Quando qualcuno lascia questo mondo – a parte i casi di criminali o tiranni conclamati e riconosciuti – si tende in molti casi a celebrarlo oppure ad avere parole benevole nei suoi confronti, a dimenticare o alleggerire i suoi torti o i suoi difetti e a ricordare i suoi meriti e i suoi pregi. E in fondo è anche normale che ciò avvenga e non c’è nulla di male. Molto più utile però, a mio parere, è cercare di tracciare un profilo e un’analisi corretta del suo operato, specie quando si tratta di un uomo pubblico come ad esempio un leader politico.
E’ il caso di Gianni De Michelis, ex dirigente e ministro socialista, che è scomparso pochi giorni fa. Ho letto diversi commenti in questi giorni di miei amici e compagni socialisti, alcuni condivisibili, altri meno, però più o meno tutti ispirati a ricordare gli aspetti positivi (anche se non privi di forti accenti critici) della persona.
Mettendo, ovviamente, da parte il lato umano della vicenda (il rispetto nei confronti di chi viene a mancare è sempre doveroso, a parte i casi citati nell’incipit dell’articolo…), il mio giudizio (politico) sull’uomo politico De Michelis (quello umano non sono in grado di darlo non avendolo mai conosciuto di persona) è sicuramente negativo.
De Michelis è stato uno degli affossatori del socialismo italiano insieme al suo capo, Bettino Craxi, di cui sposava in toto la linea e di cui anzi era uno dei principali ispiratori insieme a Claudio Martelli anche se, ovviamente, tra i due c’era un abisso. De Michelis era un intellettuale, un pensatore vero, un uomo di grande cultura politica, mentre il secondo è ed era soprattutto allora poco più che un guitto, giovane, caruccio, rampante, salottiero e di bella presenza, cosa che non guastava affatto in una fase storica in cui l’impatto mediatico cominciava ad essere fondamentale nell’era dell’incipiente nulla assoluto che proprio quel “nuovo corso” inaugurò.
Martelli, più che De Michelis, simboleggiava perfettamente il vuoto pneumatico culturale e politico degli anni ’80, cioè gli anni del riflusso dopo la grande stagione di lotte sociali degli anni ’70, che il PSI craxiano interpretava sicuramente al meglio rispetto agli altri due grandi partiti di massa, la DC e il PCI, in fondo ancora intrisi della vecchia cultura e scuola politica che il “nuovo corso” craxiano fece di tutto per distruggere. L’obiettivo strategico del gruppo dirigente craxiano – di cui De Michelis era una delle punte di diamante – era quello di porsi alla guida del processo di “modernizzazione” capitalista, soprattutto in seguito alla grande e storica sconfitta del movimento operaio (che segnò la fine di un’epoca) del 1980, contestualmente alla famosa o meglio famigerata “marcia dei quarantamila” quadri FIAT, organizzata dai vertici dell’azienda con la complicità di alcuni sindacati gialli e collaborazionisti. L’obiettivo strategico del gruppo dirigente craxiano era quello di distruggere il PCI (e la Cgil) che, sia pur con enormi limiti e contraddizioni o magari anche solo nominalmente, rappresentava in qualche modo il conflitto di classe in questo paese o ciò che di esso rimaneva. Il “socialismo liberale” di craxiana e martelliana (e demichelisiana) memoria consisteva nel superamento del conflitto sociale, nella totale accettazione del sistema capitalista e in un pallidissimo e generico riformismo – parola stra-abusata da tutti, soprattutto da Berlusconi, considerato da molti l’erede politico di Craxi (anche se a me personalmente questa sembra una eccessiva semplificazione…) – che non solo lasciava inalterata la struttura del sistema ma si proponeva appunto di governarla e modernizzarla. Con l’eccezione della politica estera dove in effetti il gruppo dirigente craxiano dimostrò di avere una notevole autonomia e anche coraggio (in particolare Craxi) – mi riferisco, naturalmente, nello specifico, alla vicenda di Sigonella e in generale alla politica nel bacino del Mediterraneo (che incontrava, va detto, anche il favore della Democrazia Cristiana e ovviamente anche del PCI) – tutta la politica e tutti gli atti politici messi in campo da quel partito e da quel gruppo dirigente furono finalizzati a disinnescare e a combattere ogni forma del conflitto sociale e naturalmente delle sue espressioni e rappresentanze politiche. L’attacco ideologico e politico, che a volte toccava vette parossistiche, nei confronti del PCI, che veniva accusato di essere ancora un partito vetero togliattiano se non peggio (ci sarebbe da ridere, soprattutto a pensare a ciò che quel partito era già in erba e, peggio, a ciò che sarebbe diventato…) era in realtà motivato da quella volontà. Il referendum di cui lo stesso PSI si fece promotore (e che vinse, non da solo, ovviamente) per abolire la scala mobile segnò forse il momento più alto dello scontro con il PCI e con la sinistra. E poi l’alleanza strategica, di ferro, con la DC, in particolare con quella del grande centro doroteo, quello di Andreotti e Forlani (il cosiddetto “CAF”, cioè Craxi, Andreotti, Forlani), sempre in funzione anticomunista, nella direzione opposta e contraria a quella che era una volta la linea del vecchio Partito Socialista guidato da Francesco De Martino. Quest’ultimo fu accusato di aver portato il PSI al minimo storico (nelle elezioni politiche del 1976). Vista la fine che ha fatto il PSI di Craxi (al di là ora di ciò che è stata la vicenda di Tangentopoli che richiederebbe una analisi ad hoc…) sarebbe stata quanto meno dignitosa una riflessione autocritica, sia pur postuma, da parte dei “craxiani ortodossi” che invece non c’è mai stata.
Anche sul piano simbolico Craxi e “compagni” fecero tutto quanto era nelle loro possibilità pur di rompere con la storia e la tradizione della sinistra e del socialismo; via i vecchi simboli, via il libro, via il sole e via la falce e martello sostituita con il ben più rassicurante garofano, e congressi ridotte a kermesse post-moderne, alle famose assemblee di “nani e ballerine”, per utilizzare le stesse parole di Rino Formica, uno dei pochissimi dirigenti socialisti che tentava di abbozzare una sia pur timidissima critica (forse solo per ritagliarsi uno spazio all’interno del partito) alla indiscussa leadership craxiana fondata sulla distribuzione sistematica di incarichi di governo e sottogoverno a tutto il notabilato di partito, ai vari livelli.
L’era craxiana è stata complessivamente una sciagura per la sinistra. La cannonata sparata da Craxi e dai suoi sodali al movimento socialista italiano ha di fatto anticipato quella che sarà poi sparata da Occhetto e ancor più dai suoi successori al PCI. La distruzione del PSI ha solo anticipato i tempi rispetto a quella che sarebbe stata la distruzione del PCI. Con le conseguenze che tutti abbiamo oggi sotto gli occhi.
De Michelis è stato uno dei massimi artefici e protagonisti di quel processo politico e ne porta anche lui, in prima persona, la responsabilità. Politicamente parlando, non ne sentiremo di certo la mancanza.
Fonte foto: Remocontro (da Google)