La vicenda del bulletto di Lucca http://www.ansa.it/toscana/notizie/2018/04/18/minacce-e-offese-a-prof-lucca-in-video-tre-indagati_89abbcca-d864-42a1-adcc-7d26d2082d21.html sta facendo discutere, come è normale che sia. Si tratta dell’ennesimo episodio di “bullismo” che sale alle cronache ma in realtà sono centinaia, forse migliaia, gli episodi di violenza e di sopraffazione che si verificano ogni giorno fra i giovani e non solo.
Lo chiamiamo bullismo ma il suo vero nome dovrebbe essere “prevaricazione del più forte e/o del più prepotente sul più debole e sul più mite”. In questa vicenda specifica ciò che ha colpito è stato vedere un ragazzino umiliare un professore, per di più anziano. Comportandosi in quel modo arrogante e vigliacco, infatti, il teppistello ha (falsamente) irriso al concetto di autorità e consapevolmente umiliato una persona anziana. Due risvolti, entrambi gravissimi, di uno stesso modo di agire. Vediamo di capire perché.
Non siamo in presenza di un atto di ribellione nei confronti di un potere costituito che si ha tutto il diritto di contestare e/o di combattere nelle forme appropriate, soprattutto quando quel potere viene esercitato arbitrariamente, cioè quando il concetto di autorità si trasforma in autoritarismo.
Quel professore è in realtà soltanto una persona debole, e quindi indifesa. Quel ragazzo non ha contestato nessuna forma di autorità, legittima o illegittima che sia; viceversa, ha solo esercitato un atto di sopraffazione su una persona più debole e per di più anziana.
Il soggetto va quindi punito, anche severamente, ma non perché non ha avuto rispetto per l’autorità, bensì perché ha agito in modo violento nei confronti di un soggetto più debole, dimostrando anche di essere un vile. Infatti, non avrebbe mai avuto il coraggio di comportarsi in quel modo nei confronti di una figura autorevole (che non significa autoritaria…). E’ anzi del tutto plausibile pensare (e personalmente non ho dubbi) che nei confronti di una simile figura avrebbe assunto un atteggiamento molto probabilmente servile e adulatorio.
La violenza – che è sempre esercitata dal più forte e dal più prepotente sul più debole (diverso è l’esercizio sapiente ed equilibrato della forza e la legittima autodifesa del soggetto più debole ed aggredito…) – è sempre esistita e sarebbe sciocco negarlo. Direi anzi che proprio e anche il modo di concepire la violenza e la forza (due cose ben diverse) ha contribuito a caratterizzare in un senso o in un altro filosofie, scuole di pensiero e ideologie.
Il concetto di autorità (“auctoritas”) non è di per sé positivo o negativo. Dipende dal contesto in cui viene a trovarsi e naturalmente da chi lo rappresenta e lo esercita. Una volta il concetto di autorità era considerato sacro anche e soprattutto quando era sbagliato considerarlo tale. Quando cioè quell’autorità era in realtà il risultato di una usurpazione, di una espropriazione di sovranità e di libertà, di un potere oppressivo e violento, nelle tante forme, politiche, economiche, sociali, religiose, psicologiche, ideologiche, con le quali il potere costituito può e sa esercitare il suo dominio.
Oggi, anche in seguito a questo, nelle società occidentali e nell’immaginario comune, il concetto di autorità ha finito con il sovrapporsi completamente a quello di autoritarismo, di gestione del potere, o meglio dell’abuso del potere. In questo modo si confondono completamente i due concetti e si finisce anche per non capire chi è che ci comanda veramente e che è in grado di esercitare un potere reale sulle nostre vite.
L’autorità, per lo meno su un piano formale, può essere rappresentata da un monarca assoluto così come da un parlamento o da un’assemblea eletta dal popolo. Ma autoritario (o dispotico) è sempre un dittatore così come autorevole lo è sempre un leader rivoluzionario. L’aver confuso questi concetti ha portato a delle gravi conseguenze, fra cui anche quei comportamenti in oggetto che in ogni caso, come ho già detto, affondano le loro radici in altri aspetti.
Per capirci, anche un consiglio di fabbrica è un’autorità, anche un partito politico, un filosofo, uno scienziato, un maestro elementare (se esistessero ancora…) o di judo. La vera autorità è quella a cui noi in primis riconosciamo autorevolezza, ed è per quello che gli portiamo rispetto.
Ma nel momento in cui non siamo più in grado di riconoscere quella differenza, finiamo per confondere il sacro con il profano (anche se il più delle volte è proprio il secondo a prevalere…), come si usa dire.
La violenza di cui è intrisa la nostra società – anche quando questa violenza non è palese – è figlia, fra le altre cose (che non posso trattare ora altrimenti non la finirei più…), anche di quella incapacità ad operare quella distinzione. Ed è così che anche un vecchio, comprensibilmente stanco e forse depresso (ne avrebbe ben donde…) insegnante, non in grado o non più in grado di esercitare quell’”auctoritas” necessaria a svolgere quel ruolo, può diventare il (facile…) bersaglio di una mente confusa, priva di ogni riferimento, che nasconde la sua spaventosa inconsistenza dietro ad un atteggiamento da bullo.
Sarebbe necessario, a questo punto, aprire una serie di riflessioni, in primis sulla scuola e su un contesto sociale a dir poco culturalmente impoverito ma, come già dicevo, non sarebbe certo sufficiente un articolo.
Foto: 29elode (da Google)