Mediare, mediare e ancora mediare. E’ doveroso, giusto, necessario e inevitabile perché la mediazione è una delle categorie fondamentali e fondanti del Politico e della Politica. A patto però di non dimenticare che c’è anche il momento di rompere, vada come vada, costi quel che costi. Perché anche la rottura è una delle categorie altrettanto fondamentali e fondanti del Politico e della Politica.
La mediazione e la rottura sono due aspetti intimamente collegati, due facce della stessa medaglia, se vogliamo, come la strategia e la tattica, la teoria e la prassi.
Tsipras ha coerentemente e pazientemente perseguito la prima opzione ma ha clamorosamente abbandonato la seconda (o forse non fa parte del suo bagaglio), dimostrando, così facendo, tutta la debolezza della sua leadership politica e personale.
La rottura avrebbe potuto fare di lui il leader di una potenziale forza rivoluzionaria (come definire altrimenti l’uscita dall’UE e di conseguenza dalla NATO in una fase storica come questa se non un atto rivoluzionario?). L’aver insistito nella mediazione, avendo già escluso a priori l’ipotesi della possibile rottura, ha portato, come ampiamente prevedibile, alla sua capitolazione (oltre che alla sua prossima e inevitabile uscita di scena e alla liquidazione dell’esperienza di Syriza).
In molti, a questo punto, potrebbero dire (non a torto) che Tsipras non è mai stato e non è (né ha mai avuto l’ambizione di diventarlo) un leader rivoluzionario ma solo un onesto socialdemocratico che ha cercato, con gli strumenti di cui disponeva, di salvare il salvabile e di giungere ad un compromesso accettabile per il suo paese e soprattutto per quella parte di popolo che lo ha sostenuto. E questo è il limite o uno dei limiti strutturali non solo suo ma della forza politica che rappresenta e della concezione politica che gli sta alle spalle.
Talvolta però gli eventi e le circostanze storiche e politiche contingenti possono spingere i singoli soggetti a cambiare in corsa e a trovarsi, obtorto collo, alla guida di grandi processi politici e sociali. Così non è stato per Tsipras che si è trovato a cavalcare una tigre troppo più grande di lui. Non se l’è sentita di rompere, molto probabilmente è un’ipotesi che non aveva neanche preso in considerazione, e forse ha anche bluffato indicendo il referendum e passando la palla al popolo (la cui volontà, espressa molto nettamente, ha di fatto tradito).
Fin qui gli aspetti soggettivi, diciamo così, ma ci sono ulteriori e ancor più importanti elementi, più squisitamente politici, che potrebbero aver giocato e secondo me hanno giocato un ruolo determinante in tutta la vicenda greca.
Come già accennavo, un’eventuale uscita della Grecia dall’eurozona e dall’UE avrebbe di fatto comportato anche la fuoriuscita dalla NATO. A meno di non pensare che l’UE sia una sorta di club culturale e non una unione politica e militare,oltre che economica (i tre aspetti sono intimamente collegati), è evidente che l’uscita da quest’ultima avrebbe comportato anche quella dall’alleanza atlantica, con l’inevitabile avvicinamento ai paesi del BRICS e alla Russia in particolare per ovvie ragioni di ordine economico, politico e geopolitico.
Tutto ciò sarebbe stato possibile in modo indolore, come se nulla fosse? Gli USA e l’UE avrebbero lasciato un paese appartenente alla loro orbita politica libero di andarsene per i fatti suoi e di stringere dei legami economici, politici (e in prospettiva forse anche militari) con quello che oggi è il loro principale antagonista, geopoliticamente parlando, cioè la Russia di Putin? Credo proprio di no.
E la Russia? Siamo certi che in questi mesi di febbrili trattative Tsipras e Putin non abbiano affrontato la questione? Credo proprio di si. Ed è probabile che Putin abbia raffreddato i sia pur cauti entusiasmi di Tsipras. La Russia è alle prese con la cosiddetta “crisi ucraina” (cioè con il palese tentativo di espansione della NATO ai suoi confini in seguito ad un golpe in pieno stile). Incoraggiare il processo di allontanamento della Grecia dall’UE e dalla NATO avrebbe comportato e comporterebbe un inasprimento ulteriore dei rapporti con quest’ultima, con gli USA e anche con la Germania. Ha interesse Putin, in questa fase, a far precipitare gli eventi? Penso proprio di no. Peraltro, l’accordo raggiunto fra USA e Iran sul nucleare (che la Russia non ha di certo ostacolato) va nella direzione di una distensione complessiva nei rapporti fra le due potenze. Putin è un uomo di potere, un nazionalista, ortodosso e populista, ma non è un avventurista né, checché se ne dica, un guerrafondaio, e sa bene che per gli interessi russi è tutto sommato meglio avere a che fare con le “colombe” piuttosto che con i falchi della destra repubblicana americana (e israeliana).
Sono convinto, dunque, che la vicenda greca non possa essere interpretata come un fatto a se, separato dal contesto internazionale (che in larga parte l’ha prodotta), e che quest’ultimo abbia avuto un peso decisivo nel determinare e nel condizionare le scelte di Tsipras che ad un dato momento deve essersi sentito messo con le spalle al muro.
Tutto ciò giustifica il suo cedimento? No, certo. Come dicevo all’inizio dell’articolo, ci sono dei momenti in cui bisogna andare avanti, scegliendo il percorso più arduo, con tutte le incognite del caso, anche le più drammatiche. Per far questo ci vogliono molta forza, molto coraggio e anche molta audacia. Quella dei rivoluzionari e di coloro che sono disposti a pagare un prezzo molto alto, a volte fatale, pur di andare fino in fondo.
Ma arrivato a questo punto devo necessariamente fermarmi perché sarebbe presuntuoso da parte del sottoscritto (e da parte di chiunque) dire come ci si sarebbe dovuti comportare al posto di Tsipras.
Dalle mie parti c’è un vecchio detto che dice “che a fare i “froci” col culo degli altri sono tutti bravi” (mi dispiace per quegli amici gay che dovessero prendersela per questo mio modo di esprimermi ma li rassicuro che non c’è da parte mia nessun intento offensivo o sessista ma solo la volontà di rendere molto chiaro ed esplicito il messaggio, e a questo fine, a volte, non c’è di meglio dei vecchi proverbi popolari, anche quando non sono esempi di bon ton…).
Ma ce n’è anche un altro che dice che “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”.
Di certo Tsipras ha dimostrato di non esserlo e di non essere neanche un rivoluzionario. Perché un rivoluzionario, specie se forte dell’appoggio popolare (che lui ha avuto in questi giorni), si sarebbe giocata la sua partita fino in fondo, costi quel che costi.
Non è andata così e non ha nessun senso mettersi in cattedra a distribuire giudizi (Tsipras salvatore della patria o Tsipras traditore del popolo) come vedo fare a parecchi in questi giorni.
Resta la realtà (amara…) di una pesante e bruciante sconfitta politica (di cui certamente Tsipras è responsabile oggettivo) non solo per il popolo e la sinistra greca ma per i popoli e le classi lavoratrici di tutta l’Europa.
La partita, però, a mio parere, non è ancora conclusa, per lo meno sul medio periodo, perché la volontà politica della maggioranza del popolo greco, sia pur frustrata, segna un precedente molto importante, nonostante il momentaneo trionfo dell’ala più dura e reazionaria del capitalismo europeo, quella a trazione tedesca oggi dominante all’interno dell’UE.
Restiamo in attesa degli sviluppi.