Foto: www.fertilityday2016.it
Il sonno della ragione genera mostri ma anche tanta ipocrisia. “Il Fertility day” della ministra Lorenzin ha dato la stura ai frequentatori della seconda (fra cui lei stessa, ovviamente…) che sono tanti, sia sui metaforici banchi della maggioranza che dell’ “opposizione”, sia chiaro. Del resto, i “mostri” sono ben altri e non appartengono alla conventicola di nani, servi e ballerine che popolano l’attuale circo mediatico-politico. E poi, anche per diventare dei “mostri” ci vuole una certa “pesantezza” di cui questi/e non sono provvisti/e.
La Lorenzin finge di non conoscere le ragioni che hanno portato e che portano al drastico calo della natalità. Diciamola meglio: alla tendenza sempre più crescente e diffusa sia fra le donne che, soprattutto, fra gli uomini, a non desiderare di avere figli. Non è la sola, perché anche le voci che si sono levate contro la sua campagna fingono di non conoscerle, o meglio, fanno mostra di conoscerne solo una parte.
Intendiamoci, sottoporre a dura critica il governo che da una parte precarizza il lavoro (già precario e precarizzato di suo, ben prima del Job’s Act) e dall’altra invita a fare figli, è cosa non solo buona e giusta ma doverosa. In un paese dove un’occupazione stabile è una chimera e dove l‘affitto di una camera in un appartamento di un quartiere popolare di una grande città si aggira intorno a 300/400 euro mensili, invitare i giovani (e anche i meno giovani) a fare figli è a dir poco di cattivo gusto. Al confronto, dimostrò forse di avere più delicatezza e sensibilità (si fa per dire…) chi li apostrofò come dei “bamboccioni”. Il governo, in linea teorica, dovrebbe preoccuparsi di altro, e cioè di come creare le migliori condizioni economiche e sociali per cercare di invertire quel trend. Ma sappiamo che così non è e non può essere perché il governo non è l’espressione della volontà generale (concetto già di per sé ambiguo in una società divisa in classi) ma dei gruppi economici, finanziari e sociali dominanti – in larga parte, al momento, stranieri – ai quali del tasso di natalità dell’ “azienda Italia” non gliene può fregare di meno perché di poveracci che sfornano figli a ripetizione da sfruttare per le loro aziende delocalizzate in tutto il mondo ne hanno finchè vogliono.
Chiarito questo aspetto fondamentale, personalmente non credo che la tendenza alla denatalità nei paesi occidentali e in Italia in particolare sia dovuta soltanto a questioni di ordine economico e sociale. In epoche passate, infatti, e fino a non molto tempo fa, i poveri continuavano a sfornare figli, anzi, erano proprio i più poveri ad essere più prolifici, e non a caso si parlava di proletariato…
A tutt’oggi, nei paesi del terzo e del quarto mondo, dove la povertà e la miseria fanno parte del paesaggio, per l’indignazione, in buona o in cattiva fede, dei turisti occidentali (un po’ meno di quelli giapponesi, coreani e cinesi che ci sono più abituati e che sono mediamente più cinici o forse meno ipocriti degli altri), la gente continua a fare figli. E più sono poveri e più fanno figli. Con l’eccezione della Cina che da molto tempo e per ovvie ragioni persegue una politica molto rigida da questo punto di vista.
E allora – ci si chiederà, giustamente – qual è l’arcano?
E’ evidente che ci sono (anche) altre ragioni. L’appello della Lorenzin e le repliche dell’“opposizione” sono rivolte pressochè solo alle donne, nel senso che entrambe hanno come oggetto della loro attenzione soltanto le donne. E ciò è dovuto al fatto che quando si parla di maternità e di figli è diventato automatico riferirsi alle sole donne. E invece, a meno di non considerare gli uomini come dei meri contenitori di sperma, la questione riguarda anche loro. Vero è che fra poco con gli uteri artificiali il “problema” verrà bypassato, però, nel frattempo, per lo meno fino a quando l’utero artificiale (di cui quello in affitto è soltanto l’antipasto) non sarà prassi normale e sistematica, il problema riguarda anche loro. E allora è bene sapere che solo in Italia ci sono centinaia di migliaia di uomini e padri separati che una volta avevano una vita “normale”, con una famiglia, una casa, un lavoro, dei figli, e che oggi non hanno più nulla, perché sono stati espropriati della casa, dei figli, del reddito, e anche della propria vita. E’ bene sapere che un gran numero delle persone che trovano ospitalità nei centri della Caritas e degli altri istituti di accoglienza sono uomini e padri separati. Persone che, come dicevo prima, avevano una vita “normale” e che ora non l’hanno più. E questo è un fatto. Casuale? Non direi proprio. Quando il fenomeno assume dimensioni così vaste nel tempo non può essere casuale. Il dramma (perché di questo si tratta) dei padri separati ha raggiunto tali livelli di tragicità da riuscire perfino a bucare il muro di gomma del “Matrix mediatico politicamente corretto, trasversale e neofemminista” dominante. Alcuni anni fa la Rai mandò addirittura in onda una fiction in prima serata sulla vicenda di un padre separato, che registrò il record di ascolti. La tragedia, verrebbe da dire, con morti e feriti – sicuramente con tanti suicidi – non poteva continuare, anche volendo, ad essere occultata. Certo, ci si limitò a parlare di malagiustizia, di cattiva applicazione delle leggi, di avvocati cinici e spregiudicati, ma sappiamo che la questione è molto più complessa. E se le leggi vengono applicate in modo iniquo è perché c’è una volontà politica alle spalle che determina la loro cattiva applicazione. Da che mondo è mondo, infatti, la magistratura è solo uno strumento di chi detiene le leve del potere, e non viceversa. E’ quindi evidente che anche i magistrati, così come i giornalisti, gli opinion maker e i politici, rispondono agli ordini, diretti o indiretti, impartiti loro da altri. In questo caso, dallo “spirito del tempo”, chiamiamolo così, che considera gli uomini, in quanto tali, sacrificabili. E’ così che schiere di “oppressori e privilegiati” (che non hanno mai conosciuto una simile condizione, neanche nella realtà virtuale, ma tant’è…) sono stati buttati in mezzo a una strada, il più delle volte in una condizione di povertà e di gravissimo disagio materiale e immateriale (piscologica, morale, esistenziale).
Ovvio che in tale situazione, molti uomini comincino a farsi due conti, come si suol dire. Molti hanno da tempo cominciato a nutrire il sospetto che sposarsi e mettere su famiglia sia oggi diventato una sorta di trappolone, come firmare un contratto dove c’è solo una parte che ha diritti e un’altra che ha solo doveri. Come costruire una casa sull’argilla, destinata a franare al primo acquazzone. Solo che chi ci resta sotto o addirittura annega, è sempre e soltanto una parte. Chi glielo fa fare? E infatti in molti non lo fanno più. Per lo meno una volta anche la miseria era condivisa, come il pane, e questo, oltre a fare la differenza, eliminava anche la diffidenza. E questo creava anche solidarietà, saldava i legami, pur fra mille problematiche e contraddizioni. Oggi non è più così, e la diffidenza è uno degli aspetti, fra i tanti (e non positivi), che caratterizza la relazione fra uomini e donne. Nonostante quel che può sembrare ad uno sguardo superficiale e una apparente pseudo libertà di costumi (in realtà declinata secondo le dinamiche della “razionalità” strumentale e mercificante dominante), la relazione fra i sessi vive in una crisi profonda, strutturale. E non mi pare di stare dicendo chissà quale novità. E’ in questa crisi, che è tutta interna all’attuale fase storica, che va ricercata la ragione per la quale nel mondo occidentale si tende a non fare più figli. Mi fermo, per ovvie ragioni, e cioè perché se dovessi approfondire dovrei scrivere un’enciclopedia. Preferisco che ciascuno/a faccia le sue riflessioni.
Sull’altro versante – quello femminile, intendo – decenni e decenni di ideologia capitalista sapientemente instillata e interiorizzata dalle destinatarie ha prodotto i suoi effetti. Non c’è alcun dubbio che oggi il “modello” della “donna in carriera” e socialmente posizionata, che vive la maternità addirittura come un peso e un ostacolo alla sua affermazione pubblica, costituisca un “ideale regolativo” sicuramente più potente di quello della mamma, che ha perso molto terreno. A meno di non avere la possibilità di retribuire una “tata”, ecuadoriana o filippina che sia, che fa la mamma al posto di quella biologica. La quale tata, ecuadoriana o filippina, per accudire e allevare i figli delle mamme occidentali e benestanti, ha dovuto smettere, per sopravvivere, di crescere e allevare i suoi figli naturali che vede sì e no una volta all’anno, quando torna per pochi giorni nel suo paese.
Una situazione schizofrenica, a dir poco. Chi vuol fare la mamma e non può farla, perchè letteralmente strappata ai suoi figli, e chi la mamma la vorrebbe fare ma non può perché deve assolvere ad altre priorità, cioè deve fare carriera. Due facce della stessa identica medaglia, cioè dello stesso sistema capitalista “globalizzato”, come si usa dire, che ha necessità delle une e delle altre. Che dirvi, sarà che io della carriera me ne sono sempre strafottuto ma trovo che questo modo di pensare e di vivere sia decisamente patologico e alienato.
Diversa, naturalmente, ed è bene specificarlo onde evitare i soliti meschini agguati dei soliti noti, è la questione relativa al diritto di mantenere il proprio posto di lavoro in caso di maternità. Su questo neanche si discute, per quanto mi riguarda. Chiarito ciò, io sono fra quelli che crede (e non penso affatto per questo di essere un reazionario oscurantista, al contrario…) che sia assai difficile fare la mamma di un bambino di due anni e contemporaneamente fare anche il sindaco di Roma (è solo un esempio fra i tanti…). Perché se pensiamo che le due cose siano conciliabili vuol dire che una delle due è una sciocchezza, una bazzecola, e io non credo che sia così.
In conclusione, anche se qualcuno/a penserà che il sottoscritto sia un nichilista in erba o peggio un cinico (è l’esatto contrario, altrimenti non scriverei quello che scrivo…) penso che tali contraddizioni siano al momento – e non so dire ancora per quanto e fino a quando – irrisolvibili, data la natura del contesto sociale e culturale in cui ci troviamo a vivere, che si nutre di quelle stesse contraddizioni.