Mi è capitato di vedere, alcuni giorni fa, l’ultima puntata di “Presa diretta”, un programma che va in onda su Rai 3 condotto da Riccardo Iacona.
Il servizio, devo dire molto interessante e molto ben realizzato, era dedicato al “Job act” e in particolare ai cosiddetti “contratti a tutele crescenti” e agli effetti che questi hanno avuto sul mondo del lavoro, in termini di occupazione, salari, ricavi e sgravi fiscali per le imprese e quant’altro. Nel complesso, però, al di là del “Job act” (è stato ampiamente mostrato e dimostrato come questo abbia portato notevoli vantaggi alle imprese sia in termini fiscali che di risparmio sul costo del lavoro), il servizio era di fatto un reportage molto ampio e dettagliato sulle condizioni di lavoro complessive che vivono tante persone in questo paese.
La redazione ha scelto di puntare i riflettori su alcune situazioni “campione”, diciamo così. Alcune piccole e medie aziende delle aree metropolitane di Roma e Napoli (un call center, un’azienda di vendita porta a porta e un’altra che si occupa di selezionare personale da adibire come vigilantes), tutte con lavoratori ultraprecari e sottopagati, assunti con contratti fasulli e privi di ogni valore giuridico, e una grande fabbrica, lo stabilimento della Fiat di Melfi, che occupa circa 7.000 lavoratori e lavoratrici con contratto invece a tempo indeterminato (al momento però perché – come hanno spiegato alcuni sindacalisti della Uilm e della Fiom intervistati, la situazione potrebbe mutare da qui a qualche anno).
Gli addetti al call center guadagnano in base ai contratti che riescono a stipulare; i più “bravi” arrivano a guadagnare fino a 700/ 800 euro al mese, altrimenti ci si attesta tra i 250 e i 500 di media, lavorando dalle sei alle otto ore al giorno. Le persone vengono attirate con la promessa di un salario fisso (250 euro) che in realtà è semplicemente calcolato sulla base della previsione della loro produttività, cioè della loro capacità di chiudere contratti.
Quella della vendita “porta a porta” è invece una vera e propria organizzazione a delinquere. Gli impiegati e le impiegate vengono letteralmente indottrinati/e e addestrati a truffare i clienti (in genere persone anziane), fingendo di essere dei funzionari di grandi aziende pubbliche (ENEL, ACEA ecc.) per convincerli a cambiare gestore e fare utili su questa sorta di intermediazione. Anche in questo caso il personale è retribuito sulla base dei contratti (estorti con l’inganno) che riesce a chiudere. L’aspetto più inquietante di questa vicenda è che il personale viene inquadrato “ideologicamente” attraverso dei corsi gestiti da una sorta di “guru-manager” che è abile a creare uno spirito di corpo, di gruppo, e a caricare psicologicamente i dipendenti all’insegna di una specie di “filosofia new age” (una sostanziale manipolazione psicologica) che gli spiega quanto tutto dipenda dalle loro capacità, dalla loro dedizione al lavoro (alla truffa…), e che il successo o l’insuccesso nell’attività di vendita (di inganno) è soltanto il risultato del loro stato d’animo, del loro atteggiamento psicologico, del loro modo di porsi rispetto alla realtà. I lavoratori, durante questi corsi, indossano una divisa e devono (o vengono indotti a) recitare dei veri e propri mantra, che si concludono con applausi, grida di giubilo, abbracci collettivi fra loro e con il guru-manager”. Questi rituali sono pressoché quotidiani. Ogni mattina, infatti, prima di iniziare il consueto giro, il personale usa caricarsi psicologicamente attraverso queste “tecniche” di training e di di auto convincimento. Inutile dire che i dipendenti non usufruiscono di nessun rimborso per il vitto, la benzina, i mezzi pubblici per spostarsi ecc. Una ex dipendente di questa azienda, considerata la più capace nella vendita, intervistata, ha detto che lei, lavorando circa dieci ore al giorno, arrivava a guadagnare circa 900 euro al mese da cui doveva sottrarre le spese di cui sopra, per cui le rimanevano in tasca non più di 500 euro mensili. Tutto molto inquietante.
Poi è stata la volta dell’”azienda” (se così può essere definita un’organizzazione che estorce denaro alle persone, ricattandole) che procaccia personale da adibire come vigilantes e da collocare presso altre aziende. In questo caso gli aspiranti vigilantes, per essere assunti, devono versare l’equivalente dello stipendio di un anno al procacciatore. Molto spesso, dopo un anno o un anno e mezzo, gli stessi vengono licenziati. Senza parole…
Ma è stato il focus sulla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici della Fiat di Melfi che mi ha colpito particolarmente, nonostante la loro sia una situazione senz’altro migliore rispetto ai casi sopra descritti, da un certo punto di vista, non foss’altro perchè sono stati assunti con regolare contratto a tempo indeterminato. Ma approfondiamo un po’.
La fabbrica è in funzione ventiquattro ore su ventiquattro, senza soste. Gli operai e le operaie si alternano nei turni che variano continuamente, impedendogli quindi di vivere una vita normale. “E’ come vivere in un fuso orario perennemente sballato – spiegava un’operaia intervistata – con l’andare del tempo si arriva a perdere la cognizione del tempo, si scambia il giorno con la notte e così via e non si ha più una vita sociale”. La grandissima parte dei lavoratori proviene da tutta la regione e anche da fuori. Se e quando si è fortunati (cioè quando si fa il turno di giorno) ci si sveglia alle 3 del mattino per prendere il pulmann e cominciare il turno alla 6 per staccare alle 14. A quel punto si esce, si riprende il pulmann e si torna a casa verso le 17. Alle 21 ci si ritira per ricominciare il mattino dopo alle 3. Una coppia, marito e moglie con tre figli, hanno raccontato che loro non si vedono ormai neanche più, perché devono alternarsi con i turni per poter badare ai figli. Una rientra e l’altro esce, per il turno successivo. Moltissimi di questi operai, circa 1700 sui circa 7.000 complessivi, sono giovani neo assunti. Tutti felicissimi per non dire entusiasti di questo impiego alla Fiat che – spiegano – “gli ha cambiato la vita”. Fra loro anche diversi laureati. Non c’è da stupirsi, in una terra dove la disoccupazione, il precariato, la marginalità sociale, sono la norma, un posto di lavoro in fabbrica a tempo indeterminato, pur con tutti i sacrifici, i turni di notte, la fatica e lo stress, il tempo libero ridotto ai minimi termini, rappresenta comunque una svolta, garantisce un futuro, come loro stessi e i loro genitori hanno spiegato. La madre di uno di questi giovani operai, addirittura laureato in ingegneria meccanica, è felice che suo figlio sia rimasto, che non sia stato costretto ad emigrare come tanti altri.
In questo contesto dove gli operai arrivano a sentirsi addirittura dei privilegiati rispetto a tanti altri a cui la “fortuna” di lavorare in fabbrica non è toccata in sorte, il livello di conflittualità sia all’interno che all’esterno del posto di lavoro è bassissimo per non dire inesistente, né potrebbe essere altrimenti.
Qualcuno obietterà che non c’era bisogno del servizio di “Presa diretta” per conoscere tutto ciò. Vero, per lo meno per noi. Ma è altrettanto vero che la televisione è uno strumento potente che, se ben utilizzato, può permetterci di avere una visione chiara e immediata delle cose.
Ora, dopo questo racconto che di per se è già sufficiente e non ha bisogno di commenti, due considerazioni sorgono però spontanee, per lo meno al sottoscritto.
La prima. Il sistema dominante si sente talmente potente (e in effetti lo è) da potersi permettere il lusso di mettere in piazza le sue contraddizioni in “presa diretta”, attraverso uno dei suoi più importanti e forse tuttora il più importante strumento di comunicazione, controllo e manipolazione di massa, cioè la televisione.
La seconda. Da molto tempo e da più parti si sente parlare di superamento della contraddizione di classe. Il conflitto di classe sarebbe ormai solo un vecchio retaggio di un passato che non esiste più. E a sostenere tale tesi non sono solo pensatori liberali e liberisti ma anche autorevoli pensatori ex o post marxisti. Dei primi c’è poco da dire, dal momento che è del tutto naturale da parte loro sostenere tale tesi e non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti. Per i secondi la questione è più complessa. Questi ultimi, volendo sintetizzare fino all’inverosimile per ragioni giornalistiche, si dividono grosso modo in due tronconi (tranne rare eccezioni). Il primo, quello largamente maggioritario, è formato da coloro (specie fra gli economisti) che hanno gettato il bambino insieme all’acqua sporca e aderito più o meno in toto al “nuovo” (si fa per dire…) verbo liberista. Spesso sono i più realisti del re e si propongono come i migliori e i più funzionali “amministratori”, meglio adatti a gestire la “governance” rispetto ai loro colleghi di “destra”.
Il secondo, comunque senz’altro degno di maggior attenzione e stima rispetto al primo, è composto invece da autorevoli pensatori che, pur non rinunciando alla possibilità di una critica anche radicale al sistema capitalistico, ritengono che questa non possa partire dalle contraddizioni di classe prodotte dai rapporti di produzione capitalistici, perché la “classe”, così come storicamente era intesa, non esisterebbe più o sarebbe comunque stata completamente assimilata, non solo socialmente ma anche culturalmente e ideologicamente, all’interno del nuovo gigantesco e diffuso ceto medio, quello cioè che loro stessi individuano come il corpo grosso delle società capitalistiche occidentali. In virtù di ciò, in questa fase storica, essi attribuiscono maggior importanza e rilievo alla cosiddetta “geopolitica”, cioè alla possibilità che una trasformazione dello stato delle cose possa avvenire non attraverso l’acutizzazione, l’espansione e l’eventuale esplosione delle contraddizioni e della conflittualità sociale, bensì attraverso il “gioco” internazionale o geopolitico, cioè il conflitto fra gli stati imperialisti, di fatto tra l’Impero occidentale a trazione USA, da una parte, e quegli stati che a quel dominio oppongono resistenza, dall’altra.
Questo modo di interpretare le cose è, a mio parere, errato, per una serie di ragioni.
E’ vero che il processo di ristrutturazione e trasformazione complessiva delle società capitalistiche occidentali (non solo geograficamente, Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Filippine, Australia ecc. fanno parte a pieno titolo del mondo occidentale anche se si trovano dall’altra parte dell’emisfero; un discorso a parte va fatto e faremo prossimamente per la Cina che pur essendo un paese con una economia in larghissima parte capitalista non può ovviamente essere considerato nell’orbita politica occidentale) avvenuto negli ultimi quarant’anni ha portato ad un rivolgimento sociale enorme, ad una ridefinizione e talvolta ad uno sconvolgimento dei gruppi sociali tradizionali, soprattutto in virtù o a causa delle profonde trasformazioni avvenute, specie nel mondo del lavoro. Ed è vero anche che questo processo ha visto il capitalismo trionfare non solo dal punto di vista economico e politico (sconfitta strategica del movimento operaio) ma anche e soprattutto sotto il profilo culturale e ideologico. Ed è vero altresì che in virtù di questa offensiva ideologica (contestuale a quella economica e politica), i gruppi sociali subalterni hanno per lo più smarrito ogni forma di identità e di coscienza di classe (prendendo in prestito il lessico hegeliano e marxiano, potremmo dire che la “classe esiste in se ma non per se”, essendo priva di coscienza). Ma questa assenza di coscienza -appunto, “la classe per se” – non significa che la contraddizione di classe sia stata superata. Esiste oggi una varietà di soggetti sociali, risultato dei processi di trasformazione di cui sopra, che sono difficilmente collocabili secondo le “vecchie” categorie (borghesia e proletariato), ma restano comunque dei soggetti socialmente (e anche e soprattutto ideologicamente) subordinati. Come collocarli o definirli? Si diceva del grande ceto medio. Ma il “ceto medio” è ormai un grande minestrone dove all’interno troviamo soggetti e figure professionali fra le più disparate; dal professionista più o meno affermato al venditore a provvigione di enciclopedie o di polizze assicurative porta a porta. Entrambi si sentono parte dello stesso “ceto medio” e anzi, molto spesso il venditore porta a porta si sente addirittura un “imprenditore”, ma è proprio questa la dimostrazione del trionfo ideologico del capitale.
Affermare dunque che il conflitto di classe (al momento purtroppo solo potenziale) sarebbe strutturalmente superato è un errore interpretativo molto grave (bisognerebbe aver superato la struttura che genera quel conflitto, sia pure oggi allo stato solo latente, per poter parlare di suo superamento…) . Il problema è invece come spezzare la gabbia ideologica che porta oggi un oscuro e subalterno impiegato pubblico o privato o un venditore porta a porta (o anche tanti altri lavoratori più qualificati ma precari o comunque subordinati) a sentirsi parte (o a far finta, in alcuni casi, di sentirsi parte) del “ceto medio”. Concepire quindi la possibilità di una critica alla società capitalistica bypassando o addirittura cestinando o consegnando alla storia la contraddizione di classe (sia pure nelle forme nuove che questa ha parzialmente assunto) è strutturalmente impossibile.
Privato della critica e dell’approccio di classe, anche quello “geopolitico” viene a perdere di ogni significato, o meglio, rischia di assumerne altri, talvolta “pericolosi” e depistanti. Se è infatti corretto, tatticamente e politicamente, in questa fase storica, per lo meno dal mio modesto punto di vista, sostenere quegli stati (anche quelli non socialisti) che legittimamente si oppongono al dominio imperialista e neocolonialista (USA e NATO in testa) e che per questa ragione costituiscono comunque un fattore “progressivo”, si commetterebbe un errore strategico molto grave se ci si “dimenticasse” della natura della struttura (economica e politica) che determina anche quel conflitto (fra stati imperialisti e neocolonialisti e quelli che a tale dominio si oppongono).
Concludendo, credo che la sconfitta di portata epocale subita dal movimento operaio novecentesco e dalle sue espressioni e declinazioni storiche e politiche, debba ancora essere assorbita, e che molti pensatori (anche autorevoli) ex o post marxisti abbiano avuto troppa fretta nel rielaborarla e nel cercare una improbabile via di uscita.