A ogni successo elettorale di Mélenchon nella galassia di micro-formazioni italiane che si richiamano alla tradizione marxista e di classe inizia una corsa competitiva per raccoglierne il testimone, per presentarsi come l’autentica versione italiana della proposta radicale francese.
Come se bastasse un richiamo in copia carbone dimenticandosi delle peculiarità presenti nel panorama politico e culturale d’oltralpe. La Francia, difatti, è stato il paese meno colpito dal processo di spoliticizzazione della società insito nel progetto neoliberale. Già agli albori della costruzione europea i filosofi dei mercati ponevano la Francia come esempio plastico dei danni prodotti dall’allargamento del principio democratico nel quale le masse, intimamente irrazionali, costringevano i Governi a operare con un dirigismo protezionistico e di piano, insinuando nella società lo spettro del socialismo di stato.
Ma anche oggi la Francia presenta alcune anomalie rispetto all’omogeneizzazione culturale e al totalitarismo liberale in voga nel resto d’Europa. Lì ancora si concepisce una visione conflittuale della democrazia, al cui interno i corpi intermedi e le parti sociali hanno voce in capitolo per partecipare all’indirizzo politico dello Stato. Resistono quelle pratiche di lotta organizzata liquidate nel resto del “mondo libero” a novecentismo reazionario.
Mélenchon non solo si è posto alla testa della conflittualità sociale ma ha influito culturalmente in quello che ancora si può definire un dibattito politico ideologico. Non a caso ha individuato, da tempo, gli errori interpretativi non solo della sinistra liberale – in quel caso il compito era elementare – ma anche di quella radicale. In sostanza ha ribaltato, da socialista, la narrazione europeista sottraendosi ai dogmi federalisti del nuovo buon senso comune.
Scevro da condizionamenti ideologici e di falsa coscienza ha posto l’europeismo come quintessenza dell’elitarismo liberale che ha progettato e realizzato l’esclusione dei ceti popolari dalle istituzioni democratiche. Seguendo questa traccia non ha mai negato la centralità della questione nazionale, se legata al concetto di sovranità popolare, in antitesi all’idea dell’occidentalismo post-moderno dove vige l’equivalenza tra libero commercio e libertà.
Grazie a questa logica ha pian piano conquistato egemonia discorsiva all’interno della sinistra, ponendo le altre formazioni radicali su un piano di subalternità. Facile dedurre a questo punto che in Italia, se togliamo piccole avanguardie ancora disorganizzate, la situazione è diametralmente opposta a quella francese soprattutto se si volge lo sguardo a quella che viene identificata come la sinistra radicale.
Qui quella sinistra se da un lato abbaia per le conseguenze sociali ed economiche della liberalizzazione dei mercati, dall’altro partecipa entusiasta al clima culturale che fa da sfondo e da piedistallo al nuovo corso del capitalismo. Per esempio non riesce a cogliere il suo innato progressismo evoluzionista, premessa logica per la riproposizione di un darwinismo politico infiocchettato dalla civilizzazione meritocratica del politicamente corretto, ma resta ancorata alla visione di una borghesia reazionaria, clericale, nazionalista e conservatrice nei costumi, che semplicemente non esiste più se non a livello ornamentale o caricaturale.
Questo strabismo, l’incapacità di affrontare i reali processi culturali del capitalismo e le sue trasformazioni idealistiche, pongono la sinistra radicale non solo su un terreno di invisibilità ma anche di complicità per l’espansione del modello individualista nel quale è il soggetto, con le sue doti creative e imprenditoriali, a rappresentare il motore della civiltà. Per questo un’operazione alla Mélenchon richiederebbe un lungo lavoro culturale che non potrebbe concepire scorciatoie opportunistiche.