso 1400 volte al giorno o chi ci pensa una sola volta? La risposta è fin troppo ovvia e anche Ercolani sembra avvedersene (in fondo, è pur sempre un maschio eterosessuale, più di tanto non può fingere a se stesso…). Però glissa, con grandissima disinvoltura, e riprende il suo discorso, come se nulla fosse, come se questa asimmetria conclamata (da lui stesso) non avesse ripercussioni ENORMI non solo dal punto di vista della relazione sessuale e affettiva, che vede la grande maggioranza degli uomini nella condizione di chi chiede (il rapporto si capovolge, ovviamente, nel caso di uomini economicamente e socialmente molto affermati, in grado di riequilibrare quell’asimmetria mettendo in campo un peso specifico dato dalla loro condizione sociale), ma anche dal punto di vista sociale, economico e culturale. La sessualità, viene quindi ad assumere una funzione fondamentale nell’attuale contesto storico e sociale (capitalista), perché diventa una molla fondamentale, una vera e propria pompa di alimentazione del sistema. In questo “gioco” a spingere come i muli a cui si mette la carota davanti agli occhi per farli galoppare, in virtù di quella asimmetria sulla quale il sistema capitalista si è incistato e ha fatto il suo gioco (non senza la complicità, diciamoci la verità, di un gran numero di donne, che siano consapevoli o meno, alienate o meno, è altro discorso…), è la grande maggioranza dei maschi, i quali, obtorto collo, devono fare buon viso a cattivo gioco. Naturalmente il discorso si farebbe ora lunghissimo ma non posso che rimandare ai libri e alle migliaia di articoli che abbiamo scritto su vari siti, blog ecc. nel merito.
Infine (troppo ci sarebbe da dire perché gli spunti sono innumerevoli ma non possiamo scrivere un’enciclopedia) la chicca finale. Dopo quello che in buona sostanza è un panegirico celebrativo del femminile e del femminismo, ideologia che Ercolani sposa in toto (in particolare quello della differenza), e la contestuale criminalizzazione del maschile (non c’è un solo riferimento al maschile in tutto il libro che contenga un apprezzamento, un elemento positivo nei confronti degli uomini, nulla di nulla…), spunta nell’ultimo capitalo una critica alla cosiddetta “teoria del gender”. Ma anche in questo caso la preoccupazione di Ercolani è a senso unico. Non si interroga né sulle origini né sulle conseguenze che la teoria del gender, del tutto funzionale all’ideologia capitalista di cui è un prodotto, avrebbe non solo per le donne ma in primis per gli uomini, per la società intera, direi addirittura per l’essere umano in quanto tale. Non si avvede che il “genderismo” è l’ultimo stadio di quel processo di distruzione di ogni identità (dopo quella di classe, quella culturale, ora quella sessuale) che il “tecnocapitalismo” ha posto e sta ponendo in essere (per chi lo volesse ho approfondito il discorso in questi articoli:
Il capitalismo all’offensiva su tre fronti
Il nuovo orizzonte del capitalismo /
La nuova falsa coscienza dell’Occidente e del Capitale
Non si avvede che il “genderismo” è l’ultimo stadio del femminismo, il più “evoluto” e anche il più inquietante fra i vari femminismi, il missile balistico, diciamo così, preposto all’attacco finale al maschile e finalizzato alla sua metaforica e psicologica (ma, in fondo, anche concreta) dissoluzione. La sua unica e sola preoccupazione è di tutt’altra natura. “E cioè – si chiede costernato – è mai possibile che le donne per affermare loro stesse debbano arrivare ad annullarsi? (il non detto è:”Gli uomini che si fottano pure”, visto che, nel caso specifico, non li menziona neanche, dobbiamo giungere a questa conclusione). Ma, ovviamente, è ben lontano da conclusioni di questo genere e continua a giocare la carta del femminismo “buono” e del femminismo “cattivo” (il genderismo).
In questo modo ottiene due risultati. Da una parte ribadisce la sua totale organicità al femminismo storico (quello nel quale lui è cresciuto) e quindi si mette al riparo da ogni rischio, e dall’altra fa mostra di non essere proprio uno che si sdraia a pelle di leopardo ma è anche capace di sviluppare una critica, sia pure nelle forme e con le finalità che abbiamo detto.
In conclusione, una nota personale. Leggo spesso gli articoli di Ercolani in materia di politica, di politica internazionale o culturali, e non ho nessuna difficoltà nel riconoscere che il più delle volte mi trovo a condividere le sue idee. E allora – mi sono chiesto e glielo ho già chiesto – come è possibile che un lucido e colto intellettuale marxista, in grado di elaborare una critica complessiva e puntuale allo stato di cose presente, diventi poi più realista del re, un “pesce morto che nuota nella corrente”, quando si affrontano i temi legati al femminismo e alla relazione fra i sessi?
Ho la presunzione di avere le risposte ma non è questo l’oggetto del dibattito.
P.S. i maligni e gli opportunisti potrebbero replicare sostenendo che stiamo alimentando una guerra fra i sessi. Nulla di più falso. Quella la sta portando avanti il femminismo, in tutte le sue salse, da mezzo secolo a questa parte; un depistaggio ideologico, anche se ben camuffato, che serve a sostituire il conflitto di classe con quello fra i sessi. Noi ci vediamo costretti ad affrontare alcuni aspetti che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la relazione fra i sessi – come ad esempio la divisione sessuale del lavoro con tutte le sue conseguenze – proprio per svelare la menzogna in base alla quale, secondo quell’ideologia, la totalità degli uomini avrebbe goduto e continuerebbe a godere di una posizione di privilegio e di dominio nei confronti della totalità delle donne. Una interpretazione oggettivamente sessista e interclassista che nulla a ha a che vedere con una logica di classe e con una critica fondata all’attuale sistema capitalista.