Una decina di giorni fa, intervenendo nella
trasmissione “Il processo del giovedì (https://www.youtube.com/watch?v=zpo-ZTQEjFQ)”, affermai che con Trump la (pre)potenza americana
appare finalmente senza veli, si presenta cioè per quel che è realmente: il
tycoon esibisce soddisfatto il “nodoso bastone” di rooseveltiana memoria che
l’ectoplasma Biden e i suoi predecessori dem occultavano pudicamente
sotto il pastrano. Non intendo qui polemizzare con i poveri di spirito che
accusano The Donald di mettere in pericolo una democrazia già morta e sepolta,
ma aggiungere che per la crisi Ucraina ipotizzai tre sviluppi: il primo che
Trump interpretasse la scarsa disponibilità russa a un accordo purchessia come
un affronto personale e una sfida all’onnipotenza americana e che, per
l’effetto, poggiasse boots on the ground nel pantano ucraino, il secondo
che il governo statunitense compisse una giravolta, riconoscendo le ragioni
della Russia e denunciando la vecchia amministrazione e l’Europa correa come
responsabili di una guerra sbagliata e già persa (questo auspicavo); il terzo –
ritenuto il più probabile anche dai miei interlocutori – che gli USA
scegliessero di abbassare i toni e defilarsi dal confronto in atto, delegandone
la gestione (ma non la funzione di controllo) agli assatanati staterelli
europei.
Nell’era di Internet il tempo scorre sorprendentemente
veloce e contro ogni nostra previsione il Presidente americano sembra aver
imboccato, dopo una serie di finte spiazzanti, la seconda strada: alla cordiale
telefonata con Vladimir Putin hanno fatto seguito dichiarazioni stupefacenti
(quella che addossa all’Occidente la colpa di una guerra evitabile e la
successiva, clamorosa prospettazione di una “Ucraina russa”) ed atti concreti,
perché la severa reprimenda riservata dal Vicepresidente USA Vance ai vertici
dell’Unione Europea in quel di Monaco non è parola dal sen fuggita.
Nulla è evidentemente deciso, poiché Trump resta un
personaggio volubile e per certi versi enigmatico, e soprattutto perché – come
ho scritto in svariate occasioni – gli Stati Uniti hanno investito moltissimo
in questa crociata antirussa, compresa la propria immagine, e pertanto un
disimpegno avrebbe negative conseguenze reputazionali, ma sarebbe assurdo
escludere che la possibilità di una pacificazione sia oggi più realistica di
quanto non lo fosse negli ultimi mesi della bellicosa presidenza Biden (quanto
alla convinzione espressa dai nostri opinionisti mainstream secondo la quale Sleepy
Joe sarebbe stato un sincero democratico e il nuovo Presidente un
“dittatore”, essa non comprova nulla, se non l’apriorismo ideologico dei suoi
fautori). Non va dimenticato che uno sganciamento in extremis, dissimulato
da un attivismo diplomatico “in favore di telecamera”, è pur sempre preferibile
alla certificazione di una sconfitta che si sta profilando sul terreno.
Tre anni fa, subito dopo l’avvio della c.d. operazione
militare speciale (ma l’articolo era stato impostato alla sua vigilia), asserii
che la scelta dell’invasione per la Russia era stata obbligata, visto che
l’unica alternativa sarebbe stata l’accettazione di limiti (ulteriormente
estensibili in futuro) alla sua sovranità e di una posizione di sudditanza; che
comunque, rispondendo positivamente all’hic Rhodus hic salta intimatogli
dalla NATO, Putin si era assunto un rischio immenso, quello di esporre il
proprio Paese alle rappresaglie economiche e militari della strapotente
Alleanza Atlantica. Ebbene, se la contesa terminasse adesso alle condizioni
ventilate dalla nuova leadership washingtoniana potremmo concludere,
richiamandoci alla saggezza antica, che audaces fortuna iuvat, perché la
Russia otterrebbe, sia pure a caro prezzo, non solo l’annessione de iure
delle regioni occupate e la neutralizzazione dell’Ucraina, ma anche (e
soprattutto!) il riconoscimento di quello status di Grande Potenza che Obama le
aveva negato. La capitolazione (perché di questo si tratterebbe) segnerebbe
forse la fine del guitto Zelensky e della sua cricca, ma non dell’Ucraina come
Paese che, affidandosi ad una classe politica lungimirante e non compromessa,
potrebbe aspirare ad una “finlandizzazione” e avviare, con aiuti dall’est e da
ovest, un lento processo di ricostruzione.
A profittare di una cessazione delle ostilità sarebbe
poi senz’altro l’Europa, sia nell’immediato che in prospettiva: da una
ricucitura delle relazioni con la Russia essa potrebbe ricavare immediati
benefici economici, ma le parole del nuovo capo del Pentagono sembrano preconizzare
un possibile disimpegno militare USA dal nostro continente, vale a dire la
concreta opportunità – anzitutto per Italia e Germania – di una maggiore
libertà d’azione sia in politica economica che in ambito internazionale. Quella
di Hegseth potrebbe anche essere una mera boutade, ma alcuni indizi suggeriscono
il contrario: nel corso degli ultimi tre decenni il Vecchio continente è andato
perdendo la sua centralità strategica per effetto – tra l’altro – del declino
economico e di quello demografico; la Federazione Russa, a sua volta, non è
ritenuta da Donald Trump un rivale particolarmente insidioso. Come Theodore
Roosevelt, che per certi versi egli ha assunto a modello, il nuovo inquilino
della Casa Bianca appunta la sua attenzione sul resto del mondo, e in
particolare sulla Cina, che dopo alcuni secoli di appannamento è tornata
protagonista su scala planetaria.
Paradossalmente, ma neanche tanto, a rifiutare quest’ipotetica via di fuga sono proprio i ceti dirigenti europei che, posseduti dallo spirito di Biden (o dal suo amico immaginario), si sono incaponiti sull’idea di una guerra senza quartiere al preteso imperialismo russo e, a spese nostre, affilano le armi in vista di un confronto già programmato. Quello che appare come un atteggiamento masochistico è determinato da una pluralità di fattori: il primo che mi viene in mente è l’abitudine a servire, che non si perde facilmente (il padrone non starà mica mettendo alla prova la nostra fedeltà canina?, si starà chiedendo qualcuno), il secondo lo snobismo razzista nei confronti di tutto ciò che non è occidentale, si chiami Persia, mondo ottomano o Russia. Non va neppure sottaciuto che, mutando repentinamente orientamento, questo stuolo di politicanti di destra e finta sinistra sconfesserebbe una narrazione portata avanti per anni con la collaborazione dei media di regime, esponendosi alle imprevedibili reazioni di un’opinione pubblica che, benché addomesticata, suscita sempre qualche sospetto.
L’Italia, appendice semiperiferica del simulacro di
democrazia chiamato UE, non fa ovviamente eccezione.
La stizzosa reazione bipartisan in difesa di
Mattarella, cui la portavoce del Ministero degli Esteri russo ha (giustamente)
rimproverato le affermazioni offensive e gratuite pronunciate a Marsiglia,
evidenzia che il politicume nostrano non ha la capacità né tantomeno
l’intenzione di ricostruire un rapporto con la Federazione, come richiesto dal
buon senso e dall’interesse nazionale, ma persevera in un atteggiamento ostile
indotto dal precedente “amministratore delegato” dell’Occidente (fired,
ma in attesa di nuovi ordini si eseguono pedissequamente quelli vecchi…) e
rinfocolato dalle forze ultranazionaliste alle quali si è consegnata la c.d.
Unione Europea. Sarebbe facile ironizzare su figuranti talmente avvezzi a inchinarsi
da non fare distinzione fra un Biden – che era pur sempre il Presidente USA,
sebbene dialogasse con le ombre – e un Rutte o una Kallas qualsiasi, ma che la
situazione sia pericolosa lo dimostra l’uscita dell’inqualificabile von der
Leyen, pronta ad esentare dalle regole draconiane del patto di stabilità le
spese per il riarmo in funzione antirussa, il cui incremento smodato ci
avvicinerebbe, da un lato, a una guerra devastante (questi folli sbavano per
una replica dell’Operazione Barbarossa!), mentre propizierebbe dall’altro la
cancellazione delle ultime vestigia di Stato sociale, visto che,
indipendentemente dai magheggi contabili, le risorse sono comunque limitate.
Tutta questa genia va licenziata al più presto, e sostituita con persone libere
e pensanti che abbiano a cuore il destino e le esigenze dei propri popoli e,
immuni dal suprematismo nichilista che anima la classe politica europea
odierna, scommettano su un futuro di convivenza e multipolarismo, se non di
pace.
L’avvicendamento della rappresentanza non può naturalmente avvenire ceteris paribus, perché bisogna tener conto del pattume propagandistico cui si è ridotto il giornalismo mainstream e del fatto che tanto l’informazione quanto la politica sono oggidì teleguidate da gruppi di pressione che, disponendo di ingentissime risorse, appaiono in grado di condizionare sia la pubblica opinione che le scelte strategiche: è dunque necessario un radicale cambio di sistema, che ci condurrebbe non in una terra incognita, bensì all’interno del perimetro delimitato dalla nostra Costituzione, tanto retoricamente esaltata quanto nei fatti tradita dai mestieranti che, proni ai desideri altrui, ci amministrano.
Fonte foto: ISPI (da Google)