“Due cavalli, un unico fantino”


Oligarchi sono sempre gli altri…

Di tutto il repertorio di immagini e scempiaggini che il passaggio del testimone nel cuore dell’impero ci ha riservato, sembra davvero arduo scegliere la peggiore, ammesso che l’esercizio abbia senso o meriti la pena.

Nonostante tutto, forse sceglierei il discorso di congedo di Joe Biden, per le ragioni che mi appresto a chiarire. In particolare, l’ex presidente degli Stati Uniti d’America aveva affermato che con Trump – attenzione, questo è l’essenziale, proprio con lui e soltanto con lui – si configurava il grave rischio di una oligarchia tecno-capitalistica al potere: “Sta prendendo forma una pericolosa oligarchia”. Ha detto proprio così.  Una minaccia che, a quanto pare, apparirebbe proprio ora e solo ora. Come se fino a ieri non fossimo vissuti nel mondo del 2024, cioè quello dell’occidente tecno-capitalistico che ha da tempo scalzato la democrazia e con lo scettro dell’unipolarismo statunitense strenuamente difeso, di nuovo negli ultimi quattro anni, dai Democratici. Spingendoci ancora più indietro, il tema della crescente pervasività dell’apparato tecnocratico dell’occidente è vecchio e calzante già da decenni. Basta rileggere filosofi pur diversi tra loro, quali Heidegger o Marcuse, fino a Severino, per ritrovarvi, in questo senso, una comune nota di fondo.

D’altra parte, è pur vero che l’immagine di Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e non da ultimo il pirotecnocratico Elon Musk, tutti e tre allineati e coperti davanti a Trump, e interposti tra il nuovo presidente e il resto del suo entourage politico, restituisce una visione con una sua autonoma, marcata e inedita forza di rappresentazione. Segno di un processo, in fase di avvio, di trasformazione e ristrutturazione del Capitalismo. Ma anche di una sostanziale continuità, se non di rafforzamento, perché segno tangibile e plastico dell’estromissione della politica. Si tratta di una questione così centrale che di certo non faremo mancare occasione di seguirla e approfondirla. Torniamo intanto a Biden.

Non è forse, si dirà, quello da lui paventato, se guardiamo la platea dei tre tecno-capitalisti multimiliardari che si offrono al nuovo verbo del trumpismo, un rischio reale?

Come detto sopra, il punto è ovviamente un altro. Quella evocazione non proveniva da un novello Marx o Che Guevara, ma da Biden, che sta dove sta e rappresenta quel che rappresenta. Una affermazione che, pertanto, se dovesse essere valutata oggettivamente, farebbe ridere, essendo destituita di qualsiasi credibilità. A meno che non sia indicativa del tentativo di riposizionamento dei Dem, sponda politica di un mondo progressista che non trova e non troverà di meglio che urlare al nuovo fascismo, usando un armamentario retorico vecchio di decenni, allo stesso tempo vuoto e auto-assolutorio. Cercando di risolvere in contrapposizione mediatica quella che è una continuità di fondo. In questo senso, le affermazioni di Biden potrebbero essere lette nel senso di una strategia proiettiva: allontanare da sé una propria caratteristica attribuendola all’avversario. Naturalmente si può anche dire, in forma più semplice, che davvero il bue Biden ha dato del cornuto all’asino Trump. Se non fosse che in gioco c’è molto. Difficile dire se le oligarchie al potere si rispecchino in Trump più o meno di quanto si siano rispecchiate nei Dem, ma così posta la questione costituisce uno pseudo problema, perché note sono proprio l’adattabilità e le capacità di rigenerazione del Capitalismo. Altrettanto chiaramente, è in atto una parziale rimodulazione delle strutture discorsive a protezione del neoliberalismo. Riassestandosi la struttura, anche la sovrastruttura si modifica. Tuttavia, non in modo univoco, unidirezionale deterministico. E, per altro, non certo in tempi brevi. Il mutamento riguarda, comunque, le strutture discorsive, perché il nocciolo del neoliberalismo, sarà bene metterlo in chiaro, non è in questione e gode anzi di ottima salute.

È interessante, in questo contesto, il rimbalzo di accuse tra le due parti, avente al centro la questione del carattere oligarchico, visto che questo sembra capace di calzare plasticamente ad entrambe. Il trumpismo si è sempre accreditato come espressione popolare contro l’establishement rappresentato dai Dem; ora, da parte loro, anche i Dem sembrano imbracciare lo stesso argomento giocando la carta di rafforzare la rappresentazione della plutocrazia trumpiana che rischierebbe di espropriare una – già da tempo espropriata – democrazia. Entrambe queste rappresentazioni sono dunque false, perché unilaterali e ideologiche. Di certo Trump non fa meno parte dell’establishment e ora getta platealmente la maschera; d’altra parte, un potere oligarchico non nasce di certo con Trump, e i Dem ci hanno sempre ben sguazzato. Ne sono anzi stati, ad oggi, i più compiuti interpreti. Ma i tempi sono cambiati e servono nuovi interpreti, se si vuole continuare a recitare lo stesso copione.

I tre decenni e mezzo che dalla fine della Guerra fredda conducono fino ad oggi hanno rappresentato l’epoca dell’unipolarismo statunitense. Mettiamo in premessa un punto rapido ma centrale:  la Guerra fredda, che aveva contrapposto gli Stati Uniti e l’occidente all’URSS e al sistema dei suoi “paesi satelliti”, ha avuto un chiaro vincitore. È una premessa che si rende necessaria alla comprensione. Anche su un piano semplicemente evocativo, la definizione di “Guerra fredda” come conflitto non apertamente guerreggiato tra le due super-potenze potrebbe indurre come riflesso erroneo l’idea che non si sia chiusa con un vincitore e con uno sconfitto. Nulla è più lontano dal vero: la Guerra fredda è stata vinta dall’Occidente. Senza questa premessa, nulla delle articolazioni logico-causali, innescate da questa vittoria e dalle modalità con le quali è stata gestita, può essere compreso in modo adeguato.

Nella sua matrice originaria, l’ideologia che ha protetto e protegge l’unipolarismo degli Stati Uniti è in primo luogo il neoliberismo, affermatosi con le due figure che, sulle due principali sponde dell’anglosfera, avevano egemonizzato gli anni Ottanta: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Vista nell’insieme, l’epoca che prese avvio nel volgere di un paio d’anni, con la caduta del muro di Berlino e il collasso dell’URSS, e giunge fino ad oggi (trovando a mio parere un punto di svolta nel 2022 con la guerra in Ucraina) è l’epoca dell’unipolarismo statunitense.

Se nella sua prima fase il neoliberismo è stato sospinto soprattutto dai governi conservatori, a partire dagli anni Novanta, per altro senza nulla togliere alla persistenza del precedente e primigenio sodalizio, sono stati tuttavia i partiti della sinistra di sistema ad aver raccolto il testimone, mostrandosi più attivi e più zelanti nel tradurre le ricette del neoliberalismo, che incorpora il neoliberismo come suo elemento costitutivo. Non solo, uscendo dallo stretto campo dell’economia, i partiti della sinistra liberal e di sistema hanno fornito la più convinta sponda dell’ideologia neoliberale, accettando, e anzi promuovendo attivamente la crescente marginalizzazione della questione sociale e arrivando di fatto ad adottare la piattaforma ideologica del politicamente corretto. In quello che appare sempre più chiaramente come il tratto finale, oggi visibile all’orizzonte, del mondo unipolare post-guerra fredda, il vangelo dell’individualismo competitivo formulato dalla Thatcher si è preferibilmente prolungato nel politicamente corretto con le sue appendici ideologiche (femminismo neoliberale, “pari opportunità”, ambientalismo all’acqua di rose, pensiero lgbtq+, transumanesimo), tutte nate sulla ritirata della questione sociale; tutte individualistiche, tutte organiche, in definitiva, alla difesa dell’ideologia di mercato e alla dis-intermediazione della società e della politica. Queste sfere discorsive costituiscono, dunque, gli argini eretti dall’occidente tecno-capitalistico a estrema protezione di un sistema entrato in crisi e di una promessa dimostratasi insostenibile, quella dell’illimitata espansione del mercato.

Tanto più la promessa è illusoria, tanto più occorre serrare i ranghi dell’ideologia. Non è un caso se la stretta del “nuovo ordine digitale”, che, grazie agli strumenti di inedita efficacia predisposti dal “capitalismo di sorveglianza”, capace di imporre una severa chiusura dell’immaginario, sia giunta alla metà degli anni Dieci del Duemila, come risposta ed elemento cardine di ristrutturazione dopo la crisi economica, grave e mai del tutto riassorbita, del 2007/8.  A circa dieci anni di distanza, una nuova ristrutturazione si rende necessaria.

L’ideologia è emanazione di un assetto di potere: il  neoliberismo, il neoliberalismo e il politicamente corretto sono emanazioni dell’atlantismo, dell’unipolarismo e dell’egemonia culturale dell’anglosfera. L’affermazione dell’occidente, sempre più marcatamente a guida Usa, ha istituito un mondo basato sulla proiezione geopolitica unipolare degli Stati Uniti, non ancora insidiati, negli anni Novanta, da un contraltare di pari peso (la “trappola di Tucidide” con la Cina sembra giunta vicina al suo punto di innesco soltanto oggi, cioè tre decenni dopo), mentre l’Europa ha  progressivamente rinunciato alla possibilità di giocare una partita autonoma come terzo polo. I presunti principi di libertà dell’occidente, venuto meno il nemico permanente che li minacciava, il comunismo sovietico, hanno reso necessario individuarne di volta in volta uno nuovo (Saddam Hussein, il Daesh, Assad, Putin…).  La guerra in Ucraina, ponendosi come tassello di una più ampia partita globale, ha reso evidente che l’unipolarismo ultra-atlantista è entrato in una crisi profonda. Si rende opportuno puntualizzare i termini di una periodizzazione che a questo punto si presenta con sufficiente carattere di chiarezza: se quella compresa tra il 1990 e oggi è stata l’epoca dell’unipolarismo statunitense, nel 2022 è probabilmente iniziata l’era multipolare.

Il trumpismo si prospetta, dunque, come tentativo del Capitalismo di ristrutturarsi, alla luce del fallimento della promessa di illimitata espansione del Mercato al centro dell’ideologia neoliberale – senza tuttavia alcun superamento di quest’ultima – e della partita del multipolarismo aperta. Laddove la transizione verso il multipolarismo appare una tendenza storica irreversibile, ignoriamo i tempi e gli esiti di questa partita. Quello che è possibile fare è individuare e descrivere linee di tendenza. E il vecchio mondo non tramonta senza violenti scossoni e insidiosi colpi di coda.

Quanto all’ideologia neoliberale, saranno le sue strutture discorsive, che fino ad oggi sono state codificate nel politicamente corretto, a subire delle trasformazioni, ma questa mutazione non investe la natura fondamentale di quel progetto. Tre decenni e mezzo hanno profondamente plasmato l’immaginario dei subalterni. Un vantaggio che le élite occidentali non intendono di certo perdere. Per altro, interi pezzi del vecchio corredo ideologico potranno essere mantenuti. In primis, tutte le destre di sistema, non meno delle sinistre, si sono sempre mostrate condiscendenti e solerti nei confronti del femminismo neoliberale. Per il resto, sul tema della democrazia il progetto transumanista e anarco-capitalista potrà proseguire con meno fronzoli rispetto a quanto ha fatto sino ad oggi. Lo stesso quadro neoliberale potrà venarsi di politicamente scorretto, senza per questo smentirsi. Verosimilmente diminuirà i suoi sforzi di ammantare e ricoprire le pulsioni suprematiste con il rivestimento della superiorità morale, per lasciare posto al più crudo assioma dell’”America first”. Farà meno ricorso alla dissimulazione, specialità della casa progressista, per reclamare direttamente l’investitura di diritto della forza.

Trump ha vinto perché la spinta woke era esausta. Torna ancora una volta in mente la felicissima espressione di Noam Chosmky: “due cavalli, un unico fantino”.

Fonte foto: AP News (da Google)

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