Nel mondo
concreto, reale e terribile in cui viviamo sostenere l’impossibilità di una trattativa
potrebbe essere interpretato come un inguaribile spirito catastrofista in buona
compagnia con le varie tendenze e mode che albergano nella sfera comunicativa.
Generalmente nella lotta tra Stati la realizzazione strategica di un fine convive
più o meno forzatamente con la misura del possibile, del concreto obiettivo
raggiungibile, con quella che è definibile come Realpolitik. C’è una lunga casistica storica, per fermarci
al XX secolo, che conduce alla Realpolitik della trattativa, della sospensione,
della tregua, tranne il caso della nemicità assoluta, la lotta al nazismo. La
sconfitta non è sinonimo di disfatta totale, può significare una battaglia,
anche importante, persa, ma nel nostro Occidente collettivo ormai non c’è più
spazio per la mediazione, per la tregua o anche per una momentanea parziale
sconfitta. E’ solo un atteggiamento ideologico delle elité occidentali oppure
in parte rivela l’impossibile e concreta accettazione di una possibile
sconfitta del mondo unipolare? Non è facile arrivare a conclusioni e dare una
risposta indicativa, ma una cosa è assodata: la guerra mondiale è in corso, la
posta in gioco è alta. Su questo credo che la comunità allineata con la Nato e
i suoi antagonisti sono parimenti d’accordo. Al di là della narrazione
ideologica, quali sono i motivi concreti che conducono a una guerra continua e
sempre più larga, dove lo spazio per la mediazione si restringe sempre più
velocemente?
Si cadrebbe in
errore, se pensassimo che la posta in gioco siano i territori del Donbass, che
la partita sia principalmente il territorio anche in altri scacchieri, seppure
si tratti dell’area più importante di un paese strategico come L’Ucraina. Si
combatte da almeno dieci anni per la definizione della supremazia sulla fascia
euroasiatica, cuore strategico dei flussi economici, commerciali e finanziari
del XXI secolo. L’Ucraina, terra di confine da sempre, tra il mondo
slavo-europeo e il mondo orientale asiatico, è la porta di accesso verso il
Caucaso e l’Asia centrale. A differenza di molti analisti anche illustri, non
credo che l’obiettivo strategico della guerra attuale contro la Russia sia
l’indebolimento dell’UE. La crisi economica che investe in particolare la
Germania, ma suscettibile di allargarsi al resto dei paesi europei, è solo un
effetto collaterale, della scelta delle elitè anglosassoni di colpire la Russia
in profondità e della totale subalternità delle classi dirigenti europee. Una
parte preponderante dell’establishment anglosassone da molti anni persegue
l’obiettivo della distruzione della Federazione Russa o tramite tentate “rivoluzioni
colorate”, o con il sostegno militare e finanziario al terrorismo islamico (vedi
Cecenia) e dai primi anni novanta attraverso la costruzione dell’Ucraina
russofoba e filoatlantica in cui le forze naziste e ultranazionaliste sono
state l’ariete per determinare il cambio violento di regime e iniziare la
guerra civile nei territori russofoni del Donbass.
Perché la
distruzione della Federazione Russa o il suo forte indebolimento strategico?
Essenzialmente
per due ragioni esposte nella dottrina Brzenziski già alla fine del secolo
scorso e ripresa nei documenti dei neocons nel primo decennio di questo secolo
ovvero il grande ostacolo russo come superpotenza nucleare e le grandi risorse
naturali e materie prime che ne fanno oggettivamente una grande torta da
spartire. La Russia di Putin, che ci piaccia o meno, oggi sembra in grado di
impedire i sogni imperiali dei gruppi di potere anglosassoni di dominare il
centro euroasiatico. Non è quindi possibile mediare, conciliare con chi
rappresenta un ostacolo strategico. La Nato è solo lo strumento militare della
pressione angloamericana per raggiungere questo obiettivo strategico. A mio
avviso la natura più profonda non sta soltanto nella necessità dell’espansione
del Lebensraum atlantico, ma vede la sua più recondita ragione nell’ontologica
crisi dell’occidente. E’ crisi del suprematismo economico, politico e valoriale
che si fa irreversibile proprio a partire dal momento della sua massima
espansione politico militare e culturale. L’apogeo unipolare dopo l’89 e lo
sviluppo potente della globalizzazione dei mercati finanziari egemonizzati dal
cerchio magico occidentale e le guerre in Medio Oriente hanno fatto credere di
poter vivere eternamente in un mondo egemonizzato dall’ “Ordine internazionale
secondo le regole”.
La
posta in gioco è quindi il mantenimento dell’ordine unipolare basato sulle
regole.
Ma vediamo quali sono i capisaldi teorico normativi di questo ordine: il mondo è diretto secondo le regole che sono fissate a Washington e in poche altre capitali, la globalizzazione e il libero mercato sottendono una supremazia del dollaro e delle regole finanziarie stabilite dalle organizzazioni internazionali egemonizzate dagli anglosassoni (FMI, BM, WTO); quando uno o più paesi del Sud Globale ovvero tutto ciò che non è occidente, si permette di portare avanti progetti economici, istituzioni alternative (come i Brics, SCO) o sistemi politici che ostacolano il dominio occidentale, l’ordine basato sulle regole autorizza la/e potenza/e egemone/i a colpire prima con la guerra economica (sanzioni) e poi, se è necessario, con l’aggressione militare coloro che non si piegano ai diktat dell’Ordine basato sulle regole. Ora sul piano mondiale vi sono solo due potenze militari in grado di imporre ancora, anche se con qualche difficoltà in più rispetto al passato, l’OIR (Ordine Internazionale delle Regole): gli Usa e il suo avamposto strategico in Medioriente, lo Stato di Israele. L’evidenza dei fatti rende questo schema difficilmente discutibile e interpretabile. Il motivo più profondo della grande guerra in corso o della terza guerra mondiale a pezzi, è che il 24 febbraio 2022 un attore strategico come la Russia, potenza regionale economica ma superpotenza sul piano militare e geopolitico, ha deciso di mettere in crisi, per motivi difensivi e di sopravvivenza, non certo per scelta offensiva, l’asse anglosassone-polacco e di conseguenza tutto il carrozzone burocratico tecnocratico dell’UE, che segue senza alcuna autonomia politica le decisioni che si prendono a Washington e Londra. Il punto è che se oggi l’Ucraina e quindi la Nato perdesse la guerra e quindi dovesse sottostare alle condizioni molto chiare poste dal Cremlino, ciò segnerebbe una sua sconfitta strategica, ben più grave del disastro afghano e irakeno. La neutralità dell’Ucraina, la fine dell’espansione militare della Nato a est avrebbe delle conseguenze esiziali sulla capacità della superpotenza di imporre e far rispettare l’ordine internazionale delle regole atlantiche, narrate come regole di una presunta comunità internazionale.
L’entità
tecnocratica ed economica dell’UE sarebbe sottoposta a una gravissima crisi
interna con forze centrifughe che in parte spingerebbero verso l’adesione al
multipolarismo dei Brics ma soprattutto a un rapporto economico con la Cina e
rimetterebbe potenzialmente la Germania nelle condizioni di ritornare alla linea
della Ostpolitik, della potenza pacifica economica. Entrerebbe in crisi in
maniera forse irreversibile l’architettura tedesco francese dell’Ue o
quantomeno ci si troverebbe di fronte a un bivio storico: andare alla
riconciliazione con l’orso russo e avvicinarsi di fatto a un nuovo mondo o
convertire l’intero apparato economico per una guerra con la Russia.
Sia la prima che
la seconda ipotesi sono francamente difficili da immaginare ma soprattutto da
praticare. La prima perché significherebbe staccarsi dall’orbita e
dall’ombrello nucleare americano sia perché le classi dirigenti a ogni livello
dai parlamenti nazionali fino al Parlamento europeo sono largamente egemonizzate
dalla corrente americana e sionista. Per la seconda in quanto l’insieme della
società europea che non conosce una guerra diretta dall’ultimo conflitto
mondiale, che ha scelto negli ultimi trenta anni di cancellare gli eserciti di
leva sostituiti da corpi ristretti professionali adatti alla controguerriglia e
alla lotta contro il “terrorismo” ma non certo a una guerra in grande scala,
hanno lasciato il lavoro sporco allo zio Sam in tutti questi anni. La propria
capacità di esercitare la politica di potenza è pari a zero, le ultime vicende
francesi nell’Africa centrale lo dimostrano ampiamente. Non rimane quindi al cerchio tecnocratico di
Bruxelles che di seguire fino in fondo la declinante potenza Usa costi quel che
costi. La sua integrazione al circuito economico finanziario anglosassone, la
dipendenza politica dalle scelte maturate dall’apparato politico militare USA
in settanta anni di storia, non si sciolgono così facilmente, non lasciano
spazio alla minima autonomia. Tertium non datur. Senza mai dimenticare, in
ultima istanza, ma non meno significativa che l’Europa è disseminata di basi strategiche
(nucleari) americane. Gli Europei sono vittime ancora dell’esito della Seconda
guerra mondiale e le loro classi dirigenti, sostenute ancora da una buona e
consistente maggioranza delle massi popolari, nelle forme più varie, dalla
passività impolitica al consenso diretto, anche se sempre più limitato di parte
di esse, ci conduce direttamente ad essere in qualche modo in questa lunga e
grande guerra l’agnello sacrificale. Chiaramente saranno le masse popolari
delle classi subalterne, la classe operaia delle fabbriche e dei servizi e la
parte bassa della piccola e media borghesia quelle a pagare il prezzo più alto,
su questo non c’è alcun dubbio. Ma il nodo più profondo che rende la
conciliazione o la trattativa altamente improbabile, e ciò al di là dei
desideri e delle posizioni dei singoli presidenti americani, è che gli USA, ancora
oggi capofila riconosciuti e temuti dei paesi occidentali, non possono
permettersi una sconfitta sul piano militare, forse l’unico campo in cui la loro
potenza risulta relativamente declinante, perché ciò incrinerebbe un’idea
secolare incardinata di potenza coloniale, di presunta supremazia morale, di
fatto basata sulle cannoniere e sul terrorismo economico e finanzario. In tutti
gli altri campi, il miliardo d’oro occidentale di borrelliana memoria si sta
già dispiegando sulla difensiva, se pensiamo soltanto al fatto fino a pochi
anni fa inconcepibile, che la supposta e decantata patria del libero mercato è
costretta a mettere in campo le più aggressive politiche protezionistiche per
impedire l’invasione dei prodotti ad alto valore aggiunto cinese sul mercato
americano ed occidentale. Questo è solo un parziale ma non irrilevante aspetto
della lotta economica mondiale tra blocchi e stati. Altro aspetto non
secondario nei rapporti sociali contemporanei è la questione su quanto la
perdita di potenza/prestigio possa avere delle profonde ricadute
nell’immaginario concreto sovrastrutturale che nelle sue varie e pervasive
forme domina la società contemporanea, a partire da quella occidentale. Toccare
con mano la fine del suprematismo coloniale e la fine della “buona vita”
occidentale dove ci porterà? Aprirà delle faglie in direzione della liberazione
e dell’emancipazione o saremo inconsapevoli e a volenterosi carnefici di noi
stessi? Non resta alle elitès che imbarcarsi in una lunga
guerra di annientamento e Israele è l’attore adatto e affidabile per
sperimentare dove si possono spingere pur di non perdere. L’idea novecentesca della guerra totale torna di nuovo attuale. Dalle
nostre parti c’è ancora scarsa consapevolezza della posta in gioco, poco si
muove di serio e consistente almeno nella vecchia Europa.
Mala tempora currunt.
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