E’ trascorsa una settimana dal voto europeo e mi sembra giusto cominciare a fare qualche riflessione relativamente a “freddo”, a bocce ferme, come si suol, dire, o quasi, sui risultati ottenuti dalle varie formazioni politiche. E’ bene iniziare dal risultato più eclatante e politicamente più rilevante (insieme alla sconfitta del M5S che però merita anch’essa una riflessione a parte) e cioè il trionfo del Partito Democratico in versione renziana
Andiamo per ordine.
Ho sentito in questi giorni molti osservatori ed analisti politici avanzare dei parallelismi tra il PD renziano e la vecchia Democrazia Cristiana. Sono solo parzialmente d’accordo, perché è vero che ci sono degli elementi che li accomunano ma è altrettanto vero, a mio parere, che la natura e in parte anche la “mission” dei due partiti sono profondamente diverse.
La Democrazia Cristiana, come il PD, era un partito interclassista che però, a differenza del secondo, operava una reale mediazione sociale. La conciliazione o il tentativo (in parte riuscito) di conciliazione fra le parti sociali e fra stato e mercato, costituiva il cuore e la natura di quel partito nonché il baricentro della sua azione politica. La DC si poneva come momento di incontro e di mediazione fra il capitalismo e la dottrina sociale della Chiesa. Lo Stato era appunto concepito come il luogo di questa mediazione, come l’istanza politica in grado di fungere da ammortizzatore politico e da regolatore sociale, con l’obiettivo strategico di disinnescare il conflitto sociale attraverso una politica di redistribuzione che, se da una parte favoriva i grandi gruppi industriali che dominavano la scena economica e produttiva, dall’altra consentiva il mantenimento di un relativamente robusto stato sociale contestualmente a un massiccio intervento dello stato nell’economia che garantiva un livello di occupazione relativamente stabile e soprattutto sicuro.
Questa strategia che sul lungo periodo ha avuto anche delle conseguenze negative che ben conosciamo (crescita del debito pubblico, assistenzialismo, clientelismo, dissipazione di denaro pubblico, occupazione dello stato e della pubblica amministrazione da parte dei partiti, consociativismo, crescita abnorme di un ceto burocratico in larghissima parte parassitario ecc.), è stata tuttavia anche quella che da un certo punto di vista e per un periodo di tempo relativamente lungo (il “trentennio glorioso” …) ha contribuito ad arginare (contestualmente alla presenza di un relativamente forte movimento operaio organizzato e di una Sinistra storica, socialdemocratica e comunista, ancora robusta) la marcia trionfale del neoliberismo.
Il PD renziano va invece nella direzione esattamente opposta. Esso è chiamato a rompere definitivamente quel vecchio patto sociale, del resto già fortemente indebolito dai precedenti governi sia di centrodestra che di centrosinistra, fin dal tempo del crollo della cosiddetta Prima Repubblica. Il vero obiettivo strategico di Renzi e del partito e del governo da lui guidati è la precarizzazione assoluta del lavoro e dei lavoratori, cioè delle persone in carne ed ossa, che devono essere ridotte ad una massa di precari co.co.pro. privi di qualsiasi garanzia e potere contrattuale. E’ questo il cuore della “cosiddetta “modernizzazione” renziana. E’ cioè il portare a compimento quel processo di “modernizzazione” capitalistica già timidamente avviato nel nostro paese (cominciò in parte Craxi e continuarono, alternandosi al governo, Berlusconi e poi Prodi e D’Alema) ma non certamente concluso appunto perché arenatosi sulle secche di un sistema politico e di un apparato amministrativo “obsoleto”, giudicato ormai (non a torto, dal punto di vista dei “padroni del vapore”) del tutto inservibile se non addirittura di ostacolo al pieno dispiegarsi del capitalismo assoluto, che non ha bisogno di nessun tipo di mediazione, sia essa di ordine politico, etico o culturale.
Il PD di Renzi è quindi la rappresentazione politica del nuovo ordine sociale dominante che ha necessità di disfarsi di tutti quei residui legacci (legislazione del lavoro, diritti sindacali, welfare, cultura della conflittualità, contrattazione collettiva ecc.) che in un’altra fase storica lo hanno anche se paradossalmente in qualche modo garantito e protetto proprio dalla conflittualità sociale che è il risultato necessario e inevitabile dei rapporti di produzione capitalistici. Non sono più sufficienti la privatizzazione sia pur selvaggia della cosa pubblica o la cartolarizzazione di questa o quell’azienda. La posta in gioca è molto più alta ed è la ridefinizione, anche dal punto di vista legislativo e giuridico (e ovviamente politico) dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, a scapito ovviamente di quest’ultimo.
Nessuno era arrivato a tanto fino ad ora, non per incapacità soggettiva di questo o quel leader politico ma perché non c’erano le condizioni politiche e storiche per portare avanti quel progetto. Oggi, purtroppo, in assenza di una vera conflittualità sociale e di forme politiche adeguate a rappresentarla, è possibile procedere in quella direzione.
Ancora una volta, come vediamo, sono le “strutture”, cioè i contesti storici, sociali, politici e culturali, a determinare gli uomini e i leader politici, e non viceversa. Sbaglia, dunque, chi capovolge completamente questo paradigma e attribuisce al solo aspetto soggettivistico e personalistico l’esito delle elezioni.
Renzi è a dir poco un nano politico rispetto a leader e a uomini di stato come Andreotti o Craxi (dei quali siamo stati fieri avversari, ma ora il problema non è il giudizio su quei personaggi bensì l’analisi lucida, per quanto è nelle nostre possibilità, delle cose) e proprio per questo è un prodotto dell’attuale contesto, colui che più e meglio di altri rappresenta lo “spirito dei tempi”, ed è per questo che risulta vincente. Se penso al personaggio Renzi lo immagino in tutta sincerità in una trasmissione della De Filippi oppure mentre esulta allo stadio quando segna la Fiorentina insieme a quell’altro “bischero” del fratello di Della Valle (si fa per dire perché Renzi è astuto, spregiudicato ma niente affatto stupido).
Renzi non ha neanche un briciolo della stoffa, del peso e della caratura politica dei grandi leader della Prima Repubblica. Ricordo che il presidente dell’ENI, Enrico Mattei, praticamente un gigante rispetto al guitto fiorentino, fu assassinato perché osò contrastare il monopolio delle multinazionali del petrolio americane e perché era portatore di una diversa concezione del rapporto con quei paesi che si erano appena liberati dal dominio coloniale, in particolare quelli del nord Africa.
Craxi arrivò a schierare i carabinieri presso la base militare di Sigonella contro i marines americani per impedirgli di mettere le mani su un gruppo di fedayn palestinesi che avevano sequestrato una nave da crociera italiana uccidendo un cittadino americano (mutatis mutandis, è come se oggi il capo del governo di un paese dell’UE impedisse, con la forza, alle teste di cuoio USA o israeliane di arrestare un commando terrorista reo di aver compiuto e rivendicato un attentato che ha portato all’uccisione di alcuni loro cittadini, e di aiutare i suoi membri a sfuggire alla cattura …). Li caricò su un aereo e li fece rifugiare in un paese a loro non ostile che gli riconobbe asilo politico. Qualcuno sostiene che gli USA e Israele se la sarebbero legata al dito ma, ripeto, non è questa la sede per un’analisi di quella fase storica e degli “attori” politici che l’hanno interpretata, né tanto meno è sufficiente quell’episodio per fare di Craxi un eroe dell’antimperialismo.
Craxi, al di là della sua vicinanza ideale alla causa palestinese e alla sua personale amicizia con il leader dell’ANP, Arafat, agì in quel modo perché si fece interprete di una strategia di politica internazionale, in particolare nell’area del Mediterraneo, che ha caratterizzato per lungo tempo la politica estera italiana (comunque nell’ambito dell’alleanza atlantica) e che ha visto in quella fase la convergenza delle tre principali forze politiche italiane dell’epoca, cioè la DC, il PCI e il PSI. Tutto ciò al netto della sua statura e delle sue capacità personali (così come quelle di altri leader) che non possono essere disconosciute, al di là della più totale distanza che possiamo nutrire (e che ho personalmente nutrito) nei confronti della sua politica perché, come già ho detto, proprio l’ultimo leader del PSI in ordine di apparizione è stato il primo interprete del processo di “modernizzazione” del capitalismo italiano.
Diversamente da Craxi, Renzi non sarebbe neanche capace di schierare una pattuglia di vigili urbani per impedire ad un gruppo di turisti americani ubriachi di tuffarsi nella Fontana di Trevi …
E questo non solo per inanità e inconsistenza personale ma perché Renzi è figlio di quella cultura politica del tutto subordinata all’economia e al mercato. E anche in questo c’è una differenza fondamentale sia con la DC di Andreotti, Moro o Fanfani che col PSI di Craxi. Quelle forze politiche e quegli uomini, che a loro o ad altri piacesse o meno, erano comunque figli del primato gramsciano della politica, si ponevano cioè non solo come dei meri esecutori o amministratori dell’economia (capitalistica) ma in qualche modo cercavano di governarla e di indirizzarla, per quanto fosse possibile, sia pure, sia chiaro, nell’ambito di una concezione liberale e capitalistica.
Attenzione però, questo non significa nel modo più assoluto sottovalutare il “fenomeno Renzi” che, stante la situazione, riesce comunque a compiere un capolavoro politico. Riesce cioè ad accreditarsi presso la “opinione pubblica” come il “rottamatore” per eccellenza ma al contempo anche come il “rassicuratore sociale” (quando in realtà “rottamatore” lo è per davvero, ma dello stato sociale e del lavoro), e da questo punto di vista vince la battaglia con Grillo e il M5S, sul loro stesso terreno. Riesce quindi a prosciugare letteralmente il “centro” dello schieramento politico e a dimagrire copiosamente il centrodestra e Forza Italia, ormai al capolinea e privi di ogni ruolo, dal momento che la loro funzione è stata completamente assorbita dal “nuovo” PD.
Non solo, riesce a tirarsi dietro l’elettorato (e anche l’apparato, a partire dai cosiddetti “giovani turchi”, cioè la nuova guardia di formazione dalemiana che certo non hanno nessuna intenzione di tornarsene a casa o di lavorare alla costruzione di una improbabile formazione di “sinistra” con SEL; anzi, è altamente probabile che quest’ultima si spacchi e una parte confluisca nel PD) del vecchio PDS-DS in un’operazione di traghettamento che però, va detto, ha radici antiche, diciamo così, e non può essere ascritta ai “meriti” del solo Renzi ma proprio a quella cultura che affonda le sue radici nella storia e nella concezione politica togliattiana grazie alla quale la nomenclatura post pci-pidiessina-diessina è riuscita appunto a traghettare un popolo da Gramsci a Renzi, passando per Berlinguer, D’Alema e Veltroni (che poi è stato l’anticamera di Renzi; quella di Bersani è stata solo una parentesi, un modesto e anche maldestro rigurgito del vecchio apparato per restare a galla), e a convincerlo in qualche modo che tra Gramsci e Renzi, passando per tutti gli altri di cui sopra, c’è un sostanziale filo conduttore. Anche e soprattutto questo, da un punto di vista squisitamente di scienza politica, è una specie di capolavoro trasformistico (non vissuto però come tale dalla gran parte del popolo pidino, e questo è il vero capolavoro) che, va riconosciuto, è riuscito solo al PCI-PDS-DS e a nessun altro partito italiano ed europeo.
In conclusione, siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, figlio dell’attuale contesto, che mantiene però anche delle radici antiche.
Ciò detto, il quadro potrebbe sembrare inquietante, e in parte lo è senz’altro. Personalmente però non sono pessimista, perché i numeri ci dicono che il PD e i partiti satelliti rappresentano solo la minoranza dell’elettorato; resto convinto che la gran parte di coloro che non sono andati a votare sono in una posizione di dissenso nei confronti del governo. Se sommiamo quei voti a quelli delle forze politiche di opposizione (chiarisco che non considero Forza Italia una reale forza di opposizione) ci accorgiamo che il consenso alla “governance” che si incarna oggi nella neo-tecnocrazia “nuovista” e “giovanilista” renziana, non è poi così sterminato come vorrebbero farci credere.
Rinvio però l’analisi delle altre forze politiche ad un successivo articolo.