E’ assurta in questi giorni agli onori della cronaca la preoccupante vicenda delle esplicite minacce rivolte, a mezzo lettera, al giornalista della RAI FVG Giovanni Taormina, “reo” di aver svolto inchieste sui loschi affari di ‘ndrangheta e mafia in regione. La notizia è stata data con grande risalto, scandalo e attestazioni di solidarietà non si sono fatti attendere: in prima fila le associazioni sindacali di categoria, ma pure il Presidente Fedriga e il suo vice Riccardi hanno condannato l’odioso episodio, manifestando la propria vicinanza al cronista.
Reazioni sacrosante e doverose: la libertà di informazione va sempre difesa, specie quando a metterla in pericolo sono organizzazioni criminali ramificate e senza remore a passare dai segnali ai fatti. Un caso, quello di Taormina, che si aggiunge a innumerevoli altri: nomi noti come Saviano e Federica Angeli sono solo la punta di un iceberg, nella cui parte sommersa ritroveremmo coraggiosi pubblicisti e, purtroppo, (per restare in Italia) qualche vittima non adeguatamente protetta in passato dal nostro Stato.
Solidarietà doverosa, dicevo: per molti, ma non per tutti. La foto dell’arresto di Julian Assange, trascinato fuori dall’ambasciata ecuadoregna a Londra da quattro energumeni in borghese sotto lo sguardo ghignante di un poliziotto, non mi risulta aver suscitato particolare indignazione né fra i “colleghi” né fra i politici occidentali – con lodevoli eccezioni, che rimangono però tali. Qualcuno ha osservato che l’uomo mostra assai più dei suoi 47 anni (la mia stessa età), ed in effetti è così, è normale che sia così: sette anni di permanenza in un ambiente chiuso senza potersi permettere il lusso di una passeggiata prostrerebbero chiunque, ma l’impressione di fragilità suggerita da sguardo spaesato e barba bianca è dovuta in primo luogo alla violenza subita. Sembra l’immagine colta al volo di un sequestro, non fosse per la presenza beffarda sulla scena di un agente in uniforme scura.
Peccato che Scotland Yard stia assicurando alla “giustizia” non un assassino, un terrorista o un facinoroso, bensì un giornalista investigativo, sia pure sui generis. Inutile ricordare chi sia o cos’abbia fatto Assange: lo sanno tutti, ma forse non tutti si interrogano sulla giustificabilità, dal punto di vista democratico, del trattamento riservatogli in Occidente da un decennio abbondante e di quello cui sta pericolosamente andando incontro. Il fondatore di Wikileaks mai è stato accusato di essere un falsario: la sua “colpa” è aver svelato al mondo intrighi, segreti e delitti di un’organizzazione incomparabilmente più potente di tutte le mafie messe insieme – gli Stati Uniti d’America, sedicente “Impero del Bene”. Alle sue fonti si sono abbeverati migliaia di giornalisti in giro per il mondo, che adesso però si voltano dall’altra parte per non vedere, lasciando semmai la parola (di condanna del reprobo, proclamato a priori “spia dei russi”) ad agitprop euroatlantici quali l’incommentabile Gianni Riotta.
In genere, memori della lezione di Pilato, i media occidentali e italiani non prendono posizione: trasmettono sobriamente la notizia – non in prima pagina – e ammanniscono due informazioni biografiche, immancabilmente farcendole con le risibili accuse di stupro di due procaci svedesine infilatesi una decade fa nel letto di Assange a fini di (altamente opportuna) denuncia. La strumentalità delle citate accuse apparirebbe chiara anche a un bambino, ma evidentemente i nostri mass media non sono gestiti da gente granché sveglia… da allora comunque il fondatore di Wikileaks è un reietto in fuga, cui solo il coraggio dell’ex Presidente dell’Ecuador Rafael Correa ha concesso di trovare asilo. Fino a ieri, cioè fino a quando Giuda Moreno, un Guaidò travestitosi inizialmente da Maduro (“il più grande traditore della Storia del Sudamerica e dell’Ecuador” secondo il predecessore), ha spalancato le porte dell’ambasciata ai poliziotti britannici.
Non vale la pena che mi dilunghi, gli elementi li abbiamo tutti: c’è un divulgatore di informazioni veritiere e di assoluto interesse pubblico che è al contempo un uomo solo, una persecuzione legale ordita contro di lui da un concerto di “democratici” Paesi occidentali e basata oltretutto su accuse inconsistenti, un rischio gravissimo per la vita stessa di Assange nell’eventualità non improbabile di un’estradizione negli USA (e non in Svezia, chissà perché…). C’è parecchio, insomma, ma stranamente manca – lo ribadisco – l’attivo sostegno del mondo politico e giornalistico al minacciato. Forse perché le “informazioni veritiere e di assoluto interesse pubblico” coincidono con segreti inconfessabili della più grande potenza globale? Fate voi, lettori.
Mi viene in mente un detto, meno inappropriato alla vicenda di quanto a prima vista appaia: “scherza coi fanti, ma lascia stare i santi” – vale a dire: smascherare i criminali è lodevole, purché si tratti di boss di mezza tacca e non dei padroni del mondo, legibus soluti e perciò intoccabili. Certe cose è proibito persino sussurrarle, perché chi sta ai vertici dell’establishment politico-economico-militare statunitense (cfr il commento di Hillary Clinton sull’arresto) non è un mafiosetto qualunque, e la sua collera, ma pure la sua influenza, arrivano assai più lontano nello spazio e nel tempo.
Qualche giorno fa, commentando una riflessione dell’amico e compagno Fabrizio Marchi a proposito di ciò che il sistema ci lascia o meno liberi di dire, rilevavo che – anche al di là dei tabù informativi da lui individuati (Israele e femminismo) – esistono delle “zone di sicurezza” in cui non è permesso addentrarsi: è lecito, certo, criticare l’America, il Capitale ecc., ma a patto che le nostre risultino invettive da Speakers’ corner, non suscitino cioè un’eco diffusa né si traducano in fatti conseguenti. In caso contrario l’attuale sistema reagisce con la spietata durezza tipica dei totalitarismi, categoria alla quale – benché abilmente camuffato – appartiene in pieno.
Il caso Assange comprova l’asserto: non è dunque solamente per quest’uomo, è per noi stessi e le generazioni future che dobbiamo chiedere con forza la sua liberazione, in nome della democrazia, del diritto e di una libertà d’espressione e informazione che il regime capitalista concepisce, tutt’al più, come una revocabile licenza.
Fonte foto: Valigia Blu (da Google)