Di fronte ai deliri emotivi seguiti agli atti terroristici parigini del 13 novembre, L’Interferenza, la nostra rivista, con l’ampia antologia di interventi di ottimo livello –monografia che bisognerà tenere da parte- ha fatto un ottimo lavoro informativo, politicamente critico e storicamente fondato. Non aggiungerò altro, allo sguardo sugli “altri”, sull’Islam, così come sul “globo” sull’ intreccio tra interessi economici ed equilibri geopolitici, mentre vorrei soffermarmi sul nostro campo, su “noi” anzi sull’esibito “Je suis”.
E’ l’atto cartesiano fondativo (il cogito) della filosofia francese, ma ritengo più largamente della loro cultura, questa interrogazione attorno al soggetto e l’attuale liturgia mediatica suggerisce della loro instabilità, confermata nel 900 dalla gran moda esistenzialista e ora dall’identificazione del “je” con i momenti dolorosi (je suis Charlie Hebdo, ora Paris, domani…). Ritradurrei il dubbio metodico in “noi chi siamo?” o meglio secondo lo storicismo-pratico di Gramsci “cosa stiamo facendo?”, “Cosa fa l’Occidente, l’Europa in specie?”. La lunga Belle Epoque, prima del trentennio d’oro keynesiano (1945-1975), poi dell’illusione quarantennale della globalizzazione (1975-2015), svanisce con lo sferragliar d’arme alle frontiere. Torna la palla avvelenata della guerra a rimbalzare in Europa ma, come direbbe un vecchio delle stagioni, pure la “guerra non è più quella di una volta” o forse, qui interviene il soggetto e la sua storia, “la guerra è guerra”, è certo violenza al massimo livello “producibile” ma trova altri uomini, altre società cui servire: Storia della guerra come Storia della lotta di classe. Anzitutto “siamo?”Cioè l’occidente controlla i processi che ha avviato, le relazioni che ha creato? La cosiddetta civiltà moderna possiede ancora una “scienza del mondo”? Si è detto che “chi semina vento raccoglie tempesta”. Certamente giusto, ma precisando il paradigma scientifico di riferimento che non è meccanicistico e causale (semino 20 volte un vento di 4 nodi (brezza leggera), ottengo un uragano di 80 nodi) ma entropico e indeterministico (semino venti nel cuore d’Europa e osservo il crollo di una nazione marginale come la Grecia). Peraltro, ciò trova conferma nelle convulse, spettacolari e approssimative iniziative poetiche dei canti patriottici e dei bombardamenti ritorsivi del “carpe diem” francese così come, e per opposto, nelle cautele egoistiche di cui l’andreottismo manifesto di Renzi, amico dei sauditi, è onesta prosa. In fondo la rassegnazione al “que serà, serà” è il tratto distintivo soprattutto dell’Europa e stride con il “je suis”, il soggetto che non riesce più a trovare la stabilità ovvero un nesso tra il vento seminato (passato) e la prossima tempestosa raccolta (futuro). Proprio e soprattutto quell’Europa che chiede “notizia” dell’essere evidenzia “la coscienza infelice” di questa interrogazione; l’Europa, più che la potenza produttiva emergente Asiatica e quella imperiale-stabilizzante USA, nasconde a se stessa la risposta, rintanandosi nell’ascosa metafisica (Heidegger). Perché invece abbiamo “notizie importanti” e chiare: l’essere che è il capitalismo assoluto, è il diabolico meccanismo separatosi dall’apprendista stregone, cioè è il nulla nei termini in cui ne parla Emanuele Severino. L’essere –con Hegel- è ciò che sappiamo dell’essere, cioè l’essere stato, la Storia. La decadenza europea vorrebbe invece creare un “je suis”, una altro essere-privato, un raddoppiamento (direbbe Hegel), per poter evitare le “brutture” dell’essere e lì trastullarsi. Conseguentemente è interessante osservare il procedere di questo “sono senza essere”, la carnevalesca varietà del fare. Gli americani –in maniera diversa gli orientali- hanno un’accezione ristretta del fare: il pragmatismo (la filosofia americana) è “fare-cose” e corrisponde al concetto di “poietica” (poiesis) aristotelica. Ora il meccanismo è “facciamo poi sapremo”: va bene se non si hanno notizie del Capitalismo ma diventa una mascherata triste se lo si sa benissimo come in Europa, perché qui si è la sua natura (“origine”), qui si è generato e ha sviluppato le sue mutevoli forme “guerriere”. Giungiamo dunque a predicare cosa “siamo”: “civilitation” – francese, ciò di cui straparla in queste ore il bottegaio Hollande – o “kultur” – tedesca, esemplificata dalle scudisciate estive ai greci – simboli della modernità atti a nascondere ipocritamente il cuore, la matrice, del capitalismo europeo, la “distruzione creatrice” come la studiò onestamente Joseph Schumpeter.
Questo è il vento volgarmente declinato in “ci vorrebbe una bella guerra per la ripresa” – o un bel terremoto come a L’Aquila – ma il problema è che la tempesta non arriva o meglio arriva in altre impreviste – indeterminate – forme. Così la guerra è quasi guerriglia, buoni affari per i venditori di armi, meno per i palazzinari; come scoria produce gli esodi di profughi, buoni per scafisti e cooperative di accoglienza ma intasa solo le periferie delle metropoli senza creare traffici ulteriori. La vera distruzione, la vera guerra è stata quella finanziaria del 2008 ma anche qui dopo lo scarico sull’Europa del debito bancario USA si è proceduto a piccole distruzioni come la Grecia. Questi fenomeni confermano il dato geopolitico – per esempio nei chiari argomenti di Pierluigi Fagan – di una risultante di forze stabilizzante i conflitti, di un cuore imperiale che allontana verso la periferia la guerra. Allo stesso tempo segnalano un elemento critico fondamentale: il capitalismo, giunto al suo apogeo assoluto sopprime il conflitto con il lavoro – sussunzione reale secondo la formula di Marx – ma si fa anziano, perde “eros” perché ha paura di altri conflitti. Il capitalismo che fuor di metafora è il vero soggetto in campo – il vero “je suis”- ha percezione (coscienza fugace) dell’enorme capacità distruttiva ma teme l’effetto, non ha più un “deterministico” governo delle conseguenze. Esauriti i grandi filoni industriali moderni, l’urbanizzazione, l’automobilizzazione, l’informatizzazione, cosi come già munti i ricavi ai “margini” nella sanità, nei servizi e nella cultura, il profitto si sta barricando sontuosamente nella rendita controllando finanza ed energia, l’alto e il basso della vita sociale, e manovra “politicamente”, fuori, come detto, alla stabilizzazione “periferica” del mondo. Insomma riemerge un soggetto scisso, analogo al descritto fenomeno del raddoppio “infelice”. Occorre, a chi guarda la scena, comprendere le linee di “scissione” e soprattutto avere un idea dell’essere (sapere l’essere): per esempio al di sotto dell’ulteriore demagogia parigina sul clima, sapere il ciclo del petrolio.