Con
il tempo mi sono dovuto convincere che l’ironia è molto sopravvalutata. I
concetti si evolvono e si trasformano storicamente all’interno di quadri
ideologici che li rendono di volta in volta concreti. Questo implica
immediatamente che spesso ci ingarbugliamo con le parole, perché magari ci
affezioniamo a un certo significato di un termine che, però, concretamente, è
cambiato. Non si tratta soltanto di slittamenti semantici. Poiché l’ideologia è
una forza materiale, alcuni concetti sono arnesi al suo servizio.
Per
Kierkegaard, filosofo profondamente religioso ma anche severo critico della
chiesa luterana e del moralismo borghese nella Danimarca della prima metà
dell’Ottocento, l’ironia era l’atteggiamento di necessario distacco da adottare
nei confronti del mondo. Questo doveva, nella sua immediatezza, essere negato,
per far emergere la personalità del singolo, aprendo uno squarcio verso la
dimensione religiosa, vissuta non in modo esteriore, ma nella sua intimità profonda.
Per superare l’astrazione e l’apparenza del mondo e della società, scoprendo la
propria singolare autenticità, occorre non dare nulla per scontato. Passare
tutto al setaccio.
Del
tutto diverso è il senso dell’ironia, o meglio la sua funzione concreta, da
quando è divenuta uno dei tasselli dell’ideologia politicamente corretta.
L’ironia kierkegaardiana serviva a mettere il mondo alla giusta distanza
prospettica, come prerequisito per scoprire la soggettività autentica. L’ironia
cosmopolita serve all’auto-esaltazione del soggetto, che si trincera dietro la
sua presunzione di superiorità culturale e addita l’oggetto sul quale di volta
in volta si esercita soltanto in funzione di sé stessa. È dunque narcisistica,
e cioè costitutivamente inautentica, perché chiede continuamente a chi osserva
non solo di situarsi dal proprio punto di osservazione, ma anche di essere
guardata e ammirata. L’ironia cosmopolita serve per costruire attorno al
soggetto che la esercita una zona di contegno, di elezione, di presunta altezza
culturale, di superiorità. Per chi altro questa proposta può risultare
convincente e attrattiva, se non, in primo luogo, per il ceto medio collassato
che continua a vivere in una immagine residuale di sé, in quanto “colto” e
progressivo, sedotto da un’idea illusoria di libertà, stereotipato nella sue
pose emancipatorie, e del tutto alieno a una prospettiva di classe?
L’ironia
cosmopolita serve esattamente al contrario rispetto a quella metodicamente
praticata dal filosofo danese dell’Ottocento. Serve, cioè, a dare proprio tutto
per scontato. A confermare l’universo-mondo con tutte le sue apparenze. A
nascondere sotto al suo involucro la totale mancanza di pensiero, di analisi e
di ricerca di autenticità. Diversamente dall’ironia kierkegaardiana, e da
quella socratica cui la prima si agganciava strettamente, questa ironia
cosmopolita è totalmente ego-riferita.
Salottiera
e boriosa, si pone in diretta relazione all’utente ben fornito delle stesse
caratteristiche. Si pretende sagace e pungente. Vorrebbe irritare il retrivo,
ma irrita soltanto chi ancora ragiona e non ne può più delle saccenti
emanazioni del capitalismo woke, infliggendogli al più un paio di minuti di
stucchevole stupore e noia mortale prima dell’immediato cambio di canale. Lasciando, per contro, ben incollato allo
schermo il pubblico auto-compiaciuto desideroso di accorrere alla distribuzione
della sicumera e dell’altezzosità.
L’ironia
cosmopolita si muove sempre sulla superficie e per questo non richiede allo
spettatore alcuna fatica, offrendogli l’immediata identificazione con la parte
che detiene la superiorità morale e civile. L’ironia kirkegaardiana costa
invece sofferenza, ripagata con la scoperta dell’individualità più autentica (per
altro senza poter offrire alcuna garanzia definitiva); quella cosmopolita senza
darsi alcuna pena dispensa subito il bagno di massa nel conformismo neoliberale,
mentre si presenta con pose anticonformiste.
Il
suo anticonformismo, diversamente da quello, scomodissimo, di Kierkegaard, è di
pura facciata, perché in realtà la pratica di questo tipo di ironia ha tutte le
patenti di legittimità e le benedizioni del pensiero conforme. Non per nulla il
filosofo visse ai margini della società, dalla quale le moderne “ironiste” sono
invece osannate e sbaciucchiate. L’ironia cosmopolita è al servizio permanente
dell’ideologia dominante, alla quale fornisce il suggello dell’intrattenimento
culturale “intelligente” e “progressista”.
L’ironia
cosmopolita plasma in una forma di massa il sentimento perfetto delle élite
progressiste. “democratiche” e “liberali”, la cui tipica emanazione politica è
la sinistra di sistema politicamente corretta. Serve loro perché devia la
critica, o la satira, lontano dal conflitto sociale, nei luoghi sterilizzati
del salotto e dell’auto-investitura culturale. È uno degli innumerevoli esiti
di un’arte che non deve più far male, ma solo piacere e compiacere. Non tocca
il potere, lo protegge con cura.
L’ironia
cosmopolita, dunque, non è propria delle persone libere, ma delle persone
servili, che hanno confuso la libertà con l’amplificazione dell’io narcisistico
vezzeggiato dall’ideologia di mercato. Che si sono fatte sedurre dai luccichini
della “libertà”, ma di una libertà che è stata deprivata del tema della
liberazione dal bisogno. Insomma in questa ironia così mediatica, apprezzata da
un pubblico tendenzialmente “di sinistra”, si riflette perfettamente la
mutazione genetica della sinistra basata sulla liquidazione della questione
sociale e dei diritti sociali, sostituiti dai diritti individuali neoliberali,
cosmetici e telegenici; dall’antifascismo nominalistico volentieri sbandierato
dalla sinistra di sistema proprio mentre ha fatto a pezzi la Costituzione del
‘48; dalla focalizzazione unilaterale sulla “questione di genere” in
sostituzione del conflitto di classe e come strumento per la sua
neutralizzazione. Negli ultimi
tre-quattro decenni, questo apparato ideologico è stato funzionale al trionfo dell’ideologia
di Mercato.
Non
sorprende che Geppi Cucciari sia presto diventata icona di ironia per schiere
di semi-colti che hanno interiorizzato, sotto le mentite spoglie
dell’estensione della sfera della libertà individuale, l’ideologia di mercato
con il suo corredo ideologico politicamente corretto, che nasconde i pilastri
dell’individualismo competitivo e dell’Impresa di sé stessi. Esaltata dal mainstream
– come sorprendersene –, è tipicamente celebrata come donna “forte” e “libera”
perché è altrettanto funzionale e organica al femminismo neoliberale, asse
portante del politicamente corretto, all’interno del quale svolge la funzione
specifica e altamente efficace di spostare la linea del conflitto sulle
differenze di genere, alimentando la guerra orizzontale tra i subalterni.
Questa costruzione ideologica è in realtà estremamente fragile e si sbriciola
non appena la si analizzi con un minimo di serietà (basti dire che le
sperequazioni sociali crescono trasversalmente ai sessi mentre si straparla di
patriarcato come fondamento strutturale della società odierna). Chi sostiene
questo debolissimo castello, che ha tante torri ma è privo delle fondamenta, sarebbe
disarmato senza il suo arsenale di ironia cosmopolita. Che, quindi, deve essere
a flusso continuo, perché teme i vuoti della sua abissale insufficienza. Per
questo risulta oltremodo stucchevole per chi è abituato ad esercitare l’altro
tipo di “ironia”.
Geppi
Cucciari cavalca il capovolgimento degli schemi “di genere” ma rivolta la stessa
frittata infarcendola per il maggior gusto delle élite e dei subalterni che
hanno accettato la deviazione della domanda di cambiamento verso obiettivi
periferici. Confezionando un prodotto a loro uso e consumo, perfetto per il
loro palato che si sente raffinato.
L’esercizio
letterario di scrivere “fenomenologie” risale, come è noto, a Umberto Eco.
Celebre quella di Mike Buongiorno, che non la prese affatto bene. Ma ovviamente
quell’esercizio, come anche il mio, non costituiva un attacco alla persona,
bensì una critica a quello che, più o meno consapevolmente, rappresenta,
all’ideologia. Non meno di Buongiorno, anche Cucciari è un prodotto del tutto
conforme.
L’ironia kierkegaardina costituiva la via metodologica per liberare la soggettività autentica. Ai suoi antipodi, l’ironia cosmopolita si pone nel campo del moralismo. Costituisce una forma di ipocrisia.
Fonte foto: Open (da Google)